Parole di

Sri

Anandamayi Ma

 

 

 

 

Prefazione

 

Questo libro contiene una selezione di risposte date da Sri Anandamayi Ma a domande che furono poste, e registrate, durante incontri con grandi o piccoli gruppi di persone. Le risposte non sono state disposte in ordine cronologico ma, per quanto possibile, secondo argomenti. Le questioni più semplici sono state poste all’inizio. Gli argomenti trattati riguardano la meditazione, il sentiero spirituale, la realizzazione del Sé e tutta una serie di problemi d’ordine pratico, filosofico e metafisico che incontrano i ricercatori della verità nelle varie fasi della ricerca. Mataji risponde esattamente secondo le capacità di comprensione dell’interlocutore, la sua particolare disposizione e la sua linea d’approccio, illuminando ogni singola questione da punti di vista differenti. Di fatto nelle sue risposte troviamo uniti ogni credo e filosofia, ogni scuola di pensiero e metodo yoga; tuttavia lei rimane al di sopra e al di là di tutto. Di lei è stato detto che aveva la parola giusta, al momento giusto e nella maniera giusta per ogni ricercatore spirituale, sia che fosse un credente o un agnostico, un intellettuale, uno studioso, un analfabeta, un novizio o un ricercatore molto avanzato sul sentiero. Come la terra dà ad ogni pianta le sostanze necessarie alla sua crescita, così Sri Anandamayi Ma guidava ogni aspirante secondo le sue specifiche necessità del particolare momento. Le sue risposte non venivano dalla mente. Ella affermò spesso in maniera inequivocabile di non parlare ad un ‘altro’. Per lei tutto era l’Unico Essere Supremo che si manifestava nella diversità infinita rimanendo, nello stesso tempo, al di là di ogni espressione e limitazione, senza forma, immutabile e inconcepibile. In Quello non c’è possibilità di distinzioni, che pure esistono al nostro livello. Le domande sono poste dal punto di vista dell’individuo, ma la vera risposta sta oltre l’ego-mente, dove non esiste separazione né divergenza d’opinioni.

Colui che registrò i dialoghi, Brahmachari Virajananda, conosciuto da tutti i devoti e visitatori dell’ashram di Sri Anandamayi come ‘Kamalda’, incontrò per la prima volta Mataji a Dacca, nel 1926, e da allora le rimase vicino. Nel 1942 entrò a far parte dell’ashram, divenendone uno dei più devoti e importanti collabo­ratori. Dotato di un’intelligenza acuta e di una grande sete di conoscenza, ebbe l’intenso desiderio di registrare le esatte parole di Mataji, convinto che sgorgavano spontaneamente da profondità alle quali i comuni esseri umani non hanno accesso. Per il proprio studio e la propria illuminazione, ogni volta che ne ebbe l’oppor­tunità cominciò ad annotare le parole di Mataji così come le sentiva pronunciare. Nonostante i suoi numerosi doveri come cosegretario dello Sri Sri Anandamayi Sangha, come amministratore dell’ashram di Benares, ecc., non appena veniva a sapere che Mataji stava rispondendo a delle domande, lasciava subito il lavoro che aveva sotto mano e si precipitava dove si svolgeva la discussio­ne. Nella quiete della notte trascriveva in bella copia le registrazioni, ponderando sul significato profondo di quanto aveva udito e scritto. Le prime luci dell’alba gli ricordavano spesso d’avere trascorso la maggior parte della notte in questo tipo di medita­zione.

Nello zelo di preservare le affermazioni di Mataji nella loro purezza originaria e con la più grande precisione possibile, egli sviluppò presto una tecnica tutta sua. Poteva aver perso una parola qui o là, ma non perdeva mai il filo di ciò che veniva detto. Se per qualche motivo gli era impossibile registrare parte della conversa­zione, sentiva la cosa come una dolorosa perdita personale. In molte occasioni del genere, però, con sua grande gioia sentiva in seguito Mataji spiegare lo stesso punto a qualcun altro, e delucidare la parte della conversazione che gli era sfuggita. Non solo Virajananda, ma anche molti altri che erano a contatto con Mataji ricevevano la risposta ancor prima di porre la domanda.

A volte Mataji diceva di sé: “Questo corpo è come uno strumento musicale; ciò che sentite dipende da come lo suonate. La cosa meravigliosa è che rispondeva anche ai tocchi silenziosi! Ecco un esempio impressionante: una notte, a Puri, ci fu una conversazione in riva al mare. Con vivo disappunto, poiché non c’era luce, Virajananda non fu in grado di scrivere. Poco tempo dopo, però, sentì Mataji rispiegare l’intero argomento praticamente con le stesse parole, e allora poté annotarlo per intero. È uno dei discorsi più ispiranti (il XXV° di questa raccolta), che probabilmente dà un’idea più completa di qualunque altro dell’universalità di Mataji.

I diari di Brahmachari Virajananda comprendono parecchi volumi. Quando, nel 1953, egli ne mostrò uno al dr. Gopinath Kaviraj, quel grande sapiente fu profondamente colpito dal suo contenuto. Egli suggerì di pubblicare estratti di quei diari su Ananda Varta (il giornale trimestrale dello Sri Sri Anandamayi Sangha) e propose di scrivere per essi dei commenti. Lui stesso scelse le conversazioni da pubblicare, che apparvero su Ananda Varta dal maggio 1953 all’agosto 1958 sotto il titolo ‘Mataj’s Amara Vani’, sia nell’originale bengali sia nelle traduzioni in hindi e in inglese. Questo volume ripresenta la versione accuratamente rivista della traduzione inglese della maggior parte di quelle conversazioni.

Mataji parla di ciò che è oltre l’esperienza dell’individuo comune e che, tutt’al più, può essere solo accennato con le parole. Non sorprende dunque che il suo linguaggio non sia conforme né al bengali letterario né a quello parlato. Ella ha dato un significato nuovo a molte espressioni comuni e, a volte, ha coniato parole nuove con un’etimologia tutta sua. Il suo linguaggio è originale e pertinente, intensamente vivo ed espressivo, è spesso sintetico e incisivo, privo di ogni parola superflua. In certi casi, quando esprime delle verità profonde, il suo linguaggio diviene ermetico.

La differenza tra la lingua bengali e quella inglese è ben nota. In inglese non esistono parole adeguate per molti termini bengali. In alcuni casi è stato necessario tradurre due o tre parole bengali con un’intera frase o proposizione. Non si è tralasciato alcuno sforzo per tradurre il più precisamente possibile ogni espressione così com’è stata registrata. Nello stesso tempo, il traduttore ha cercato di preservare, per quanto possibile, il significato esatto delle parole insieme al loro ritmo, alla loro bellezza, al loro carico d’ispirazione, all’immacolata e intangibile qualità che pervade ogni espressione di Mataji – le sue parole, i suoi canti, i suoi gesti e il suo sorriso.

Se nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a rendere questa traduzione perfetta come avrebbe dovuto, ci sia permesso citare le stesse parole di Mataji: “Sforzatevi al limite del vostro potere, per quanto piccolo possa essere. C’è Lui a comple­tare ciò che è stato tralasciato di fare”.

Preghiamo Mataji di accettare benevolmente quest’umile offer­ta posta ai suoi sacri piedi. Possano le sue parole illuminare il nostro sentiero!

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo I

 

Solan, 12 settembre 1948

 

Solo raramente si poteva avere da Mataji una risposta precisa a un dato problema, così mi sono chiesto a che serviva annotare le sue parole. Mi sono rivolto allora a Mataji.

 

Mataji: Hai compreso almeno che vi è uno stato in cui i problemi non si risolvono in un modo ben definito. Nel corso della tua vita, dopo attenta riflessione, sei giunto a una conclusione su molte questioni, non è così? Adesso devi capire che nessuna soluzione è definitiva; in altre parole, devi andare oltre il livello di certezza e incertezza. La soluzione di un problema che si ottiene con la mente dev’essere per forza di cose da un particolare punto di vista; di conseguenza ci sarà possibilità di contraddizione, poiché la tua soluzione rappresenta solo un aspetto. Allora, di fatto, cosa hai risolto? Troverai la soluzione completa e finale di ogni singola questione nel suo stesso modo di mostrarsi; e vedrai che c’è un posto in cui tutti i problemi (reali e possibili) hanno una sola soluzione universale, in cui non vi è alcuna possibilità di contraddizione. Allora non sorgerà più la questione tra soluzione e non soluzione: che uno dica ‘sì’ o ‘no’ – ogni cosa è QUELLO.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo II

 

Solan, settembre 1948

 

 

Riguardo al valore dei discorsi religiosi e filosofici, Mataji disse:

 

Ascoltando frequentemente dialoghi e discorsi su argomen­ti del genere, apparirà gradualmente il sentiero verso la conoscenza diretta di quanto è stato udito. È come una goccia d’acqua che cadendo ininterrottamente su una pietra alla fine la buca, e così può passarvi un flusso che porterà l’Illumi­nazione.

 

Durante l’attenta lettura dei testi sacri, durante l’ascolto dei discorsi religiosi, durante il kirtan, Dio dev’essere l’alfa e l’omega di qualunque cosa si faccia. Quando leggete, leggete di Lui; quando parlate, parlate di Lui; e quando cantate, cantate le Sue lodi. Queste tre pratiche sono realmente la stessa cosa; ma siccome le persone rispondono in maniera diversa, la stessa cosa è espressa in tre maniere differenti per soddisfare i diversi temperamen­ti e le capacità d’assimilazione. Nell’essenza c’è solo e soltanto Lui, anche se ciascuno ha il proprio sentiero personale che porta a Lui. Il sentiero adatto dipende dalla predilezione personale, basata sul carattere specifico delle attitudini interiori.

 

Prendiamo ad esempio lo studio del vedanta. Alcuni ricercatori vi s’immergono completamente, mentre altri possono rimanere talmente assorti nel kirtan da cadere in trance.

 

Uno studente del vedanta può essere completamente assorto nei suoi testi, anche più di colui che viene trascinato dal kirtan. Si potrà pervenire alla concentrazione totale mediante lo studio di una particolare scrittura o con altri mezzi, secondo la propria particolare linea d’approccio.

Prima viene l’ascolto, poi la riflessione, e infine la messa in atto di quanto si è udito e ponderato. Ecco perché bisogna prima di tutto ascoltare, per potere poi scegliere il vedanta o il kirtan o qualsiasi altra cosa.

 

Non avete mai incontrato persone che non danno peso al kirtan e che dicono: “Che c’é da guadagnare con esso?”; nondimeno, dopo averlo ascoltato per qualche tempo, sviluppano una forte attrazione. Bisogna dunque ascoltare prima di poter riflettere; in seguito ciò che è stato ascoltato e ponderato prenderà forma nell’azione più adatta alla persona in questione. Ascoltare discorsi su Dio o sulla Verità è certamente benefico, a condizione che non si sia mossi da uno spirito di critica negativa o di denigrazione se dovessero esservi differenze d’opinione. Trovare difetti negli altri crea ostacoli per tutti: per chi critica, per chi è criticato e per coloro che ascoltano le critiche. Al contrario, quanto è detto in uno spirito di confronto è fruttuoso per tutti. Si può parlare di satsang* solo quando non c’è più il pensiero di considerare qualcosa inferiore o biasimevole (asat).

 

Chi è un vaishnava? Chi vede Vishnu ovunque. E uno shakta? Chi vede solo la Grande Madre e nient’altro che Lei. In verità tutte le diverse forme di pensiero hanno origine da una sorgente comune. Allora, chi dev’essere biasimato, chi dev’esse­re insultato o distrutto? Tutti sono uguali nell’essenza.

 

Tu sei la Madre, Tu sei il Padre,

Tu sei l’Amico e il Maestro,

Invero, Tu sei tutto in tutti.

Ogni nome è il Tuo Nome,

Ogni qualità è una Tua Qualità,

Ogni forma è davvero la Tua Forma.

 

Come puro Essere non manifesto, Egli è anche dove non esistono forme. Dipende tutto dalla propria linea d’approccio.

 

Non si dice che ciò che gli shivaiti considerano il supremo (parama) Shiva, e che coloro che ricercano il Sé chiamano l’Unico Sé, non sia altro che lo stesso Brahman?  In realtà non vi è contraddizione. Finché si percepisce la minima differenza, sia pure dello spessore di un capello, come si può parlare dello stato del puro Essere?

 

Per questo, indipendentemente dal sentiero che si sceglie, è sempre Quello. Vedanta* in effetti significa la fine di differenza e non-differenza.

 

Quando si è impegnati nella sadhana, ci si deve concentrare in un’unica direzione; ma cosa avviene una volta completata? Cessa ogni differenza, distinzione e disaccordo. Le differenze invero esistono sul sentiero, ma come potrebbero esserci differenze nella Meta?

 

*) – Un gioco di parole: Sat significa Vero Essere, il Bene; satsang l’associarsi con il bene, e anche riunione religiosa. Asat, il contrario di Sat, significa non-essere, male, errore. Trovare dunque il male (asat) in una riunione religiosa (satsang) è una contraddizione in termini.

*) – Vedanta: la parte finale o il culmine della saggezza Vedica. Qui Mataji gioca con le parole Veda e bheda o differenza. In bengali le lettere b e v si pronunciano allo stesso modo. Anta significa ‘fine’.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III

 

 

Solan, 16 settembre 1948

 

Una signora* appartenente ad una ben nota famiglia indiana, che si era distinta per aver dedicato la sua vita al servizio sociale, venne per avere il darshan di Mataji e chiese:

 

La capacità di meditare viene con la pratica in questa vita o è un’attitudine che si acquisisce nelle vite precedenti?

 

Mataji: Può essere il risultato di una delle due o la combina­zione di entrambe. La meditazione va praticata ogni giorno della propria vita. Guarda, cosa c’è in questo mondo? Nulla di durevole; perciò volgi il tuo desiderio all’Eterno. Prega affinché il lavoro compiuto tramite te, Suo strumento, possa essere puro. RicordaLo in ogni azione. Più puro sarà il tuo pensiero, più sottile sarà il tuo lavoro. In questo mondo ricevi una cosa e domani potrebbe essere già sparita. Ecco perché la tua vita dev’essere animata da uno spirito di servizio; qualunque cosa tu faccia, pensa che il Signore accetta i tuoi servizi. Se desideri la pace devi aver caro il pensiero di Lui.

 

Domanda: Quando ci sarà pace sulla terra?

 

Mataji: Sai qual è lo stato attuale delle cose; le cose vanno come sono destinate ad andare.

 

Domanda: Quando cesserà questo stato d’agitazione?

Mataji: Anche il fatto che molti di voi siano preoccupati e chiedano: “Quando finirà?”, è uno dei Suoi modi di manifestarSi.

Jagat (mondo) significa movimento incessante, e ovviamente non può esservi quiete nel movimento. Come potrebbe esservi pace nel perpetuo andare e venire? La pace regna dove non c’è andare né venire, né struggersi né bruciarsi. Inverti il tuo corso, vai verso di Lui; allora ci sarà speranza di pace.

Grazie al tuo japa e alla tua meditazione, anche quelli che ti sono vicini trarranno giovamento dalla benefica influenza della tua presenza. Per sviluppare il gusto della meditazione devi fare uno sforzo deliberato e sostenuto, come i bambini che vanno fatti sedere a studiare sia con la persuasione sia con la forza. Un malato può guarire se prende le medicine o gli fanno delle iniezioni. Anche se non sei incline a meditare, conquista la tua riluttanza e fai una prova. L’abitudine d’innumerevoli vite ti spinge nella direzione opposta e ti rende difficile concentrarti; persevera malgrado ciò! Con la tua tenacia guadagnerai forza e sarai forgiata, vale a dire svilupperai la capacità di fare sadhana. Convinci la tua mente che, per quanto arduo, il compito va svolto. Fama e riconoscimento durano solo per poco; non t’accompagneranno quando lascerai questo mondo. Se il tuo pensiero non si volge naturalmente all’Eterno, fissacelo con uno sforzo di volontà. Qualche severo colpo del destino ti spingerà verso Dio, e sarà solo un’espressione della Sua Misericordia. Per quanto doloroso, è con questi colpi che s’impara la lezione.

L’ostinazione della mente va vinta con fermezza. Che la mente collabori o meno, devi essere irremovibile nella determinazione di compiere senza fallo un certo numero di pratiche – semplicemente perché la sadhana è il vero lavoro dell’uomo. A lungo sei stata abituata a compiere azioni che incatenano; per questo sei continuamente spinta a legarti all’attività dalla forza delle abitudini. Se farai per qualche tempo un serio sforzo, potrai vedere da sola quanto sei presa dal tuo lavoro, e più t’impegnerai nella sadhana più veloce sarà il tuo progresso.

Per quanto riguarda l’abbandono di sé: sforzandosi di vivere costantemente una vita di dedizione, un giorno accadrà. Che significa abbandono, se non abbandonarsi al proprio Sé? Ricorda ciò che questa tua piccola figlia** ti chiede di fare!

 

*) – La signora Rameshwari Nehru.

**) – Spesso Mataji si riferiva a se stessa in questi termini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo IV

 

 

Solan, 11 settembre 1948

 

Vennero un funzionario di stato e sua moglie per il darshan di Mataji; l’incontravano per la prima volta. Mataji rispose ad una loro domanda:

 

Se affermate di non avere fede, dovete esserne profonda­mente convinti. Dove c’è il ‘no’, è potenzialmente presente anche il ‘sì’. Chi può affermare di essere oltre la negazione e l’afferma­zione? Avere fede è imperativo. L’impulso naturale di avere fede in qualcosa, profonda­mente radicato nell’uomo, sfocia nella fede in Dio. Per questo la nascita umana è un dono molto grande. Non si può dire che qualcuno non abbia fede. Tutti credono sicuramente in una cosa o nell’altra.

La parola ‘manus’ (uomo) deriva da ‘man’ (mente) e ‘hus’ (conscio), e indica la consapevolezza e la vigilanza della mente. Ciò implica che la vocazione naturale dell’uomo è la conoscenza di Sé. Quando i bambini imparano a leggere e scrivere, devono accettare il rimprovero e la critica. Anche Dio ogni tanto dà all’uomo una dolce percossa, che è solo un segno della Sua misericordia. Dal punto di vista del mondo questi colpi sono considerati estremamente dolorosi, ma in realtà trasformano il cuore e conducono alla pace; turbando la felicità mondana, inducono l’uomo a cercare il sentiero della beatitudine suprema.

È vero che il corpo vive respirando, e che dunque c’è sofferenza.*

Ci sono due tipi di pellegrini sul cammino della vita: il primo è come un turista, che desidera vedere cose interessanti, andare da un posto all’altro, passare rapidamente per gioco da un’esperienza all’altra. Il secondo percorre il sentiero che pertiene alla vera essenza dell’uomo e che porta alla sua vera dimora, alla conoscenza di Sé. Nel viaggio intrapreso per amore della curiosità e del piacere s’incontrerà certamente il dolore. La sofferenza è inevitabile finché non si ritrova la propria vera dimora. La causa originaria della sofferenza è il senso di separazione, che è fondato sull’errore, sulla concezione della dualità. Ecco perché il mondo è chiamato ‘du-niya (basato sulla dualità).

Il credo di un uomo è fortemente influenzato dal suo ambiente; per questo deve scegliere la compagnia dei santi e dei saggi. Credere significa credere nel proprio Sé, non credere è scambia­re il non-sé per il Sé.

Ci sono esempi di realizzazione avvenuti per grazia di Dio; altre volte si può constatare che Egli risveglia nell’individuo un ardente desiderio di verità. Nel primo caso la realizzazione avviene spontaneamente, nel secondo è causata dalle tribolazioni; ma tutto è opera soltanto della Sua misericordia.

L’uomo pensa di essere l’autore delle sue azioni, ma in effetti ogni cosa viene diretta da ‘Lì’; si è collegati ‘Lì’ come ad una centrale elettrica, tuttavia l’uomo dice: ‘Io faccio’. È meraviglioso! Quando malgrado ogni sforzo non si riesce a prendere il treno, questo fatto non mostra chiaramente da dove sono diretti tutti i nostri movimenti? Qualunque cosa accada ad ognuno, ovunque e in qualsiasi momento, è stabilito da Lui; i Suoi piani sono perfetti. Tra Dio e l’uomo esiste un legame eterno; ma nel Suo Gioco questo legame a volte c’è e altre volte è tagliato o, piuttosto, appare tagliato. In realtà non è così, perché il legame è eterno. Osservato da un altro punto di vista, non c’è alcun legame. Un uomo che venne a trovare questo corpo disse: “Sono per voi un nuovo venuto”; ed ebbe la risposta: “Davvero sempre nuovo e sempre vecchio!”.

La luce del mondo viene e va, è instabile. La Luce eterna non può mai estinguersi: vedete la luce esterna e tutte le altre cose dell’universo mediante questa Luce; potete percepire la luce esterna solo perché essa splende sempre dentro di voi. Potete vedere ogni cosa nell’universo solo grazie alla grande Luce che è in voi; potete acquisire conoscenze di qualsiasi tipo solo perché la Conoscenza Suprema dell’essenza delle cose giace nascosta nelle profondità del vostro essere.

Il cervello umano può essere paragonato alla radice di un albero; se si annaffia la radice, il nutrimento giunge ad ogni parte della pianta. A volte dite che il vostro cervello è stanco. Quando succede? Quando siete troppo presi dalle cose esterne; ma non appena tornate a casa e parlate con i vostri cari, la vostra testa diventa più leggera e vi mostrate pieni di gioia. Per questo si dice che poiché il cervello vi appartiene, il lavoro che fate non può stancarvi. In effetti, ogni lavoro è il vostro lavoro; ma come potete comprenderlo? In verità il mondo intero è vostro, del vostro Sé; ma voi lo percepite separato, così come vedete gli ‘altri’. Sapere che è vostro dà felicità, l’idea che è separato da voi causa sofferenza. Percepire la dualità significa dolore, conflitto, lotta e morte. Pitaji,* praticate qualche tipo di sadhana!

Interlocutore: È tutto nelle mani di Dio.

Mataji: Esattamente! Tenetelo sempre in mente: ogni cosa è nelle mani di Dio e voi siete il Suo strumento, che Lui usa come vuole. Cercate di capire il significato di ‘tutto è Suo’, e vi sentirete subito libero da ogni peso. Quale sarà il risultato del vostro abbandono? Nessuno vi sembrerà estraneo, tutto sarà il vostro intimo Sé.

Dissolvete il senso di separazione con la devozione oppure bruciatelo con la conoscenza; cosa si dissolve o brucia? Solo ciò che per sua natura può essere dissolto o bruciato, cioè l’idea che esista qualcos’altro oltre il Sé. Che succederà allora? Conoscerete il vostro Sé.

Tutto è possibile in virtù del potere del guru; perciò cercate un guru. Nel frattempo, poiché tutti i nomi sono il Suo nome, tutte le forme le Sue forme, sceglietene una e fatene la vostra perenne compagna. Nello stesso tempo Lui è anche senza nome e senza forma; per il Supremo è possibile essere qualunque cosa e anche nulla. Finché non trovate un guru, siate devoto al nome o alla forma di Lui che più vi attrae, e pregate incessantemente che Lui vi si riveli come il Sadguru. In verità il guru è dentro, e finché non scoprite il guru interiore nulla può essere consegui­to. Se non sentite il desiderio di rivolgervi a Dio, sviluppatelo praticando una sadhana quotidiana, proprio come fanno i bambini a scuola, che devono seguire un orario stabilito.

Se la preghiera non sgorga spontaneamente dal vostro cuore, chiedetevi: “Perché trovo piacere nelle cose fugaci di questo mondo?”. Se desiderate ardentemente una cosa esterna o vi sentite particolarmente attratti da una persona, fermatevi e dite a voi stesso: “Guarda, stai per essere incantato dal suo fascino!”. Esiste un luogo in cui non vi sia Dio? La vita di famiglia, l’ashrama del capofamiglia, può condurvi ugualmente nella Sua direzione, a condizione che l’accettiate come ashrama. Vissuta in questo spirito, aiuta l’uomo ad avvicinarsi alla realizzazione del Sé.

Se invece desiderate intensamente cose come fama o posizione, Dio ve le concederà, ma non vi sentirete soddisfatto. Il Regno di Dio è un tutt’uno e, fino a quando non sarete ammessi alla sua totalità, non potrete essere contento. Egli vi concede giusto un minimo, solo per tenere vivo il vostro malcontento, poiché senza malcontento non può esservi progresso. Voi, che siete discendenti dell’Immortale, non potrete mai rassegnarvi al regno della morte, né Dio vi permetterà di restarci. Lui stesso suscita in voi un senso d’incompletezza concedendovi una piccola cosa solo per stimolare il vostro desiderio di qualcosa di più grande. È così che Lui vi spinge avanti. Il viandante trova difficile questo sentiero e si sente turbato, ma chi ha occhi per vedere percepisce chiaramente che il pellegrino avanza. Il dolore che si prova riduce in cenere il piacere che deriva dalle cose del mondo. Questo è ciò che si chiama tapasya. Quel che ostacola il sentiero spirituale porta con sé i semi della sofferenza futura; ma l’angoscia e l’intenso dolore che deriva da queste ostruzioni sono l’inizio di un risveglio alla Coscienza.

 

 

*) – La vita umana, e quella animale in generale, dipende dal respiro, che è un elemento di disturbo nell’equilibrio universale. L’intera creazione è caratterizzata da questo ‘disturbo’. Il processo del respiro implica un duplice movimento, verso l’interno e verso l’esterno, e una pausa regolare tra i due. Lo stato d’armonia si può raggiungere liberandosi dallo stimolo al movimento, pervenendo al riposo, alla calma e alla pace; ciò è possibile mediante lo yoga. Quando si è in uno stato di perfetto equilibrio, non c’è più bisogno di respirare.

 

 

 

 

Capitolo V

 

Solan, 21 settembre 1948

 

Una ragazza si rivolse a Mataji e disse:

Quando siedo per meditare non desidero contemplare alcuna forma, ma com’è possibile meditare sul senza forma? Ho notato che a volte, quando cerco di meditare, immagini di divinità fluttuano davanti alla mia mente.

 

Mataji: Devi contemplare qualunque immagine sorga nella tua mente. Osserva in quale forma Dio ti Si manifesta. La stessa forma non soddisfa tutti. Per alcuni può essere di maggiore aiuto Rama, per altri Shiva, per altri Parvati e per altri ancora il Senza-forma. Lui è certamente senza forma ma, nello stesso tempo, osserva in quale forma particolare ti appare per mostrarti la via. Devi contemplare in ogni particolare qualunque Sua forma si presenti alla tua mente.

Procedi così:

Quando siedi a meditare, contempla dapprima la forma di una divinità; immaginala seduta sul suo trono, inchinati davanti a lei e fai japa. Terminato il japa inchinati ancora una volta e, dopo averla installata nel tuo cuore, alzati dal seggio. Questa potrebbe essere in breve la tua pratica, se non riesci a meditare sul Brahman.

Abbi la ferma convinzione che in ogni momento, senza eccezioni, Egli sta facendo e farà ciò che è meglio per te. Pensa così: “Egli si è rivelato a me in questo particolare aspetto per aiutarmi. Egli è con forma e senza forma; l’intero universo è in Lui ed è pervaso da Lui. Per questo si dice: ‘Il Sadguru è il Maestro del mondo e il Maestro del mondo è il Sadguru”’.

Quel che ho detto è inteso particolarmente per te. La stessa cosa non vale per tutti. Più Lo contempli, più rapido sarà il tuo progresso. Se nella tua mente sorge un’immagine di Lui, è Lui, così com’è Lui il Senza-forma. Osserva ciò che viene spontaneamente.

Capitolo VI

 

 

Benares, 18 agosto 1948

 

Domanda: Come può la meditazione su un aspetto particolare condurre alla meditazione del tutto? È possibile concentrarsi completamente solo su un aspetto. Si dice che quando si è assorti in meditazione, vi sia una graduale espansione della coscienza; e che quando la mente raggiunge ciò che è oltre la sua capacità di comprensione, si dissolva spontanea­mente (laya). Non c’è più la meditazione, ma la conoscenza divina (Jnana). Alcuni sostengono questa teoria, ma non capisco come, con questo metodo, la mente possa pervadere tutto.

Mataji: La meditazione (dhyana), quando è veramente tale, avviene spontanea­mente. Deve venire da sé, senza sforzo. Dite poi che la mente si dissolve (laya), ma qual è la sua origine?

Interlocutore: Il Sé (Atman). La Sruti afferma che essa è stata emanata dal Sé come un’ombra.

Mataji: Dove c’è nascita, ci dev’essere dissoluzione (nasa); volete dire questo? Se fosse così, la mente dovrebbe riemergere. Dite che non riuscite a capire l’onnipresenza della mente; questo è naturale, perché non è una cosa che si può afferrare – non è una cosa né può essere afferrata. Voi fate l’esperienza dei piaceri e delle sofferenze del mondo; d’altra parte, durante la meditazione godete di una temporanea felicità o beatitudine. Anche questa è un’esperienza, vero? Anche se di natura leggermente diversa dalla prima.

Quando un uomo descrive o riferisce un’esperien­za, dopo essere sceso dalle altezze dell’estasi divina (samadhi), ciò vuol dire che per lui esistono ancora ascesa e discesa, altrimenti perché dovrebbe usare quelle espressioni? C’è però uno stato in cui ascesa e discesa sono fuori questione. Potreste sostenere che la mente va considerata esistente in samadhi, anche se in uno stato d’assorbimento; altrimenti, uscendo dal samadhi, come potrebbe quella persona parlare delle esperien­ze che ha avuto in quello stato? Potreste ancora sostenere che la sua è una mente purificata. Sto parlando dal vostro punto di vista. Sul sentiero si hanno delle esperienze. Tra i due tipi d’esperienza appena menzionati c’è una differen­za; ma appartengono entrambi alla mente, sebbene a livelli differenti – anche ciò che chiamate samadhi.

Vi è un altro stato ancora in cui non si può parlare d’ascesa e discesa, e di conseguenza neppure di un corpo. Se sorgesse ancora la questione del corpo o dell’azione o qualsiasi altro problema, significherebbe che non si è raggiunto quello stato. Quando dite che la mente si dissolve (laya), in che cosa si dissolve?

Interlocutore: Nel Sé, naturalmente.

Mataji: La mente si dissolve come il sale nell’acqua; è questa la vostra idea? Da un certo punto di vista può sembrare così. Nel caso di una dissoluzione di questo tipo, uno yogi perfetto può risuscitare di nuovo la mente.

Interlocutore: Pensavo ad una distruzione totale (nasa).

Mataji: Distruzione (nasa) o dissoluzione (laya)? Na Sa signi­fica ‘non Lui, na Sva* ‘non il Sé’; è questo che si definisce distruzione? Quando la distruzione è distrutta, rimane Quello. Considerate l’annientamento della mente-ego (manomasa) la sua dissoluzione (laya)?

Interlocutore: Come posso intenderlo?

Mataji: Sta al guru indicare il metodo; egli vi mostrerà la via per comprendere e v’istruirà nella sadhana. Vostro compito sarà continuare a praticarla fedelmente. Il frutto viene spontaneamen­te sotto forma di rivelazione del Sé. Il potere d’afferrare l’inafferrabile si manifesterà a suo tempo tramite il guru. Quando ci si chiede: ‘Come devo procedere?’, la realizzazione non è stata, ovviamente, ancora raggiunta. Non allentate dunque i vostri sforzi finché non ci sarà l’Illuminazione. Fate che non ci siano buchi a interrompere il vostro sforzo, poiché un buco produrrà un vortice. Il vostro sforzo dev’essere continuo come il fluire dell’olio, dev’essere un flusso costante e ininterrotto.

Non importa se non riuscite a controllare il bisogno di cibo e sonno; il vostro scopo dev’essere quello di non permettere intervalli nella pratica della sadhana. Non vedete che le necessità di cibo e sonno, ciascuna al suo momento, sono senza eccezioni dei bisogni ricorrenti? Proprio allo stesso modo, nella ricerca della verità dovete aspirare alla continuità. Una volta che la mente, nel corso del suo movimento, percepisce il tocco dell’Indivisibile – se solo poteste afferrare quel momento! – in quel Supremo Momento sono contenuti tutti i momenti e, quando l’avrete catturato, tutti i momenti saranno vostri.

Prendete per esempio i momenti di congiunzione (sandhikshana) all’alba, a mezzogiorno e al crepuscolo, quando si rivela il potere collegato al punto di contatto – dove s’incontrano l’andare e il venire. Ciò che chiamate ‘scarica elettrica’ è solo l’unione di due opposti; ed è così che l’Essere Supremo Si manifesta al momento della congiunzione. In realtà Esso è presente in ogni singolo momento, ma voi non lo percepite. È questo che dovete afferrare, e potete farlo nel punto di congiunzione, in cui gli opposti si fondono. Nessuno può predire quando si rivelerà quel fatidico Momento per ogni individuo; perciò continua­te a praticare incessantemente.

Che cosa sia esattamente quel grande Momento dipende dalla particolare linea d’approccio di ognuno. Il momento in cui siete nati non determina e regola il corso della vostra vita? Similmente, ciò che conta per voi è il momento in cui entrerete nella corrente che costituisce il movimento del vostro vero essere, l’andare avanti o, in altre parole, il grande pellegrinaggio. Fino a quando questo non succede, la perfezione non può essere ottenuta. Ecco perché per alcuni discepoli il guru stabilisce delle ore particolari per la sadhana, quali l’alba, il tramonto, mezzogiorno e mezzanotte; questi sono i quattro momenti prescritti di solito. Il discepolo ha il dovere di mettere in pratica diligentemente gli ordini del guru, che variano secondo il temperamento e la predisposizione dell’aspirante. Lo stesso metodo non si addice a tutti. La persona comune può ignorare la particolare combinazione dei fattori necessari per portare a completamento gli aspetti fin qui trascurati del suo essere; per questo è essenziale obbedire alle istruzioni del guru. Il Momento decisivo è destinato a manifestarsi non appena, sia per la vostra attitudine mentale sia per le vostre azioni, sarete pronto. Cercate dunque di seguire rigorosamente il sentiero indicatovi dal guru, e vedrete che ogni cosa accadrà spontaneamente.

Una parte delle ventiquattrore del giorno va decisa­mente dedicata a Dio. Terminate, se possibile, di praticare regolarmente il japa di un particolare Nome o mantra mentre sedete in una certa posizione, e aumentate gradualmente il tempo o il numero delle ripetizioni. Non c’è bisogno di aumentare ogni giorno. Fissate il ritmo e l’intervallo di quanto aumenterete, per esempio ogni quindici giorni oppure ogni settimana. Impegnatevi nella Ricerca di Dio in questo modo. Ovunque siate, prendete rifugio in Lui, fate di Lui la vostra Meta. Quando in virtù di questo sforzo v’immergerete profonda­mente in quella corrente e vi dedicherete sempre più tempo, sarete trasformato e i vostri desideri per i piaceri dei sensi s’indeboliranno; allora raccoglierete il frutto dei vostri sforzi. Potreste arrivare a sentire che il corpo può andarsene in qualunque istante, che la morte può arrivare in qualunque momento.

Così come nell’universo c’è una creazione sempre nuova, allo stesso modo la vostra reazione mentale e psicologica nei suoi confronti subisce un cambiamento costante. Se procederete nella maniera indica­tavi, vedrete che i vostri interessi esterni svaniranno gradualmente e la vostra visione si volgerà all’interno. Più intensa sarà la vostra ricerca, più vaste le possibilità che vi si apriranno, e la sofferenza diminuirà in proporzione al vostro progresso e non crescerà più. Si dice anche che il karma è estinto dal karma; vale a dire, gli effetti delle azioni passate sono neutralizzati dalle azioni contrarie. Se venisse veramente estinto, potrebbe accadere in brevissimo tempo. Anche quando non riceve cibo, il corpo non smette d’assimilare nutrimento; in questo caso si dice che comincia a consumare la sua stessa carne. Come nutrite il corpo, così dovete prendervi cura di tutto ciò che riguarda il vostro benessere spirituale; solo allora prospererete sotto questo aspetto. Chi può dire in quale momento divamperà la fiamma dell’illuminazione? Per questo dovete continuare costantemente i vostri sforzi senza venire mai meno. Sarete assorbiti sempre più profondamente in Lui. Lui e solo Lui occuperà i vostri pensieri e i vostri sentimenti, perché la mente cerca sempre ciò che le dà il giusto sostentamen­to, e questo può venire solo dallo Stesso Essere Supremo. Sarete allora trasportati dalla corrente che conduce al vostro Sé; più gioia troverete nella vita interiore, meno vi sentirete attratti dalle cose esteriori. La mente sarà, di conseguenza, così ben alimentata dal giusto nutrimento che la realizzazione della sua identità con il Sé potrà avvenire in qualunque momento.

Riguardo al laya, se intendete la dissoluzione della mente in Quello, allora ciò che avete detto è giusto. Il jada samadhi non è desiderabile. Al contrario, dovete realizzare cos’è la mente, chi è. La mente si dissolve in Quello; è questo che intendevate dire? Laya può significare sia che la mente non ha dove andare – in altre parole, che non può più trovare la sua via e quindi è in uno stato di latenza – sia che s’immerge in Quello che è la rivelazione del Sé, e di conseguenza non c’è più possibilità di una sua esistenza separata. Dove c’è la rivelazione del Sé, come può sorgere la questione se la mente viene dissolta oppure no?

Questa risposta è stata data dal punto di vista dal quale avete posto la domanda. Avete cominciato col chiedere in che modo la meditazione su un aspetto particolare può condurre alla meditazione sul tutto. Certo, il tutto è contenuto nella parte; ma per arrivare a realizzare questa verità dovete seguire le istruzioni del guru, che sono piene del Suo potere. Quanto è stato detto dà solo una pallida idea di un solo aspetto dell’intero argomento.

Ci sono poi gli esempi di quando si perde coscienza mentre si siede in meditazione. Alcune persone sono, per così dire, venute meno inebriate dalla gioia, rimanendo in quello stato per tanto tempo. Rinvenendo, hanno affermato d’aver provato una sorta di beatitudine divina, che certo non è la realizzazione. Nella meditazione esiste uno stadio in cui si percepisce una gioia immensa, in cui si è come sommersi in quella gioia. Ma cos’è che viene sommerso? La mente natural­mente. Ad un certo livello ed in alcune circostanze quest’espe­rienza può costituire un ostacolo. Se ripetuta di continuo, si può ristagnare in quel particolare livello e ciò può impedire di gustare l’Essenza delle cose.

Una volta stabilita la vera contemplazione (dhyana), le attrazioni del mondo perdono tutto il loro fascino. Nel caso in cui si facesse esperienza di qualcosa che riguarda la Realtà Suprema o il Sé, non si può dire: “Dove sono stato? In quel momento non sapevo nulla”, perché non può esservi ‘non sapere’. Se fosse ancora possibile descrivere a parole la beatitudine che si prova, sarebbe ancora godimento e quindi un ostacolo. Bisogna essere completamente coscienti, del tutto svegli. Cadere nel torpore o nel sonno yogico non porta da nessuna parte.

Dopo una vera meditazione i piaceri del mondo diventano ripugnanti, grossolani e del tutto insignificanti. Che significa vairagya? Quando ogni singolo oggetto del mondo accende, per così dire, il fuoco della rinuncia, così da fare indietreggiare come per l’effetto di un colpo, allora c’è il risveglio interiore ed esteriore. Questo, però, non significa che il vairagya implichi avversione o disprezzo per le cose del mondo – queste sono semplicemente inaccettabili, il corpo le rifiuta. Non c’è antipatia né collera. Quando il vairagya diventa un’ispirazio­ne vivente, si comincia a discriminare sulla vera natura del mondo, fino a quando, con l’appassionata certezza della percezione diretta, sorge infine la conoscenza del suo carattere illusorio. Ogni cosa che appartiene al mondo sembra bruciare, non si può toccare. Anche questo è uno stato che può presentarsi in un determinato momento.

Ora ciò che amate non vi appare una cosa di breve durata, al contrario sembra rendervi felice; ma nella misura in cui si desta lo spirito di distacco, l’inclinazione per quei piaceri si attenuerà – perché, non sono passeggeri? In altre parole, la morte morirà. Ora che state avanzando verso ciò che è oltre il tempo, la parvenza di felicità prodotta dalle cose mondane sta per essere distrutta. Come risultato vi chiederete: “Cos’è invero questo mondo?”. Finché penserete che il mondo sia da godere tale domanda non si presenterà e poiché state procedendo verso ciò che trascende il tempo, tutto ciò che appartiene al tempo comincerà ad apparirvi nella sua vera luce. Se al ritorno dalla contemplazione continuerete a comportarvi come prima, vuol dire che non siete stato trasforma­to. Quando ci sarà la meditazione autentica, quella che suscita l’indifferenza al mondo, comincerete a struggervi intensamente per il Divino, avrete un gran desiderio di Lui e capirete che nulla di transitorio può appagare o soddisfare questo desiderio.

Come spiegarvelo chiaramente, pitaji? Alcune persone vengono da questo corpo e raccontano che i loro figli e le loro figlie sono saliti su una macchina e sono andati via senza neppure alzare lo sguardo per vedere se i genitori piangevano; sono completamente insensibili al dolore dei loro genitori. Ecco, questo è esattamente ciò che succede ad un certo stadio del sentiero: il piacere del mondo non può toccarvi in alcun modo. Comincerete a pensare: “Le persone che ritenevo più care sono legate a me solo dalla carne e dal sangue. Che significa per me?”. Nessuno mette deliberatamente le mani sul fuoco o calpesta un serpente; proprio allo stesso modo guarderete appena gli oggetti dei sensi e andrete da un’altra parte. Allora entrerete nella corrente che vi porterà nella direzio­ne opposta e in seguito, quando vi libererete anche del non-attaccamento, non ci sarà problema di attaccamento o non-attaccamento – ciò che è, è Quello. Alcuni dicono che con uno sforzo costante si può ottenere l’Illuminazione. Ma è vero che lo sforzo può produrre l’Illuminazione? L’Illuminazione dipende dall’azione?

Il velo viene distrutto, e una volta fatto questo si rivela Quello che È. Ciò che si ritiene frutto dello sforzo è solo l’illuminazione dell’aspetto particolare verso cui è stato diretto lo sforzo. La luce senza velo (niravaran prakasha) è Lui, l’Eterno. Il guru sa qual è la giusta linea d’approccio per ogni individuo.

Domanda: A volte si sente che gli oggetti dei sensi esistono realmente, e altre volte che sono semplicemente delle idee. Perché la stessa cosa appare così diversa in occasioni differenti?

Mataji: Perché siete nella morsa del tempo. Non avete ancora raggiunto lo stato in cui ogni cosa è percepita soltanto come Sé,* non è vero? Qui sta la soluzione di tutto il problema. Il vostro modo di sentire è buono, giacché il vostro sentimento è legato alla ricerca suprema; e poiché nulla va mai perduto, ciò che avete realizzato anche per un secondo un giorno o l’altro porterà frutto. Allora la conoscenza delle vere caratteristiche di ciascun elemento (tattva) balenerà nella vostra coscienza, rivelando che cosa sono l’acqua, l’aria, il cielo, ecc., e quindi che cos’è la creazione, come boccioli che si dischiudono all’improvviso. Fiori e frutti esistono solo perché sono contenuti in potenza nell’albero, perciò dovete mirare a realizzare il solo Elemento supremo (Tattva) che farà luce su tutti gli elementi.

Avete chiesto cosa sono gli oggetti dei sensi: un oggetto dei sensi (vishaya)** è ciò che contiene veleno, è pieno di male e spinge l’uomo verso la morte; mentre libertà dal mondo degli oggetti dei sensi (nirvishaya) – in cui non vi è traccia di veleno – significa immortalità.

Domanda: Rimane tuttavia qualcosa del cocente dolore del vairagya!

Mataji: Cosa produce la sensazione di bruciore? Sicuramente una ferita! L’infiammazione c’è a causa sua; ma di chi è la ferita? Se non c’è ferita, non può esserci dolore. Qui sta l’inganno; fino a quando la Realtà non si rivela, la ferita continuerà a far male. Se l’infiammazione è un processo di guarigione, naturalmente è benefica. Il paziente che cade incosciente non è consapevole del dolore. Potete vedere come l’uomo annega nel piacere, nella rovina e nel dolore; e certo questo non è ciò che si desidera! Questa è la via del mondo, con le sue interminabili incertezze***. Potete dire perché ci si sente angosciati?

Interlocutore: Si è spinti in due direzioni:  verso Dio e verso il piacere dei sensi. Questo causa angoscia.

Mataji: Il vostro problema è che sentite il desiderio di rinunciare, ma non potete realizzarlo. Lasciate che questo desiderio si desti nel vostro cuore; il fatto che si agiti significa che il tempo in cui sarete in grado di rinunciare s’avvicina.

Ottenete l’oggetto che bramate e tuttavia siete insoddisfatto; e se non riusciste a ottenerlo, sareste ugualmente deluso. La disillusione che provate nell’appagare il vostro desiderio è salutare; ma l’angoscia del desiderio inappagato delle cose che non siete riuscito ad ottenere vi conduce verso ciò che è morte, verso la miseria.

Interlocutore: I desideri dei sensi non possono mai essere appaga­ti; più si ha, più si desidera. L’appagamento dei desideri mondani genera soltanto desideri più grandi.

Mataji: Il mondo stesso è una manifestazione del desiderio, e quindi l’angoscia dovuta al mancato appagamento deve necessariamente continuare. Per questo si dice che nella vita umana ci sono due correnti: una relativa al mondo, in cui un desiderio segue l’altro; e l’altra relativa al proprio vero Essere. Caratteristica della prima è che non potrà mai finire nell’appagamento; al contrario, il senso di bisogno viene perpe­tuamente stimolato. Entrando invece nella seconda corrente l’uomo si stabilirà nella sua vera natura e porterà a compimento lo sforzo che ne è l’espressione. Se farà lo sforzo di realizzarsi entrando in questa corrente, essa infine lo condurrà all’equilibrio perfetto del suo vero Essere.

Domanda: E l’angoscia di non aver trovato, l’angoscia dell’as­senza di Dio? Io non ho desiderio dei piaceri dei sensi, ma essi vengono a me e sono costretto a farne esperienza.

Mataji: Ah, ma l’angoscia di non aver trovato Dio è salutare! Ciò che mangiate lascia un sapore nella vostra bocca. Portate ornamenti perché lo desiderate, perciò dovete sopportar­ne il peso, tuttavia quel peso è destinato a cadere, perché è qualcosa che non può durare, non è così?

Domanda: Vi sono esempi in cui una persona illuminata può essere ancora nell’ignoranza?

Mataji: Dite che una persona è illuminata, e nello stesso tempo affermate che può essere soggetta all’ignoranza? Una cosa del genere, pitaji, è impossibile. C’è però uno stato di realizzazione che non è mantenuto sempre e in cui è possibile che si verifichi quanto suggerite – ma mai in un caso di realizzazione finale. In qualunque modo possiate percepire un Essere Illuminato, Egli rimane ciò che è. Come potrebbe essere possibile l’ignoranza in ciò che viene chiamata Conoscenza Suprema? Parlare d’ignoranza riferendosi ad un uomo realizzato è un esempio di Conoscenza Suprema scambiata per ignoranza. Per questo parlate di ascesa e discesa. Come non si pone la questione del corpo per chi è liberato, così per lui non può esserci alcuna questione di salire e scendere; tuttavia, vi è uno stato di realizzazione in cui esistono realmente ascesa e discesa.

 

 

*) – Un gioco di parole: samaya e svamayi si pronunciano allo stesso modo. Samaya = tempo; svamayi = permeato dal Sé.

**) – Vishaya = oggetto dei sensi. Vish = veleno; hay = è.

***) – Samsara = mondo. Samsaya = incertezza.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VII

 

 

Solan, 19 settembre 1948

 

Qualcuno parlò a Mataji di un uomo che, senza alzarsi dal suo seggio, produceva ogni sorta di oggetti: fiori, ghirlande, dolci, ecc., che apparivano semplicemente nelle sue mani. Mataji raccontò allora un episodio che aveva avuto luogo a Dacca molti anni prima.

Mataji: Che numero incredibile di episodi simili ha visto questo corpo! Di regola questo corpo non fa commenti su cose del genere, ma in una particolare occasione in qualche modo accadde qualcosa di piuttosto insolito. Quando venne una certa donna, sentii di dovermi stendere sul suo grembo. Non appena lo feci, notai distintamente che nel sari della donna, all’altezza della cintola, era legato un involto contenente diverse cose. Tutti cominciarono a chiederle di mostrare gli oggetti che materializzava con mezzi sovrannaturali, perché molti l’avevano vista farlo altre volte. Molti avevano sentito dire che nelle sue mani appariva sponta­neamente anche il prasad del tempio di Kali a Dakshineshwar. Questo corpo disse: “Potrei scoprirlo ancor prima che arrivi da lì; ma volete che lo faccia?”. La donna disse: Sì, naturalmente!”. La domanda fu ripetuta molte volte, e ogni volta lei e i suoi devoti rispondevano: “Sì, per piacere!”. Questo è quanto accadde. Proprio così, questo corpo non tirò fuori nulla con le sue mani – accadde spontanea­mente solo quanto era destinato ad accadere.

In seguito una devota della donna s’avvicinò a questo corpo e chiese: “Ma, voi non umiliate mai nessuno, e certamente non in pubblico. Perché l’avete fatto in questo caso?”. Le fu risposto: “Sì, come sapete di regola questo corpo non interferisce con i modi innati di alcuno; tuttavia, che si tratti dell’evento più ordinario o del più straordinario – chiamatelo come vi pare – la regola che ha seguito questo corpo fino ad oggi è stata semplicemente questa: qualunque cosa sia destinata ad accadere accade spontaneamente. Quando è arrivata quella donna, questo corpo l’ha accolta con grande rispetto, offrendole il suo stesso asana e mettendole una ghirlanda intorno al collo. Tutti erano felici! Ogni forma, ogni espressione, è Lui e Lui soltanto. Quel giorno questo corpo non manifestò nulla, ma la donna affermò di sua spontanea volontà: ‘Tornerò di nuovo domani!’. L’avete sentito tutti, no? Cosa accadde dopo fu il Suo modo di rivelare Se Stesso. Ditemi, che c’era da fare? Con qualunque metodo Lui possa scegliere d’insegnare a qualcuno, in qualsiasi momento – per quanto riguarda questo corpo, esso non ha un proprio desiderio – è per il bene (‘ja hoye jay’)”.*

Quando (nei primi tempi) questo corpo soleva fare pranam a ogni creatura, fosse un insetto, un ragno, un cane o un gatto, lo faceva nella piena consapevolezza della presenza dell’Essere Supremo in ogni cosa.

‘Qualunque cosa accada è bene’ – che altro si può dire. Ricorrere alla falsità o all’inganno non può mai essere per il proprio bene. Chi inganna sarà ingannato. D’altro canto, anche la falsità può essere mutata in verità. Qualcuno può imbrogliare deliberatamente, ma grazie alla sincerità dei suoi discepoli la verità sarà portata alla luce. Come risultato il discepolo supererà il guru. Il proponimento di trovare la verità condurrà inevitabilmente alla sua rivelazione. Dissi alla devota di quella donna: “Quante volte ho chiesto a voi tutti: ‘Devo scoprirlo?’; e senza eccezioni m’avete pregato di farlo. Cos’altro si può dire?”.

Accadono una quantità di episodi simili! Ascoltate la storia di una giovane donna, che al minimo stimolo andava in ‘samadhi’ – così almeno la gente credeva. Sembrava divenire senza vita, le sue mani e i suoi piedi diventavano freddi. Quando venne da questo corpo, andò ugualmente in quello strano stato che la gente scambiava per samadhi. Questo corpo chiamava ‘nonna’ la madre della ragazza, poiché erano entrambe dello stesso villaggio. Ella mi disse: “Nipote, ti prego, cerca d’aiutare questa ragazza!”. Compresi perfettamente qual era il problema della giovane, perciò le sussurrai all’orecchio: “Riceverai molto presto una lettera da tuo marito”; e udendo questo rinvenne subito. La notizia della guarigione si diffuse dappertutto. La gente era profondamente disorientata, e si chiedeva quale potente mantra Mataji avesse sussurrato all’orecchio della ragaz­za. In quelle circostanze era davvero il ‘mantra’ appropriato a lei. Lo stato della ragazza era dovuto alla sua preoccupa­zione per il prolungato silenzio del marito.

C’era poi un altro giovane. Quali stati sovrannaturali era solito passare, quanti tipi di visioni ebbe! Per esempio, faceva pranam e rimaneva in quella posizione per ore di seguito, senza alzare la testa e con le lacrime che gli scendevano sulle guance. Diceva di vedere e sentire Sri Krishna che insegnava ad Arjuna, così com’è descritto nella Gita, e che era solito avere molte altre visioni del genere. Questo corpo gli disse che se un sadhaka non può mantenere il fermo controllo della mente può vedere e sentire molte cose, sia illusorie sia genuine, tutte mischiate assieme. Può perfino essere soggetto all’influenza di qualche ‘spirito’ o influsso negativo. Questi fatti, invece di creare una pura aspirazione divina, ostacolano e non aiutano; inoltre, vedere qualcuno in visione o sentirlo rivolgersi a voi, può diventare fonte di soddisfazione o di piacere per l’ego. Non è auspicabile perdere il controllo. Nella ricerca della verità non bisogna farsi sopraffare da nulla, ma si deve osservare attentamente qualunque feno­meno si manifesti, rimanendo pienamente coscienti, comple­tamente svegli, mantenendo di fatto il pieno dominio di sé. La perdita della coscienza e dell’autocontrollo non è mai buona.

 

Nel corso della stessa conversazione Mataji disse:

Lo stesso Signore Buddha è l’essenza dell’Illuminazione. Tutte le parziali manifestazioni di saggezza che vengono nel corso della sadhana culminano nell’illuminazione suprema (bodha svarupa). In maniera simile si può ottenere la conoscen­za suprema (jnana svarupa) o l’amore supremo (bhava svarupa). Come c’è uno stato di conoscenza suprema, così allo zenit del sentiero dell’amore c’è uno stato di perfezione, in cui si realizza che il nettare dell’amore perfetto è identico alla conoscenza suprema. In quello stato non c’è posto per l’eccitazione emotiva; invero, questa renderebbe impossibile il risplendere dell’amore supremo (maha-bhava). Ricordate una cosa: se, seguendo una particolare linea d’approccio, non si perviene a ciò che è la consumazione di ogni sadhana, e cioè la Meta finale, significa che non si è veramente entrati in quella linea. Sulla vetta suprema dell’amore – che è il mahabhava – non può esservi in alcun modo l’esuberanza, l’emozione ecces­siva, e cose del genere. Non bisogna paragonare in alcun modo l’eccitazione emotiva e l’amore supremo: sono completamente differenti.

Quando si è assorti in meditazione, che si sia coscienti o meno del corpo, che ci sia o no un senso d’identificazione con il fisico – in ogni circostanza è imperativo rimanere completa­mente desti; l’incoscienza va rigorosamente evitata. Bisogna mantenere una genuina percettività sia che si contempli il Sé o qualche altra forma particolare. Qual è il risultato di tale meditazione? Essa dischiude il proprio essere alla Luce, a Quello che è eterno. Supponete che il corpo abbia avuto qualche dolore o indolenzimento, ma che dopo la medita­zione si senta perfettamente sano e forte, senza alcuna traccia di stanchezza o debolezza. È come se nel frattempo fosse passato un lungo periodo di tempo, come se non vi fosse mai stato alcun problema. Sarebbe un buon segno; ma se al primo contatto con la beatitudine si fosse tentati di perdersi in essa, e in seguito affermare: “Non posso dire dov’ero, non so”, questo non sarebbe desiderabile. Quando si è in grado di meditare veramente, nella misura in cui si contatta la Realtà si scopre l’ineffabile gioia che si cela perfino negli oggetti materiali.

D’altro canto, se durante la meditazione ci si lasciasse per così dire andare ad una specie di torpore, e in seguito si affermasse d’essere stati immersi nella beatitudine profonda, questo tipo di beatitudine sarebbe un ostacolo. La forza vitale che sembra essere rimasta in sospensione – come quando si ha un senso di grande felicità dopo un sonno profondo – è un indice di ristagno. È un segno d’attaccamento; e quest’attaccamento è un ostacolo alla vera meditazione, poiché si sarà soggetti a volgersi di continuo verso quello stato, giacché dal punto di vista del mondo, che è completamente diverso, sembrerà una fonte di profonda gioia interiore e quindi un segno certo di progresso spirituale. Fermarsi in qualunque stadio ostacola il progresso ulteriore – significa semplicemente che si cessa d’avanzare.

Quando si è impegnati in meditazione ci si deve conside­rare un essere puramente spirituale (cinmayi), risplendente di luce propria, stabilito nella beatitudine del Sé (atmarama), e concentrarsi sul proprio Ishta secondo le istruzioni del guru. Il giovane menzionato prima (quello che soleva avere visioni) era intelligente e quindi in grado di comprendere questo ragionamento. Come risultato, le esperienze spettacolari cessarono e ora pratica la meditazione e gli altri esercizi spirituali in maniera calma e riservata.

In seguito, quando la conversazione si volse di nuovo su dhyana e asana, Mataji disse:

Se passate ora dopo ora seduti in una certa posizione, se divenite assorti mentre sedete in quella posizione e siete incapaci di meditare in qualsiasi altra, vuol dire che traete piacere dalla posizione; e anche questo costituisce un ostacolo. Quando si comincia a praticare japa e meditazione, è giusto esercitarsi e continuare nella stessa posizione quanto più a lungo possibile. Ma quando ci s’avvicina alla perfezione in queste pratiche, non si pone la questione su quanto tempo si rimane in una posizione; in qualsiasi momento e in qualunque posizione – supini, seduti, in piedi o poggiati di lato, secondo il caso – non si può essere più distolti dalla contemplazione del proprio Ideale o Amato.

Il primo segno di progresso si manifesta quando ci si sente a disagio in tutto tranne che nella posizione di meditazione. Niente d’esterno interessa; la sola cosa che attrae è rimanere seduti nella posizione preferita il più a lungo possibile e contemplare l’Oggetto Supremo della propria adorazione, im­mersi in una profonda gioia interiore. Questo segna l’inizio della concentrazione della mente e quindi è un passo nella giusta direzione. Qui, tuttavia, si attribuisce grande importanza alla posizione. Se si rimane in quella posizione finché dura l’inclinazione – fiduciosi che l’Amato non può mai fare del male – e se vi si può rimanere fissi, allora la posizione diventa di straordi­naria importanza. Questo mostra soltanto che ci si sta avvicinan­do alla perfezione nella pratica dell’asana.

In piedi, seduti o camminando – in effetti ogni movimento del corpo è chiamato asana, e corrisponde al ritmo e alla vibrazione di corpo e mente in quel particolare momento. Alcuni aspiranti possono meditare solo seduti nella posizione indica­ta dal guru o prescritta negli shastra, e non altrimenti. È così che si diventa esperti nella meditazione. D’altra parte, si può cominciare la pratica seduti in una qualsiasi posizione normale; ma, non appena si raggiunge lo stato di japa o di dhyana, il corpo assumerà spontaneamente la posizione più appropriata, allo stesso modo in cui si manifesta involontaria­mente un singhiozzo. Man mano che la meditazione diventerà sempre più intensa, le posizioni guadagneranno in perfezione. Se in un pneumatico viene pompata poca aria, rimane sgonfio; ma se si gonfia al massimo della sua capacità, rimane stabile nella sua forma naturale. Similmente, quando si perviene alla vera medita­zione, il corpo si sente leggero e libero, e alzandosi dalla meditazione non si sente fatica o dolore né torpore o indolenzimento nelle membra.

Nella vera meditazione si viene a contatto con la Realtà, e come lascia il segno il contatto con il fuoco, così questo contatto lascia la sua impronta. Che cosa ne risulta? Gli ostacoli svanisco­no, sono consumati dal vairagya o dissolti dalla devozione al Divino. Le cose di questo mondo appaiono insipide e poco interessanti, del tutto estranee; la conversazione mondana perde il suo fascino, diviene priva d’interesse e, in una fase ulteriore, perfino penosa. Quando vengono persi o danneggiati i possessi terreni, la vittima si sente turbata, il che evidenzia la stretta mortale che gli oggetti dei sensi esercitano sulle menti degli uomini. Questo è ciò che si chiama granthi – il nodo che costituisce il senso dell’ego. Per mezzo della meditazione, del japa e di altre pratiche spirituali, che variano secondo la linea d’approccio di ciascun individuo, questi nodi vengono sciolti; si sviluppa la discriminazione e si perviene a discernere la vera natura del mondo della percezione dei sensi. All’inizio si era irretiti nel mondo e ci si dibatteva impotenti nella sua rete ma, quando ci si disincaglia da esso e si attraversano gradualmente le varie fasi dell’aprirsi sempre più alla Luce, si arriva a vedere che tutto è contenuto nel tutto, che c’è solo un Unico Sé, il Signore di tutto, ovvero che tutti sono solo servitori dell’Unico Maestro. La forma che prende questa realizzazione dipende dal proprio orientamento. In virtù della percezione diretta si sa di esistere e che quindi esistono tutti gli altri; e ancora, che c’è l’Uno e solo l’Uno, e che nulla viene e va, eppure viene e va. Non c’è modo d’esprimere tutto questo a parole. Nella misura in cui ci s’allontana dal mondo dei sensi, ci s’avvicina sempre più a Dio.

Quando si perviene alla vera meditazione, la posizione scelta non rappresenta più un ostacolo né una fonte di piacere; in altre parole, non ha alcuna importanza in quale posizione particolare uno stia. Che si sieda dritti o storti, la posizione giusta si formerà da sé, il corpo assumerà la posizione appropriata. Ci sono dei casi in cui si è completamente indipendenti dalla posizione fisica. In qualunque posa il corpo possa trovarsi, la meditazione avviene senza sforzo; anche se non c’è dubbio che se si assume una posizione particolare, come ad esempio padmasana (la posizione del loto) o siddhasana (la posizione del perfetto), si perviene ad uno stato in cui non può esserci alcuna interruzione alla propria unione con l’Essere Supremo.

 

*) – Ja hoye jay: questa frase concisa è pronunciata continuamente da Mataji. Essa è piena di significato; in effetti implica tutta una filosofia di vita. Significa che qualunque cosa succeda è secondo la volontà divina, e perciò ugualmente benvenuta a Mataji. Esprime anche la completa mancanza di desiderio personale, l’abbandono senza riserve alla Provvidenza, e la convinzione che nulla possa accadere che non sia fondamentalmente diretta dal Creatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VIII

 

 

Benares, 11 agosto 1948

 

Domanda: L’altro giorno, parlando delle visioni e delle espe­rienze che si hanno durante la meditazione, avete detto che non sono vere visioni ma semplici ‘contatti’.

Mataji: Sì, dal livello di chi può parlare di ‘contatto’ è così, vale a dire, non siete stati cambiati dall’esperienza; tuttavia vi attrae, e potete esprimere il sentimento in parole, il che implica che traete ancora piacere dagli oggetti dei sensi. È dunque un mero contatto. Se ad essa fosse seguita una trasformazione, sareste incapaci di sentire i piaceri del mondo in questo modo. Come può esservi godimento o piacere in uno stato d’essere trasformato?

Domanda: Atman e Brahman sono differenti solo per l’enun­ciato di una limitazione. La visione che viene dalla costante meditazione su ‘Io sono Saccidananda’ è Atma darshana (visione del Sé). Considerato che non può esservi visione del Brahman, deve trattarsi di una visione parziale e quindi limitata del Brahman. È esatto?

Mataji: Se pensate che nel Brahman vi siano parti, potete dire ‘parziale’; ma possono esserci parti nell’Assoluto? Parlate di ‘contatti’ perché pensate e sentite in termini di parti; ma Colui che È, è un tutt’uno.

Domanda: Ci sono gradi (krama) nella conoscenza?

Mataji: No. Come potrebbero esservi gradi nella conoscenza del Sé (svarupa jnana)? La conoscenza del Sé è una. Il procedere di passo in passo si riferisce allo stadio in cui si distolgono gli occhi dagli oggetti dei sensi e si rivolge lo sguardo all’interno, verso l’Eterno. Non si è ancora realizzato Dio, ma percorrere il sentiero spirituale è diventato fonte di gioia. Lungo questa linea ci sono dharana, dhyana e samadhi. Le esperienze in ciascuno di questi stadi sono infinite. Dove c’è la mente c’è esperienza. Le esperienze nei diversi stadi sono dovute alle varie forme di desiderio per la Conoscenza Suprema. La mente, che in precedenza era concentrata sulle cose materiali, e deducendo che non si potesse provare l’esistenza di Dio era pervenuta a negarLo, adesso si volge nella direzione opposta. Non è perciò naturale che la Luce appaia in essa in conformità allo stato raggiunto? Questi stati sono noti con vari nomi. Quando cessano le visioni che si hanno in meditazione? Quando il Sé si rivela (svayam prakasha).

Domanda: Sopravvive il corpo quando si dissolve l’ego-mente (manonasha)?

Mataji: A volte viene posta la domanda: “Da dove insegna il Maestro del mondo? Dallo stato d’ajnana?”.

Se fosse così la mente non sarebbe stata dissolta, la triplice differenziazione (triputi) di conoscitore, conoscenza e conosciuto non avrebbe potuto fondersi. Cosa potrebbe darvi allora? Dove potrebbe condurvi? C’è però uno stadio in cui questa domanda non si pone. Il corpo è l’ostacolo alla Conoscenza Suprema?

Ci si chiede anche se il corpo esista oppure no. Ad un certo livello questo problema non può porsi. Lo stato in cui nasce questa domanda non è quello del puro Essere, ma si crede che la domanda si possa porre e che vi si possa anche rispon­dere. La risposta però sta laddove non vi è né domandare né rispondere, dove non ci sono ‘altri’ né divisione. Come ci si può dunque avvicinare al Maestro supremo e riceverne l’istruzione? Allo stesso modo, gli insegnamenti degli shastra e delle altre scritture sono diventati completamente inutili. Questo è un aspetto del problema.

Parlare di gradi (krama) della conoscenza, come se si stesse studiando per una laurea, è presentare il problema dal punto di vista della sadhana. Laddove il Sè è rivelato, questo problema non si pone; tuttavia, dove c’è sforzo personale, come nella pratica della meditazione o della contemplazione, esso porterà sicuramente frutto. Ma nello stato d’illuminazione non può esservi realizzazione o non-realizzazione; sebbene sia lì non c’è e, malgrado non ci sia, tuttavia c’è – proprio così.

Alcuni dicono che rimane un ultimo residuo della mente. Ad un certo livello è così. C’è però uno stadio ulteriore in cui il problema se rimane o meno una traccia della mente non si pone. Se ogni cosa può essere bruciata, non può essere consumato anche quest’ultimo residuo? Non c’è questione di ‘sì’ o ‘no’: ciò che è È. Meditazione e contemplazione sono necessarie perché si è sul livello di accettazione e rifiuto, e lo scopo è proprio quello di trascendere accettazione e rifiuto. Volete un sostegno, vero? Il sostegno che vi può portare oltre, laddove non c’è più questione di sostegno o mancanza di sostegno, è il sostegno senza sostegno. Ciò che si può esprimere con le parole può essere certamente ottenuto; ma Egli è Quello al di là delle parole.

Interlocutore: Ho letto che i Maestri devono discendere per poter agire nel mondo. Questo sembra implicare che nonostante siano stabiliti nel puro Essere, per operare debbano ricorrere all’aiuto della mente. Così come un re, quando recita la parte di uno spazzino, deve in quel momento immagi­nare di essere uno spazzino.

Mataji: Nell’assumere una parte non c’è questione di ascendere o discendere. Dimorando nel Suo essere essenziale (svarupa), Egli interpreta vari ruoli; ma quando parlate di ascendere e discendere, dov’è lo stato di puro essere? Può esserci dualità in quello stato? Brahman è Uno senza secondo, anche se capisco che dal vostro punto di vista la cosa sembri come la ponete.

Interlocutore: Lo avete spiegato dal livello dell’ajnana; ora vogliate parlare dal livello dell’illuminato (jnani)!

Mataji: (sorridendo) Accetto anche quanto dite ora. Qui (indicando se stessa) non si rifiuta nulla. Sia lo stato dell’Illuminazione sia quello dell’ignoranza è giusto. Il fatto è che avete dei dubbi; ma qui non ci sono dubbi. Qualunque cosa diciate – e da qualsiasi livello – è Lui, Lui e solo Lui.

Domanda: Se è così, a che serve porvi altre domande?

Mataji: Ciò che è È. È naturale che sorgano dubbi, ma la cosa meravigliosa è che dov’è Quello non c’è nemmeno spazio per assumere diverse posizioni. Certo, i problemi si discutono per dissolvere i dubbi, perciò è utile discutere. Chi può dire quando il velo si solleverà dai vostri occhi? Lo scopo della discussione è rimuovere la visione consueta, la visione che non è affatto visione, perché è solo temporanea. La vera visione è quella in cui non ci sono più chi vede e la cosa vista. Essa è senza occhi – non può essere vista con questi occhi, ma con gli occhi della saggezza. Nella visione senza occhi non c’è posto per la ‘di-visione’.

Qui (indicando se stessa) non c’è questione di dare e prende­re né di servire. Queste cose esistono al vostro livello; è da lì che sorgono questi argomenti.

 

Quella sera fu fatta la seguente affermazione:

Grazie all’osservanza del silenzio si ottiene la cono­scenza suprema (jnana).

 

Mataji: Come? Perché è stata usata la parola ‘grazie a’?

 

Un devoto: Il silenzio è di per sé saggezza, il mezzo è di per sé il fine.

Un altro: Per silenzio dobbiamo intendere il placarsi dei cinque sensi.

 

Mataji: Si, ma perché dire ‘grazie a’?

 

Un devoto: Il significato di ‘grazie a’ è completa ed esclusiva concentrazione sul Sé.

 

Mataji: Quando ci si astiene dal parlare, l’attività della mente continua ancora; nondimeno tale silenzio aiuta a controllare la mente. Quando la mente s’immerge più profondamente si rilassa, e quindi si percepisce che Colui che provvede a tutto aggiusterà le cose. Se la mente è agitata dai pensieri delle cose del mondo si perde il beneficio che si dovrebbe guadagnare astenendosi dal parlare. Si potrebbe, per esempio, rimanere in silenzio nel momento della collera che però, alla fine, è destinata ad esplodere. Quando la mente è centrata in Dio, continua ad avanzare costantemente e nel contempo emerge la purezza di corpo e mente. Lasciare che il pensiero si soffermi sugli oggetti dei sensi è uno spreco d’energia. Quando la mente è così occupata e non osserva il silenzio, trova liberazione nel parlare. Osservare il silenzio in questi casi potrebbe sottoporre i sensi ad una tensione eccessiva e causare facilmente qualche malattia. Quando però la mente è rivolta all’interno non solo non c’è pericolo per la salute, ma – ancor più – soffermandosi costantemente sul pensiero di Dio si scioglieranno tutti i nodi (granthi) che costituiscono l’ego, e sarà realizzato ciò che dev’essere realizzato.

Osservare il silenzio significa mantenere la mente concentrata su di Lui; dapprima si sente l’impulso di parlare, ma poi svanisce ogni inclinazione o avversione. È come l’ape che accumula il miele: tutto quello di cui si ha bisogno viene raccolto natural­mente. Quando c’è un’unione sempre più intima con Lui, ciò che è necessario diventa automaticamente disponibile e, per così dire, si presenta da sé.

Come si mantiene in vita il corpo, quando ci si astiene completamente dal parlare e anche dal comunicare con segni o gesti (kasta maunam)? Ogni cosa si fonde, e la persona in silenzio osserva come una specie di spettatore. Nella misura in cui avanza verso l’unione, noterà che gli ostacoli scompa­iono e tutto ciò che è necessario avviene da sé. Una cosa è se tutto accade da sé, e tutta un’altra cosa fare preparazioni con i propri sforzi. Vero silenzio significa che la mente non ha di fatto alcun luogo dove andare. Alla fine, che la mente esista oppure no, che si parli oppure no, non fa alcuna differenza.

Non è corretto dire: “Si è realizzato grazie al silenzio”, perché la conoscenza suprema non viene ‘grazie a’ qualche cosa; la conoscenza suprema rivela se stessa. Per distruggere il ‘velo’ ci sono appropriate discipline e pratiche spirituali.

 

Domanda: Che dite del sadhu silenzioso di Navadvip?*

 

Mataji: Egli aveva acquietato il corpo con la pratica, ma la sua mente non era stata trasformata; era un caso di mero controllo fisico. Se la sua mente fosse stata acquietata, quel tipo di comportamento mondano sarebbe stato impossibile; comun­que, anche quella pratica non è del tutto inutile, perché produce qualche risultato. Solo che non si trova Quello, che è il vero bisogno.

 

*) – Molti anni fa, quando Mataji andò a Navadvip con Bholanath (suo marito), c’era un sadhu che attirava moltissima attenzione. Era solito sedere tutto il giorno nella posizione del loto, così perfettamente immobile che era difficile capire se era un uomo vivo o una statua. Tutti lo rispettavano e credevano si trattasse di un grande santo in uno stato di profondo samadhi. Mataji non fece commenti al riguardo. Stando nella stanza accanto al sadhu, ella scoprì presto che durante la notte questi faceva il bagno, mangiava e dormiva segretamente. A poco a poco il sadhu confidò a Mataji d’assumere quella posa per ricavarne denaro. Grazie all’influenza benevola di Mataji, egli abbandonò quella vita basata sull’inganno.

 

 

 

 

 

Capitolo IX

 

Benares, 27 settembre 1948

 

Domanda: Quando la mente è immersa in samadhi, si fa o no l’esperienza del sovrannaturale (camatkara)? Se sì, implica che ci si è allontanati dall’oggetto della propria contempla­zione? Qual è la vera causa di ciò?

Mataji: Samadhi significa samadhana (soluzione, compimento).

Interlocutore: La soluzione suppone una domanda, mentre il samadhi è uno stato in sé.

Mataji: Questo corpo non usa il linguaggio degli shastra; quando parla si riferisce alle cose comuni, come l’acqua, la terra, l’aria e così via. Chi ha intelligenza è in grado di capire questo linguaggio spezzettato e incompleto. Samadhana significa perfetta risoluzione di tutto: della forma e del senza-forma, dell’essere manifesto e del non-manifesto. La soluzione di un problema è una cosa, ma c’è un altro tipo di risoluzione in cui non può presentarsi la possibilità di problemi e della loro soluzione: è chiamato samadhi.

Interlocutore: Proprio così; ci sono dunque due tipi di samadhi: savikalpa e nirvikalpa.

Mataji: Il primo significa risoluzione dell’esistenza cosmica nella pura e unica Esistenza (Satta). Riguardo al secondo, Là non c’è neppure una cosa che si possa chiamare ‘Esistenza’.

Interlocutore: Neppure una cosa che si possa chiamare ‘Esistenza? Allora cos’è?

Mataji: Fino a quando permangono pensieri e idee (sankalpa e vikalpa), non può esserci neppure il savikalpa samadhi. Savikalpa samadhi significa consapevolezza dell’Esistenza. Quando però la questione dell’Esistenza non si pone – quando non è possibile differenziare ‘ciò che è’ da ‘ciò che non è’ – si può esprimere qualcosa con le parole, per quanto poco? Questo è il nirvikalpa samadhi. Dov’è qui lo spazio per il sovrannaturale?

Interlocutore: Il sovrannaturale, in altre parole ciò che è al di là di questo mondo (aloukika), non è alla portata dell’intelligenza comune; tuttavia può essere compreso dalla mente. Se si accetta la mente come dato di fatto, le sue stesse creazioni sono gli oggetti su cui pensa. C’è, naturalmente, qualcosa di separato dalla mente – Cit – che si considera completo in se stesso. Qualunque visione appaia alla mente in contemplazione, eccetto Quello, è ciò che in genere viene chiamato camatkara.

Mataji: Chi percepisce il camatkara?

Interlocutore: La mente.

Mataji: Se non ci fosse la mente, il sovrannaturale non si potrebbe dunque percepire; di conseguenza, come si possono avere visioni in nirvikalpa samadhi?

Interlocutore: La ragione mi dice che la mente dev’essere presente in entrambi i tipi di samadhi. Secondo gli shastra, nel nirvikalpa samadhi la mente cessa d’esistere. Certo, la mente grossolana non perdura, ma bisogna ammettere che la mente sottile rimane in uno stato latente; altrimenti come si potrebbe parlare in seguito dell’esperienza? In altre parole, l’espe­rienza viene o non viene ricordata quando finisce? Se sì, bisogna ammettere senza dubbio che la mente sottile esiste ancora.

Mataji: Alcuni affermano che una minuscola particella* della mente rimane; altrimenti come potrebbe esserci la manifestazio­ne del corpo? Questo corpo dice anche che se il fuoco dell’Illuminazione può consumare tutto, non deve bruciare anche questo piccolo residuo? Quando c’è esperienza, la mente deve necessariamente esistere; non vi può essere camatkara senza la mente.

Interlocutore: Se cessa d’esistere quel piccolo residuo della mente, come può continuare il corpo? In quale condizione scompare l’ultima traccia della mente? Mentre il prarabdha è ancora attivo o quando è stato esaurito?

Mataji: Qual è la vostra opinione, pitaji? Sì, alcuni sostengono che in samadhi l’ego-mente non esiste. Questo corpo però dice che se tutto viene bruciato dalla conoscenza suprema, non dovrebbe avere il potere di consumare anche il prarabdha?

Interlocutore: Se il prarabdha è cancellato, come può sopravvivere il corpo?

Mataji: Volete dire che fino a quando perdura il corpo deve rimanere necessariamente del prarabdha, e che dunque anche la mente deve sopravvivere? Va bene. Se accettate il corpo come realtà, nel senso comune del termine, dovrete indubbiamente ammettere l’esistenza del prarabdha e, dal vostro punto di vista, anche l’esistenza della mente. ‘Corpo’ significa cambiamento perpetuo, ciò che s’allontana sempre**; ma può ancora porsi la questione del corpo nello stato in cui la morte può considerarsi morta?

Interlocutore: Quando si hanno visioni del sovrannaturale, significa che ci si è allontanati dallo stato supremo?

Mataji: Un volta conseguita la Realtà ultima, non può esservi questione né del sovrannaturale né di deviare o non deviare dalla Realtà. Che cosa s’intende con videhamukti?

Interlocutore: Non essere costretti ad assumere un altro corpo dopo aver lasciato questo è chiamato videha-mukti.

Mataji: Molto bene; il corpo è dunque un ostacolo, e quindi deve scomparire?

Interlocutore: No, lo scopo del nirvikalpa samadhi è con­seguire il potere d’impartire la vera conoscenza ai ricercatori (e per questo si richiede un corpo).

Mataji: Anche il samadhi va considerato uno stato. Ogni cosa è possibile secondo il particolare stadio di sviluppo di una persona. Ciascuno acquisirà sicuramente la conoscenza relativa allo stato raggiunto.

Interlocutore: Se è così, l’esperienza del sovran­naturale indica una deviazione dall’oggetto di contemplazione.

Mataji: Quando l’oggetto di contemplazione si rivela da sé, vale a dire quando Quello si rivela nella forma dell’ogget­to di contemplazione, com’è possibile deviare da esso?

Domanda: L’esperienza del sovrannaturale non ha radice nel desiderio?

Mataji: Si manifesta solo ciò di cui è stato piantato il seme; altrimenti, come potrebbe manifestarsi?

Domanda: Prendiamo le onde di un lago; non so­no la natura dell’acqua, ma sono create dal vento. Com’è possibile non avere desideri?

Mataji: Fino a quando il seme non è stato sterilizzato è destinato a germogliare. Qual è allora, la vostra opinione? Quando soprav­viene la vera conoscenza del Sé il corpo sopravvive oppure no?

Interlocutore: Penso che sopravviva.

Mataji: Sì – come dicono alcuni, sostenuto dalla piccola parte di mente che è stata preservata?

Domanda: Un maestro spirituale insegna dallo stato di jnana o è ancora nello stato d’ajnana?

Mataji: Non sarebbe giusto presumere lo stato d’ignoranza della Realtà quando lo scopo dell’insegnamento è la realizzazione del Sé.

Interlocutore: Per questo suppongo che il karma non sia stato completamente esaurito.

Mataji: Come un ventilatore che continua a girare anche dopo che è stata tolta la corrente?

Domanda: In questo esempio la corrente elettrica viene tolta completamente. Forse questo vuol dire che allo stesso modo viene distrutta interamente anche l’ignoranza?

Mataji: La connessione è interrotta. Ciò che era già cominciato ed è in atto è chiamato prarabdha.

Interlocutore: Se è così, può il prarabdha portare frutto oppure no? Penso che la sua distruzione non sia confermata dai fatti.

Mataji: L’insegnamento del saggio illuminato (jnani) si riferi­sce alla verità come si rivela prima che il suo prarabdha sia esaurito oppure alla verità che sta al di là?

Interlocutore: No, non alla verità che sta al di là. L’istruzione sulla pura verità, non contaminata dal prarabdha, è impartita da un avatar. L’insegnamento del jnani è limitato dal suo prarabdha.

Mataji: Laddove la conoscenza si rivela da sé, la sua rivelazione dipende dal karma?

Interlocutore: Ci sono due tipi di conoscenza: svarupa jnana (conoscenza del Sé) e vritti jnana (conoscenza mentale acquisi­ta). Il secondo tipo di conoscenza, relativo al jnani, gli permette di raccogliere i frutti del suo prarabdha.

Mataji: Intendete dire che come un bambino accresce gradual­mente la sua conoscenza con lo studio continuo, anche in questo caso si ha un’accumulazione progressiva di conoscenza? Questo però non può essere lo stato di un jnani!

Interlocutore: Svarupa jnana si rivela da sé, mentre vritti jnana è la conoscenza degli oggetti. Svarupa jnana non rende jnani. Chi possiede vritti jnana è chiamato jnani, perché la conoscenza del Sé è comune a tutti.

Mataji: ‘Conoscenza del Sé’ significa che si è stabiliti in uno stato particolare?

Interlocutore: Si è stabiliti nel Sé.

Mataji: Giusto, pitaji. Come dite voi, tutti, senza eccezioni, sono radicati nella conoscenza del Sé; invero, è così.

Interlocutore: Non tutti sono consapevoli di questa conoscenza. Solo quelli che hanno acquisito vritti jnana possono essere chiamati jnani, poiché sono in grado di guida­re un aspirante secondo la sua struttura mentale.

Mataji: Sì, ma cosa ha a che fare questo con lo stato in cui il Sé si rivela costantemente in tutta la sua gloria? Come dite voi, è stabilito nel vritti jnana chi ha acquisito la conoscenza con uno sviluppo graduale ed è stato progres­sivamente illuminato.

Le parole, le argomentazioni, il linguaggio e cose del genere appartengono alla mente; mentre nello stato che abbiamo appena riferito, non c’è posto per il linguaggio. Questo corpo rispetta qualunque cosa si dica, perché il punto di vista di ogni persona dipende dalla scala particolare per la quale ascende. Qualunque idea si sostenga – sia di alto o basso livello – per quanto riguarda questo corpo fa lo stesso. Per tale motivo, sia che qualcuno ritenga che il corpo possa o non possa esistere senza prarabdha o che avanzi una teoria da un qualsiasi punto di vista, ogni cosa è giusta al suo livello; ma al di là delle parole e delle espressioni – dove c’è manifestazione e non manifestazione, durata e non durata, spazio e assenza di spazio – là nulla è valido. Non si può neppure parlare dell’essenza delle cose di questo mondo; ma l’essenza dell’Essere trascenden­tale è qualcosa di molto più lontano.

C’è poi anche quel che è noto come ‘fusione’; ma uno yogi può riuscire a staccarsi di nuovo da quello in cui dice d’essersi fuso. Anche questa è una possibilità che avete indicato, non è vero? Ma nello stato di cui parla questo corpo non è così – e anche dire ‘non è così’ non lo esprime. Con il ragionamento e la discriminazio­ne si può giungere alla conclusione che, fino a quando continua l’esistenza fisica, rimane una piccola parte della mente; ma questo corpo parla di uno stato in cui non c’è neppure la possibilità di una traccia della mente.

Domanda: Allora il corpo continua ad esistere oppure no?

Mataji: Se il corpo fosse un ostacolo quello stato particolare semplicemente non potrebbe esistere. In quella condizione la questione se il corpo rimane o meno non può sorgere.

Domanda: Ci può essere domanda e risposta in quello stato?

Mataji: Sì, può esserci – se c’è l’idea del corpo. Ci sono domande e risposte per quelli che pensano che ci siano discepoli e guru.

Interlocutore: Allora parlare di guru, discepoli e così via è completamente senza senso.

Mataji: Il progresso del discepolo continua fino al livello raggiunto dal maestro. Se il maestro è nello stato d’ajnana, e la domanda è posta da chi è ugualmente nell’ignoranza, come ci si può aspettare la rivelazione della vera conoscenza? Nondimeno un discorso che intenda  spiegare la realizzazione del Sé sarà ovviamente utile e benefico. Molto bene, pitaji, ditemi, nel caso di un precettore che è un maestro del mondo, non è naturale che debbano esserci domande e risposte per ottenere la realizzazione del Sé? È e sarà sempre così? È una menzogna? Bisogna considerare qualcos’altro: dite, chi è che risponde e a chi? Che le domande vengano poste e ricevano una risposta è semplicemente un’idea del ricerca­tore al suo livello. Potete considerare chi dà le risposte un individuo, solo perché risponde? A chi risponde? Chi risponde, e qual è la risposta? Chi è chi, in quello stato di puro Essere? Il posto del vritti jnana è dove non c’è la rivelazione del Sé. Questo è difficile da accettare, finché si tratta ancora d’accettare e rifiutare. Come può esservi discussione e conversazione nel livello in cui non può sorgere la questione d’accettare o rifiutare?

Pitaji, avete chiesto: “Parlatemi della vostra esperienza”, ma ciò implicherebbe che ci sia ancora chi ha fatto l’esperienza. Qui ciò è impossibile; inoltre, la questione della trasmissione di potere dal guru al discepolo è ugualmente inesistente. Se non c’è il corpo, non può esserci neanche questa questione. Non c’è questione di un corpo fisico o di qualunque altro corpo. Ciò che è al di là non può essere espresso con le parole in una lingua. Tutto ciò che si può esprimere con le parole o il linguaggio è una creazione della mente. Pitaji, per quanto riguarda il detto: “C’è solo Brahman senza un secondo”, nel Sé non c’è affatto possibilità di un ‘secondo’. L’idea del ‘due’ è stata prodotta dall’operazione della ragione; proprio come dite: “Egli cammina senza piedi e vede senza occhi”.

Questo corpo sostiene che qualunque cosa si dica dal piano della ragione – con l’idea che il corpo esista, dal punto di vista del discepolo – può essere sostenuta a livello di ragionamento, perché la propria visione è condizionata dagli occhiali che si usano. Questo corpo afferma che qualunque teoria si possa sostenere è basata sul ragionamento, che presuppone l’esistenza di un residuo della mente e del prarabdha; ma laddove Quello è rivelato, la cosa è diversa, là è impossibile discriminare o speculare. Oltre la ragione, al di là dei punti di vista, c’è uno stato in cui nessuno di questi può sussistere. Pitaji, in verità in Quello non c’è posto per le parole, il linguaggio o la discriminazione di qualsiasi genere. Che si dica ‘non c’è’ oppure ‘c’è’ – anche queste sono semplicemente parole; parole che fluttuano sulla superficie.***

Per questo si dice che là non hanno posto le parole, il linguaggio, le affermazioni di qualsiasi tipo. Questa è la verità, pitaji; comprendete?

 

Mataji aggiunse: Non avete ricevuto una risposta precisa alle vostre domande. Da quanto è stato detto, dovete prendere ciò che può essere afferrato dall’intelletto.

 

*) – Il termine tecnico è ‘avidya lesha’ (un piccolo residuo d’ignoranza).

**) – Sharira = corpo. Sora = allontanarsi.

***) – Bhasha significa ‘linguaggio’ ed anche (pronunciato diversamente) ‘fluttuare’.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo X

 

 

Benares, 12 agosto 1948

 

 

Domanda: Quali sono i benefici che si possono trarre dall’hatha yoga, quali gli svantaggi?

Mataji: Che significa ‘hatha’? Fare qualcosa con forza. ‘Essere’ è una cosa e ‘fare’ è un’altra cosa. Quando c’è ‘essere’, c’è la manifestazione del prana in un determinato centro del corpo. D’altra parte, se si pratica l’hatha yoga come un semplice esercizio fisico, la mente non sarà minimamente trasformata. Con l’esercizio fisico si sviluppa la buona salute del corpo. Si sente spesso parlare di casi in cui l’abbandono della pratica delle posizioni yoga e simili causa disordini fisici. Il corpo s’indebolisce per mancanza del giusto nutrimento, così anche la mente ha bisogno del cibo adatto. Quando la mente riceve il giusto sostentamento, l’uomo avanza verso Dio; ma curando solo il nutrimento del corpo si accresce l’attaccamento al mondo. La mera ginnastica è nutrimento per il corpo.

Ora, riguardo al ‘fare’, lo sforzo che si sostiene conduce all’essere senza sforzo; in altre parole, viene finalmente trasceso ciò che si è ottenuto con la pratica costante; alla fine tutto viene spontaneo. Fino a quando non accade questo, non è possibile comprendere l’utilità dell’hatha yoga. Quando l’abilità fisica che deriva dall’hatha yoga è usata per coadiuvare lo sforzo spirituale, non è sprecata; altrimenti non è yoga, ma bhoga (godimen­to). Il sentiero per l’Infinito sta nell’essere senza sforzo. Fino a quando l’hatha yoga non mira all’Eterno, non è altro che ginnastica. Se nel corso normale della pratica non s’avverte il Suo contatto, lo yoga è stato infruttuoso.

S’incontrano persone che dopo aver praticato ogni sorta d’esercizi yoga come neti, dhauti e cose del genere, si sono ammalate seriamente. A Nainital ho incontrato di recente un giovane che si è rovinato completamente la salute praticando l’hatha yoga. Aveva una diarrea cronica che non accen­nava a diminuire. Lui e alcuni amici avevano deciso di diventare adepti di hatha yoga e aprire una scuola in cui raggiungere l’unione con Dio mediante questa discipli­na, e si sono ammalati uno dopo l’altro.

Un insegnante esperto che capisce ogni cambiamento nel movimento del prana del discepolo, accelererà o rallenterà il processo, secondo il caso – come un timoniere che dirige un battello tenendo sempre fermo il timone. Senza tale direzione l’hatha yoga non è benefico. Chi guida deve avere una conoscen­za diretta di tutto ciò che può capitare in qualunque stadio, e vederlo con la perfetta prontezza della percezione diretta. Non è infatti lui il medico di quelli che sono sul sentiero? Senza l’aiuto di un tale dottore, c’è il rischio di farsi male.

Tutto diventa dolce quando si sente la benedizione del Suo contatto. È come quando si fa il bagno in un fiume, e dapprima bisogna nuotare con le proprie forze; ma una volta presi dalla corrente, che si sia dei buoni nuotatori o meno, si è semplice­mente portati via. Per questo è pericoloso se non si è sperimen­tato il Suo ‘contatto’. Bisogna entrare nell’essenza della propria vera natura. La sua rivelazione, agendo come un colpo di fulmine, vi attirerà subito a sé, in maniera irresistibile; arriverà il mo­mento in cui non sarà necessaria alcuna azione. Fino a quando non è stato stabilito questo contatto, dedicate a Dio qualunque inclinazione o avversione, dedicatevi al servizio, alla meditazione, alla contemplazione – a qualunque cosa del genere.

Di solito fate i vostri riti quotidiani nella maniera abituale. Se sentite il desiderio di praticare del japa o della meditazione in più, vuol dire che avete avuto un barlume, per quanto fievole, e che quindi c’è speranza che l’essenza della vostra vera natura possa gradualmente emergere. In questo stato c’è ancora il senso dell’io (aham), ma è rivolto all’Eterno, è intento ad unirsi a Lui; mentre le azioni fatte per avere fama o per distinguersi appartengono all’ego (ahamkara) e sono dunque ostacoli, impedimenti.

Che pratichiate l’hatha yoga o il raja yoga o qualsiasi altro yoga, può essere dannoso solo se manca la pura aspirazione spirituale. Quando fate asana e cose simili, se avete trovato accesso al ritmo della natura vedrete che ogni cosa procederà in maniera dolce e spontanea. Da quali segni potrete percepirlo? C’è una sensazione di gioco, una gioia profonda, e il ricordo costante dell’Uno. Sentirete che non è il prodotto della pratica delle cose del mondo. Quanto è stato detto è quello che può rivelarsi solo spontaneamente, da se stesso. Ecco perché c’è il ricordo costante dell’Uno: la vera natura dell’uomo scorre unicamente verso Dio.

Altre volte ancora, quando siederete in meditazione vedrete che recaka, puraka o il kumbhaka avvengono senza sforzo. Quando comincerà il movimento della vostra vera natura, poiché è diretto esclusivamente verso Dio, si scioglieranno i nodi del cuore. Se durante la meditazione noterete degli asana perfetti che si formano da soli o che la spina dorsale diviene spontaneamente eretta, sappiate che la corrente del vostro prana è volta verso l’Eterno; altrimenti, quando sarete impegnati a fare japa, il giusto flusso non verrà, e potrebbe cominciare a dolervi la schiena. Anche questo tipo di japa non è privo di effetti, sebbene non si faccia esperienza della sua azione specifica. In altre parole, la mente vuole ma il corpo non risponde, e pertanto non avrete la gioia inebriante che viene dal profumo della Presenza Divina.

Lasciar dimorare la mente sugli oggetti dei sensi accresce ulteriormente l’attaccamento ad essi. Quando si desta l’intenso interesse per la ricerca suprema si dedica sempre più tempo e attenzione al pensiero religioso, alla filosofia religiosa, al ricordo di Dio immanente in tutta la creazione, fino a quando non si scioglie ogni singolo nodo. Si è presi allora da un solo desiderio: “Come posso trovarLo?”. Come risultato, il ritmo del corpo e della mente diventerà armonioso, calmo e sereno.

Alcuni di voi hanno il desiderio di praticare asana e simili come esercizi spirituali. Se in questo non vi è desiderio di mettersi in mostra, sarà facile entrare nel ritmo della vostra vera natura. Se invece la mente è asservita al corpo, questi esercizi saranno una mera ginnastica. Succede che gli aspiranti siano condotti nella direzione verso cui sono destinati ad andare, sebbene all’inizio non ne siano coscienti; ma anche se lo fossero non sarebbero in grado di resistere. Supponete che una persona faccia il bagno nel mare e decida di nuotare davanti a tutti: chiaramente dovrà guardare indietro. Ma per chi come unica e sola meta ha lo stesso oceano, non c’è nessuno per il quale voltarsi o preoc­cuparsi; allora, quel che dev’essere sarà. Abbandonatevi all’onda e sarete presi dalla corrente; dopo esservi immersi nel mare, non ritornerete più. Lo stesso Eterno è l’onda che bagna la riva per portarvi via. Chi può abban­donarsi così sarà accettato da Lui. Se però la vostra attenzione rimane diretta alla riva, non potrete procedere – dopo esservi bagnati tornerete a casa. Se il vostro fine è il Supremo, la Causa Prima, sarete guidati dal movimento della vostra vera natura. Ci sono onde che portano avanti e altre che spingono indietro. Quelli che possono abbandonarsi, saranno presi da Lui. Sotto forma di onda, Lui tende la mano e vi chiama: vieni, Vieni, VIENI!

Domanda: Come si può trarre beneficio spirituale dall’azione?

Mataji: Agendo per amore dell’azione, impegnandosi nel karma yoga. Fino a quando rimane nascosto un desiderio di distinguersi è karma bhoga (agire per la propria soddisfazione). Si compie l’azione e se ne gode il frutto per il senso di prestigio che procura; rinunciando al frutto, l’azione diviene karma yoga.

Domanda: Com’è possibile agire senza desiderio?

Mataji: Servendo con la coscienza di servire l’Essere Supremo in ognuno. Il desiderio di realizzare Dio non è certo un desiderio comune: “Sono un Tuo strumento, degnaTi di agire con questo Tuo strumento”. Considerando ogni manifestazione l’Essere Supremo, si perviene alla comunio­ne che conduce alla liberazione. Qualunque sia il lavoro intrapre­so, va fatto con tutto il proprio essere e pensando “Sei solo Tu che agisci”, per impedire che s’insinuino afflizione, angoscia o dolore.

Un’altra cosa: se non si continua nell’attitudine “Il lavoro non è stato fatto bene a causa della mia imperfezione, avrei dovuto porre maggior cura in questo servizio”, bisogna ritenere che il lavoro è stato fatto con negligenza. Abbiate il sentimento che qualunque cosa accada è nelle Sue mani; voi siete solo uno strumento. Per questo mettete il corpo, la mente e il cuore nel servizio che potete fare, e per il resto considerate che quanto accade era destinato ad essere: “Ti sei manifestato com’era stabilito, e così si è compiuto”.

Domanda: Anche quando l’azione è spontanea, è ancora azione; ma se non c’è altro guru, come possono essere chiariti i nostri dubbi?

Mataji: Ci sono due tipi d’azione – anzi, un numero infinito di tipi. Questo richiede una spiegazione. Quando comincia a formarsi un asana, esso parla come facciamo voi ed io. In che modo? Quando si rivela lo scopo per cui si fa l’asana, quando si consegue ciò che si può ottenere con una particolare posizione yoga, quello si può considerare il suo linguaggio.

Se un malato si muove troppo, s’affatica e gli manca il respiro. Il respiro di ognuno cambia costantemente ritmo secondo il modo in cui ci si siede o ci si muove, solo che non se ne è consapevoli. Chi ha il controllo del respiro può trasferirlo a volontà a qualunque livello. All’inizio, chi pratica le posizioni yoga non sa quale gamba incrociare prima e quale dopo, né se inalare o esalare nel farlo; di conseguenza, quello che fa è in parte sbagliato. Perché? Quando volete aprire qualcosa ma non sapete com’è fatta, potreste fare un danno. Quando un asana si forma spontaneamente, noterete che le gambe si piegano e si allungano nella maniera corretta e in armonia con il respiro. Quando asana e respiro sono in perfetta armonia, ciò significa che il guru è al lavoro. Prima ignoravate tutto della posizione, poi la comprendete chiaramente.

Nei termini della mente: ci si osserva come un testimone, come un bambino, per così dire; si sente che qualcuno è la causa di tutto ciò che si fa, e che nello stesso tempo l’attività della mente si calma.

Quando le vibrazioni del vostro corpo e del vostro prana raggiungeranno lo stadio in cui ci sarà una grande abilità in tutto ciò che attiene la ricerca suprema, vi troverete ad esprimere delle verità spirituali; tale azione in questo stadio sarà spontanea. Quando vi stabilirete al livello di un rishi a cui sono stati rivelati i mantra, vale a dire quando le vibrazioni del vostro corpo e del vostro prana saranno concentrate su quel livello, dalle vostre labbra usciranno parole corrispondenti a quel livello.

C’è uno stato in cui potreste non avere coscienza né comprensione di quanto sta accadendo – come quando, ad esempio, si forma inconsapevolmente una posizione yoga che ignorate. Chi l’ha prodotta? Il guru interiore. Allo stesso modo, quando sorge all’improvviso un mantra, v’appare chiaramente la soluzione del problema e il significato interiore (tattva) del mantra nella sua forma sovramentale (pratyaksha murti); in altre parole, assieme alla sua essenza, si rivela la sua forma sottile. In quel momento capirete la vera natura del guru interiore, che dimora all’interno e opera da lì. Non solo saranno dissipati i vostri dubbi, ma capirete anche il significato esoterico del mantra. Questo è il vero darshana, in cui ricevete una risposta senza essere consapevoli di com’è arrivata.

In un altro tipo d’esperienza si palesa il processo nascosto di quanto sta accadendo. Qui il mantra, il tattva, il guru e l’Ishta si rivelano simultaneamente; è un esempio della rivelazione ricevuta nella piena consapevolezza di tutte le sue fasi e di tutti i suoi aspetti. Supponete che a qualcuno impegnato a fare japa o meditazione sorga una domanda; in un lampo ottiene la risposta e realizza: “L’ha detto il guru; quel che mi è giunto è l’insegnamento del guru”.

Vi è una linea d’approccio attraverso l’azione e un’altra attraver­so la mente; per essere più precisi, nel primo caso predomina l’azione e nel secondo la mente, sebbene la concentrazione mentale sia necessaria in entrambi. Le due linee agiscono insieme, solo che una predomina sull’altra; quando i mezzi sono gli asana prevale l’azione, quando si usano i mantra prevale la mente.

Di nuovo, chi è che mi guida dall’esterno? È sempre Lui, perché in verità non c’è nessun altro.

Le parole appena dette sono frammenti presi qua e là, offerti affinché ciascuno possa prendere ciò che gli è d’aiuto, e tanto quanto è in grado d’afferrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XI

 

Benares, 13 agosto 1948

 

Mataji: Pitaji, che cosa chiamate ‘nishkama karma’ (azione libera dal desiderio)?

Un devoto: Non sembra possibile compiere un’azione priva di desiderio, vale a dire senza attaccamento per il lavoro o per il suo frutto, ma solo per il senso del dovere. Secondo gli shastra, solo chi ha raggiunto la perfetta realizzazione ne è capace; fino a quando si è legati agli oggetti dei sensi è impossibile. D’altro canto, ciò che si fa con spirito di dedizione a Dio può svilupparsi in lavoro fatto senza desiderio.

Mataji: Con o senza desiderio è ancora azione. Non si può rimanere in alcun modo senza azione fino a quando non si manifesta lo stato del Puro Essere. Cercate di comprendere anche quest’aspetto.

Quando v’abbandonate al guru, dovete obbedire in maniera incondizio­nata ai suoi ordini. Nel farlo, il vostro solo movente dev’essere quello di fare la volontà del guru. Di conseguenza, se nel compiere il lavoro diventate sempre più ansiosi di fare del vostro meglio, potete definire anche questo un desiderio nel senso comune del termine? Impegnarvi con tutto il cuore per essere efficienti, al solo scopo di compiere la volontà del guru, è certamente un buon desiderio.

Se per qualche motivo dovesse sorgere anche il più piccolo risentimento, l’azione non si potrà più definire priva d’attaccamento. Supponete che, dopo aver compiuto la maggior parte di un lavoro, dobbiate abbandonarlo e che verso la fine qualcun altro lo riprenda, lo completi e si prenda il merito d’aver portato a termine l’intera opera. Se vi risentirete, anche solo minimamente, non si può dire che il lavoro era stato fatto veramente con disinteresse. È ovvio che non era proprio libero dal desiderio di riconoscimento.

Quando v’abbandonerete al guru, questi potrà fare qualunque cosa, sottoporvi ad ogni genere di prove, e tuttavia continuerete a considerarvi uno strumento nelle sue mani. Allora avrete raggiunto uno stadio in cui, malgrado tutte le difficoltà, persisterete nel vostro lavoro sapendo che questo è l’ordine del guru. Ricordate, con questa attitudine diverrete più risoluti nella sopportazione, nella pazienza e nella perseveranza, e la vostra energia e la vostra capacità aumenteranno.

Nell’azione è destinato ad esservi conflitto. Quando ci si libererà da questo conflitto? Quando non ci si sentirà più offesi. Bisogna essere pronti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche nel bel mezzo del lavoro, sempre e in qualunque circostanza. Immaginate d’avere fame e che nell’istante in cui sollevate la mano per mettervi il cibo in bocca vi venga chiesto d’andare altrove. In quello stesso istante dovete lasciare cadere con gioia il cibo che stavate per mangiare, e obbedire alla chiamata. Una tale attitudine indica che si è stabiliti in una felicità che non è di questo mondo. Quando ci si avvicina allo stato in cui non c’è sforzo,* essere più o meno biasimati per una mancanza nel proprio lavoro lascia completamen­te indifferenti. Solo allora si diventa uno strumento nelle Sue mani. Il corpo si muove come uno strumento, lo si osserva da spettatori, e si può valutare con quanta calma ed efficienza compia una grande varietà di lavoro.

Il lavoro fatto senza ego è pieno di bellezza, poiché non è motivato dal desiderio di gratificazione personale. Finché non saranno sciolti i nodi che costituiscono l’ego, vi sentirete feriti anche quando vorrete agire in maniera impersonale, e questo produrrà un mutamento nell’espressione dei vostri occhi e del vostro viso, e sarà palese in tutto il vostro comportamento. L’ardente preghiera: “Fa’ che il mio cuore sia libero dalla brama dei risultati”, è ancora desiderio di un risultato; tuttavia, continuando ad aspirare all’azione disinteressata c’è sempre speranza che vi si pervenga.

Nodo significa resistenza. Fino a quando c’è l’ego, ci saranno degli scontri, anche quando si cerca di fare un lavoro impersonale, poiché si è legati e dunque spinti in una certa direzione.

Domanda: Non è allora possibile agire senza una motivazione fin quando non si raggiunge la realizzazio­ne perfetta?

Mataji: Quando si compie il lavoro impersonale e si osserva da spettatori, dall’interno scaturisce una gioia profonda. Se in quel momento il corpo venisse offeso, sarebbe ugualmente fonte di felicità; ma quest’esplosione di gioia non equivale alla realizzazione del Sé. Il fremito di gioia prodotto dal lavoro impersonale è la Sua gioia fatta propria, è la Sua felicità sentita come propria. Si è raggiunto uno stadio in cui la felicità è legata a Lui. In questo stato, poiché si è perso interesse per i piaceri del mondo, si può fare una grande mole di lavoro in maniera perfetta; e anche se, nonostante i propri sforzi qualche lavoro non avesse successo, non ci si sentirebbe turbati. Poiché ogni cosa ha il suo posto, anche qui è la Sua Volontà che prevale. Non vedete che questo è un sentiero di gioia? Quanto detto vale però solo quando l’azione non è macchiata dal senso di possesso; ma neppure questo stato è la realizzazione del Sé. Perché no? Con o senza desiderio, qui ci si riferisce al lavoro. Anche se compiuta in maniera impersonale, l’azione rimane ancora separata da chi la compie; mentre dove c’è il Sé e nient’altro che il Sé, il guru, l’insegnamento e il lavoro non possono esistere separatamente. Fino a quando permane la dualità tra precetto e azione non si può parlare di realizzazione del Sé. Il gioco di chi è pervenuto al coronamento finale è completamente diverso dal lavoro diventato disinteressato in virtù dello sforzo. Quanto detto è la risposta alla vostra domanda.

Anche quando si è raggiunto il samadhi, nel quale un individuo sembra essere completamente assorto all’interno, si tratta ancora di uno stato. Ma quando con questo processo interiore spontaneo (antarkriya) viene sollevato il velo, allora può sopravvenire la visione della Realtà. Questo non può mai accadere attraverso un’attività esteriore, come ad esempio il tentativo di cancel­lare il desiderio.

Un’altra cosa, pitaji: vi fu un tempo in cui questo corpo cercava d’eseguire alla lettera qualunque cosa Bholanath chiedesse. Quan­do vide che questo corpo s’irrigidiva, ch’era incapace di compiere certe azioni mondane o di sopportarle, lui stesso fu felice di ritirare le sue richieste. Nonostante certi doveri non potessero venire assolti, in un certo senso fu osservata una stretta obbedienza. Un giorno venne a trovarci il marito della sorella di Bholanath, Kushari Mahasaya. Quando vide che questo corpo obbediva a Bholanath in ogni cosa, esclamò irritato: “Non hai una tua opinione? Devi consultare tuo marito per ogni piccola cosa? Che situazione! Supponiamo che ti chieda di fare qualcosa di sbagliato, obbediresti anche allora?”. Ricevette questa risposta: “Lascia che si presenti l’occasione e guarda quel che succederà nel momento in cui l’ordine dovrà essere messo in pratica”. Questa risposta lo lasciò senza parole e da quel momento cambiò il suo modo di vivere e fu sempre devoto alla ricerca suprema.

Nella vita spirituale c’è uno stadio in cui è possibile agire in maniera incondizionata e spontanea, perché non ci sono legami. Dove non esistono legami, non c’è pericolo né sentiero sbagliato, non si può fare alcun passo falso.

Domanda: Non fu dopo la realizzazione del Sé che foste in quello stato?

Mataji: Lasciate stare questo corpo! Se dite che questo stato viene solo dopo la realizzazione del Sé, dovete capire che allora è possibile impersonare ovunque e in qualunque modo l’Uno che interpreta tutte le parti dell’Uno, il che è completamente diverso da quanto appena detto. È uno stato d’Unità. Pur rimanendo nella divisione si è indivisi, e si rimane nell’Unità anche apparendo divisi: questo è Quello (Tat Sva). Qui, obbedire e disobbedire sono entrambi Quello.

Ci sono segni attraverso cui si possono riconoscere le azioni fatte come strumento prima della realizzazione del Sé. In questo stadio, il corso dell’azione è diretto all’adempimento dei bisogni reali; ma nello stato del puro Essere è completa­mente differente: fare o non fare, chiamatelo come vi pare, tutto è Quello. In quella sfera è possibile tutto: non mangiare mentre si mangia, e mangiare non mangiando; camminare senza piedi, vedere senza occhi, e altre cose del genere – come direste voi. Quando si è stabiliti nel Sé, chi obbedisce e a chi? Non ci sono ‘altri’, nessuno è separato. Non si parla più a un altro; come potrebbe esserci ancora la relazione, che è basata sul senso di separazione?

Il livello dell’azione disinteressata è completamente diverso dallo stato di realizzazione del Sé. Fino a quando si percepiscono separatamente l’amore per il guru, il lavoro e l’ ‘io’ non c’è realizzazione del Sé. Bisogna però dire che l’azione dedicata a Dio non è uguale al lavoro eseguito sotto l’impulso del desiderio. Il primo è per amore dell’unione che conduce all’Illu­minazione, l’altro per amore del piacere che conduce a ulteriori esperienze mondane. È degna d’essere chiamata ‘azione’ solo quell’azione mediante cui viene rivelata l’eterna unione dell’uomo con Dio; tutto il resto è inutile, indegno d’essere chiamato azione. Non bisogna stabilire un nuovo tipo d’unione, piuttosto si deve realizzare l’unione che esiste per l’Eternità.

Molto bene, ora ascoltate qualcos’altro. C’è uno stadio in cui lavorare è molto piacevole e dà un’intensa felicità; in esso si è del tutto indifferenti a ciò che può risultare dalla propria azione, e il lavoro viene fatto solo per amore del lavoro. In questo non c’è un guru esterno né l’amore per Lui. Questo stato esiste. C’è una grande diversità nel regno dell’azione.

Il senso di contentezza che si prova realizzando un desiderio mondano è una felicità relativa. Questo desiderio può essere per la moglie, il figlio, un parente o qualsiasi altra persona, e in conformità si raccoglierà il frutto relativo ad ogni azione. Questo è agire per la propria soddisfazio­ne (bhoga), non per amore dell’unione (yoga), e comporta dolore unito a gioia.

Per tornare a quanto è stato appena detto sul lavoro fatto per amore del lavoro e non per qualcun altro, immaginate ciò che talvolta si fa anche camminando per strada, non per amore di qualcuno, ma per amore del lavoro, considerando lo stesso lavoro l’unico Dio. Anche questo è uno stato e, continuando a compiere azioni di questo tipo, verrà il giorno in cui si verrà liberati dall’azione. C’è qualcosa come lavorare per il bene del mondo, ma qui manca anche questo. È un tipo di lavoro non motivato dal desiderio o dall’avidità; non si può proprio fare a meno di farlo. Beh, allora perché si fa? Si è semplice­mente innamorati del lavoro. Quando Dio Si manifesta sotto forma di qualche lavoro, che perciò esercita un intenso fascino, impe­gnandosi continuamente in quel lavoro alla fine si viene liberati da ogni azione.

Domanda: Il lavoro genera solo altro lavoro; come può cessare?

Mataji: Non lo sapete? Se potete concentrarvi completa­mente in una determinata direzione così da non poter fare a meno d’agire lungo quella linea, l’azione sbagliata diventa impossibile. Di conseguenza l’azione perde la sua presa su di voi ed è destinata a finire. Quanti stati e stadi ci sono! Questo è uno; certo qui non si è ancora conseguita la conoscenza del Sé, ma non si può agire in maniera errata. Né c’è modo di considerare se si deve agire conformemente agli shastra o in contrasto con essi. Nondimeno, in questo stato di concentrazione su un unico punto non può prodursi un’azione errata che violi le leggi enunciate negli shastra. Il corpo umano – il veicolo attraverso cui si fa il lavoro – è entrato in una corrente di purezza, e di conseguenza si compie il satkarma, l’azione in armonia con la volontà divina.

Piacere e dolore esistono solo al livello dell’individuo. Nei momenti d’intenso dolore, quando si è nell’angoscia, nonostante l’attaccamento a moglie, marito, figlio o figlia, c’è spazio per il pensiero di questi cari? Non si soffre in un eccesso di autocommiserazione? In quei momenti l’illusione dei legami familiari perde ogni presa, mentre regna suprema l’illusione dell’identificazione con il corpo. C’è l’individuo e di conseguenza esiste ogni altra cosa; da qui, su questa base, sorge il presunto andare e venire dell’individuo, il suo ciclo di nascite e morti.

Dovete capire che chi ama Dio deve solo distruggere l’identificazione con il corpo. Una volta fatto questo si distrugge (nasa)* l’illusione, la schiavitù o, in altre parole, il desiderio (vasana)**, il ‘non-Sé’ (na Sva)*. La vostra attuale dimora (vasa) è dove il Sé si manifesta come ‘non-Sé’ (na Sva); una volta distrutto questo, è stata distrutta solo la distruzione. Ciò che è noto come desiderio mondano può anche definirsi l’attività che si manifesta in assenza dell’azione della rivelazione del Sé. Lui non c’è, questo è il punto della questione, non è così?

Questo corpo vi parla ancora di un altro aspetto – potete indovinare quale? Come l’Amato  (Ishta) è il Sé  (Svayam), così anche la distruzione è Lui, ed anche ciò che viene distrutto. È così laddove c’è il Sé e solo il Sé; quindi, con chi ci si può associare? Per questo si dice che Lui non ha un secondo, che esiste da solo. Quando si dice che Lui appare mascherato, che cos’è la maschera? Lui Stesso, naturalmente.

Parlate del mondo. Jagat (mondo) significa movimento, e ciò che è legato è il jiva (l’individuo). Come dice il detto: “Dove c’è un uomo c’è Shiva e dove c’è una donna c’è Gouri”.***

Si definisce Eterno ciò in cui non c’è questione di nascita e rinascita né di essere legati. Ora com­prendetemi bene: come si può legare ciò che è movimento perpetuo? Può rimanere in un posto? Poiché non rimane confi­nato in alcun posto, non può essere legato quando la mente è dissolta; dunque, poiché non è mai legato in un posto particolare, non lo si potrebbe chiamare libero? Allora cosa va e cosa viene? Ecco, è un movimento simile a quello dell’ocea­no (samudra), è Lui che esprime Se Stesso (Sva mudra)****. Le onde sono solo l’alzarsi e il cadere, l’ondulazione dell’acqua; ed è l’acqua che si forma in onde (taranga), in parti del suo stesso corpo (tar anga)* – in essenza acqua.

Da un particolare piano di coscienza ci si chiede: “Cosa fa apparire la stessa sostanza in forme differenti: acqua, ghiaccio, onde?”. Riflettete, e vedete quanto riuscite a comprendere! Nessuna similitudine è mai perfetta; e tuttavia non vi ha aiutato a vedere il problema relativo al mondo? Che cosa avete realizzato di fatto? Scopritelo!

Molto bene; chiamate transitorio ciò che non rimane mai fermo in un luogo, non è così? Ma cosa non rimane? Chi non rimane? Chi viene? Chi va? Cambiamento, trasformazione – che cosa sono? Chi? Afferrate la radice di tutto questo. Ogni cosa passa; vale a dire, la morte passa – la morte muore. Chi va e dove? Chi viene e da dove? Che cos’è in essenza questo interminabile andare e venire? Chi? Di nuovo, non è questione d’azione né d’andare e venire; da dove viene la nascita, da dove la morte? Meditate su ciò!

Direte che l’universo non è altro che l’unico Sé. Così ogni forma è Lui nella Sua stessa forma (Sva akara); cioè, il Sé (Sva), l’Eterno, rivelato come forma (akara). Che cosa implica questo? La non-azione (akriya). In che senso non azione? “Solo l’azione dedicata a Dio è vera azione; tutto il resto è inutile e dunque non è azione”. Questa è la vostra idea dal punto di vista del mondo. Qui questo tipo d’azione non esiste. Allora che cosa esiste? L’Azione del Sé (Sva kriya) – Lui stesso come Azione; Lui stesso come Forma – per questo è chiamato Sakara (con forma); Lui stesso come Qualità – perciò è chiamato Saguna (con qualità). Laddove è manifesto il Signore (Ishvara) o qualcosa riguardante il Suo divino splendore, Lui stesso  (Svayam) appare in azione, pur rimanendo sempre non-agente. Lui come tale è l’Essenza della verità assoluta. Non azione (akriya), eppure forma (akara)! Forma significa incarna­zione (murti) in cui non c’è azione né chi agisce. Di che cosa può essere l’agente, chi dev’essere l’agente e dove? Egli non è rivelato in ciò che definite la schiavitù dell’azione. Egli stesso è l’azione  (kriya), Lui, l’Eterno, che non può essere mai distrutto. Distrutto  (nasta)** significa ‘non-Amato’  (na-ista), e non Chi non può essere indesiderato  (anista); poiché Lui è la sola ed unica cosa desiderata da tutta la crea-zione, l’Amato di tutti. Dovete comprendere che l’Uno ‘Senza Forma’ (Nirakara) e ‘Senza Qualità’ (Nirguna), è anche ‘Con Forma’ e ‘Con Qualità’. Qual è nell’essenza la differenza tra acqua e ghiaccio? Potete dirlo? Solo Lui È, nient’altro che Lui. L’Uno che è pura Coscienza e pura Intelligenza ha molte forme e apparenze, ma nello stesso tempo è senza forma. Per questo, che la chiamiate azione del mondo o azione del ricercatore, sono entrambe Quello. Ogni azione è libera; in altre parole, non si pone affatto la questione dell’azione. Sapete perché è così: c’è solo un’unica ed eterna Realtà (Nitya Vastu), ma poiché siete limitati dai vostri diversi modi di vedere, parlate del non-eterno e affermate che il risultato dell’azione non può durare, che il cambiamento è la sua stessa natura.

Dove conduce l’incessante cambiamento del mondo sempre mutevole? L’azione in cui non c’è possibilità di schiavitù è davvero ‘essere’. ‘Jagat’ (mondo) designa il movimento che è un continuo morire; in altre parole, il suo carattere innato è il cambiamento perpetuo. Sul piano dell’individuo, e quindi della schiavitù, ogni cambiamento appartiene esclusivamente a questo tipo di movimento. Rivolti a Quello (Tat mukhi), molti stanno lottan­do, ciascuno nel proprio modo particolare; uno sforzo del genere è certamente dovere di tutti. Per orientare il corso della propria vita in questa direzione, la persona comune deve impegnarsi in azioni che hanno per fine Quello (Tat karma).

Ora però, riflettete attentamente e realizzate che siete eterna­mente liberi, perché l’azione è sempre libera, non può rimanere legata. Non sapete che la corda con cui legate tutto in questo mondo dovrà rompersi o rovinarsi? Malgrado usiate catene di ferro, o anche d’oro, tutto ciò che lega un giorno si romperà o sarà distrutto. Esistono catene nel mondo che non possono rompersi né essere distrutte? L’unico responsabile della schiavitù della mente è il lamento per i legami temporanei, perché la mente non può essere confinata in alcun luogo. Come un bimbo irrequieto, indifferente al bene o al male, essa cerca la beatitudine suprema, non è mai soddisfatta della felicità temporanea e dunque è sempre errabonda. Come può essere a riposo finché non trova la via alla Realtà suprema, finché non viene assorbita completamente nella sua sorgente, riposando nel suo stesso Sé? Nella profondità del vostro cuore sapete di essere liberi; ecco perché è nella vostra natura desiderare la libertà. Nello stesso modo, se per qualche buona fortuna Egli si rivela come azione, questa cesserà da sé. Ristagno equivale a morte; per rinunciare all’arresto del movimento, l’uomo ricorre a innumerevoli espedienti. Bisogna rinunciare solo a ciò che cade da sé.

Insistete nel dire che la mente va dissolta; ma non dimenticate che la stessa mente è il mahayogi, sì, lo yogi sublime. Le vostre scritture dicono che tale yogi si comporta come un bambino capriccioso, che ignora la pulizia, la decenza e la proprietà, o come un pazzo o come uno all’apparenza svogliato e insensibile. Ritenete molto elevato ciò che assomiglia alla completa indifferenza e inattività, e inoltre dite: “Ciò che è nel microcosmo è nel macrocosmo”.

Un’incarnazione divina (avatar) che gioca come un bambino – quant’è adorabile, com’è affascinante! Quando la gente comune legge o sente parlare dell’infanzia di Sri Krishna o la vede rappresentata sul palcoscenico, l’interpreta alla luce del comportamen­to dei propri figli, poiché è con questi che ha familiarità. Da dove dovrebbe venire la capacità d’intenderne il significato interiore? Quando assistete ad una rappresentazione teatrale del gioco amoroso tra Radha e Krishna nel Rasalila, o a una rappresentazione del Ramalila, non vedete il vero lila, che è totalmente spirituale, sovrannaturale (aprakrta), trascen­dentale. Laddove vi è un’esperienza reale, ciò è dovuto all’ope­ra della visione spirituale.

Domanda: Quando c’è l’esperienza spirituale, come viene interpretato (il lila) in relazione alle cose del mondo?

Mataji: Quando si è liberati dalla schiavitù, quando il distruttibile è distrutto e risplende solo l’Amato – dite, che cosa si può vedere? Quando i legami si spezzano, si rompono solo quelli fragili. Ma il legame dell’amore di Dio non appartiene a questo tipo di legami, è piuttosto uno ‘sciogliere’; inoltre, nella conoscenza dell’Assoluto (Brahmajnana) non esiste più la funzione ordinaria del comprendere. Comprendere infatti significa rigettare un fardello per prenderne un altro; mentre la conoscenza della Realtà suprema è oltre il pensiero e la parola.

Quando la persona comune guarda una rappresentazione del Rasalila o del Ramalila, cosa può intendere del suo significato che non sia colorato dal suo attaccamento al mondo? Dov’è la capacità di sperimentare ciò che è al di là di esso? Nondimeno, poiché sta cercando di comprendere con gli occhi e le orecchie il gioco divino di Dio, si spera che la capacità possa sopraggiungere.

La natura della mente è accettare la molteplicità. Tutto ciò che occorre è focalizzare quest’accettazione su una sola cosa, con o senza forma, che una volta accettata non lasci altra scelta tra accettazione e non accettazione. Quest’unica Cosa esclude completamente ogni possibilità di dualità. Ecco perché si diviene concentrati su una cosa sola. La mente tende alla molteplicità; in mezzo all’incrocio di correnti della mente irre­quieta, ci si deve concentrare fermamente su una sola meta.

Pensate ad un albero: i rami e i ramoscelli che spuntano da ogni lato producono lo stesso tipo di seme di quello che ha prodotto l’albero; e un singolo seme contiene potenzial­mente innumerevoli alberi, innumerevoli rami, ramoscelli, foglie e così via. C’è infinito divenire e infinito essere, infinita manife­stazione e infinita potenzialità; il seme si sviluppa in albero, l’albero produce il seme. Quando si è completamen­te concentrati su una cosa, perché l’Uno non dev’essere rivelato? Nell’Uno c’è l’Infinità e nell’infinito c’è la fine; ma nell’Uno Infinito non può sorgere la questione tra finito e infinito. Ciò che è, È; questo è ciò che si vuole. Dove percepite una fine, in effetti non c’è alcuna fine: poiché Lui è infinito. Lui e soltanto Lui è in tutte le forme e nel senza forma.

Questo per quanto riguarda l’attaccamento all’azione (karma); ma c’è ancora l’attaccamento al bhava*. Anche il bhava appartie­ne al dominio dell’azione, solo che a volte predomina l’azione e altre volte il bhava. Tutto questo è molto difficile da compren­dere. Qualcuno ha posto la domanda: “Che cos’è l’attaccamento al bhava?”. Ecco un esempio: un uomo pratica le posizioni yoga, gli esercizi di respirazione, l’adorazione rituale, la ripetizione del nome di Dio, la meditazione, la contemplazione – uno qualsiasi di questi – per conseguire un bhava particolare, e avendolo raggiunto desidera rimanere sempre in quello stato. Fin quando dura, piuttosto finché predomina quello stato, si è immersi nella beatitudine; ma non si è ancora raggiunta l’Illuminazione, si è solo sulla strada che porta ad essa. Questo è un attaccamento puro e quindi si può andare oltre. Poiché ci si compiace d’indugiare al livello di questo bhava, un uomo potrebbe abbandonarvisi ogni giorno o anche per tutta la vita. Sebbene rimanere in questo stato per molto tempo produca una certa trasformazione, tuttavia non può esserci un progresso speciale. Se però, per qualche tocco ineffabile, questo bhava potesse pervenire alla sua consumazio­ne, si potrebbe procedere oltre. Ci sono stati in cui si spicca il volo, ma si cade di nuovo giù. Di certo è auspicabile stabilirsi nell’equilibrio perfetto, dove ascesa e discesa sono fuori questione. Fino a quando karma e bhava non sono portati a compimento, non si può andare al di là di essi.

 

*) – Qui Mataji gioca con le parole. In bengali sva e sa si pronunciano allo stesso modo; così nasa = distruzione si pronuncia come na Sva = ‘non-Sé’.

**) – Vasana = desiderio, è dove il Sé dimora come non-Sé. Vasa = abitare; na = no.

***) – Con questa frase s’intende dire che gli aspetti divini di Shiva e Shakti sono presenti in ogni essere umano.

****) – Un gioco di parole: samudra = mare; Sva mudra = ‘Sua stessa espressione’.

*) – Taranga = onda; tar = suo, anga = arto, parte intrinseca.

**) – Un gioco di parole: nasta = distrutto; na-ista = ‘non l’Amato’; anista = indesiderato.

*) – Bhava significa disposizione interiore, e si rivela come karma. Il bhava è karma latente, mentre il karma è bhava messo in atto.

 

 

 

 

 

Capitolo XII

 

 

Rispondendo a una domanda, Mataji disse:

 

Fate la carità, impegnatevi nel servizio, fate pranam,* e capirete direttamente con quale spirito fate questi atti. Convince­tevi che l’Illuminazione può venire indipendentemente dallo stato in cui vi trovate. Non nutrite mai l’idea d’essere sprofondati nel peccato e nelle cattive azioni e che di conseguenza non potete giungere da nessuna parte. In ogni momento e in ogni circostanza dovete essere pronti a seguire il sentiero che porta al Supremo. Chi può dire in quale momento il vostro dare, servire o inchinarvi diventerà un atto di consacrazione all’Uno? Tutto è possibile.

Riguardo alla diksha (iniziazione): chi vi dà l’iniziazione vi porterà fino al livello da lui raggiunto. Così quando si ascolta un discorso religioso, l’oratore può comunicare al suo uditorio tanto quanto sta in suo potere dare. Qui ci sono due fattori: l’effetto inerente alle parole di verità e il potere dell’ora­tore; entrambi vengono ricevuti e se chi riceve ha una capacità eccezionale, la conoscenza suprema si rivelerà in lui nello stesso istante in cui riceve l’istruzione.

Ci sono diversi tipi d’iniziazione: tramite mantra, per contatto, con uno sguardo, mediante istruzione. Il contatto con un grande porta frutto; ciascuno ne trarrà beneficio in proporzione alla sua ricettività e sincerità. Esiste anche la Grazia speciale, dalla quale si riceve un raro potere di progredire. D’altra parte ci sono casi in cui, malgrado l’effettivo contatto, non ha luogo alcuna trasmissione di potere; chi ha il potere è in grado di controllarlo – dare e prendere dipende dalla sua volontà. L’istruzione che libera l’uomo dai nodi che costituiscono l’ego, è ciò che si chiama iniziazione mediante istruzione; in questo caso l’istruzione realizza istantaneamente il suo scopo.

Quando si dà il mantra diksha, il mantra viene sussur­rato all’orecchio dell’iniziato e il maestro trasmette tanto potere quanto ne possiede. Se è onnipotente, col suo solo tocco o sguardo può portare il discepolo alla meta finale; ma se non ha il potere supremo, può trasmettere all’iniziato soltanto il potere di cui dispone e potrà guidarlo fin dove è giunto lui stesso. È ovvio che il guru può trasmettere solo tanta ricchezza quanta ne possiede. Se colui che ha dato il mantra non ha raggiunto la meta finale e dunque è ancora sulla via, il discepolo non può progredire ulteriormente, a meno che non avanzi anche il guru. Ecco perché, finché il guru non avanza, il discepolo deve aspettare sul sentiero. Chiunque aspiri alla realizzazione del Sé e cominci a dare iniziazioni mentre è ancora sul sentiero, rimarrà fermo al punto in cui è giunto.

Esiste anche la possibilità che il discepolo superi il guru; quando qualcuno è iniziato in base alle capacità e predisposizioni interiori che porta con sé dalle nascite precedenti, il suo potere di progredire può essere stimolato a tal punto che potrà andare oltre la realizzazione del proprio guru. In questo caso, per conseguire la sua meta, l’iniziato ha bisogno solo della quantità di potere conferitagli dalla diksha. Se il discepolo dovesse contare interamente sulle risorse del suo particolare guru, dovrebbe muoversi fianco a fianco con lui. Inoltre, quando si realizza che il proprio guru è il maestro del mondo e il maestro del mondo è il proprio guru (mondo significa movimento, mentre l’individuo è quello che è legato – il guru libera dall’individualità e dalla relazione con il mondo), ci si riconosce come Suo servo o come il Suo stesso Sé o come una parte di Lui – secondo la propria linea d’approccio.

Come posso dire che il mio guru è il maestro del mondo? Per il semplice motivo che quello è lo stato del guru. Per esempio, chi è un cuoco? La parola ‘cuoco’ non indica certo il nome di qualcuno in particolare, ma una persona che sa preparare da mangiare. Allo stesso modo, quando si rivela lo stato del guru, si capisce che non ha nulla a che fare con una data persona: il guru non è altro che il maestro del mondo. Se il potere del guru può diventare effettivo, ci sarà la realizzazione di ‘Chi sono Io’. Chi è in grado di conferire questo potere è davvero un maestro del mondo. Il guru è colui che può rivelare la verità nascosta dalle tenebre profonde. Il mio guru esiste in molte forme come il guru di ciascuno e di tutti, e il guru di ogni altro è di fatto il mio guru. Capite ora come il guru sia diventato uno.

La persona che pratica riti ed esercizi spirituali di qualunque tipo è sul sentiero, ma non è stabilita nel Sé, poiché sta ancora facendo degli sforzi. Come può essere un guru, se non ha trasceso l’azione? Si parla di fratelli nello spirito: il Signore adorato da tutti è il mio Signore, e il mio Signore è il Signore del mondo. Un guru non è un precettore comune – un guru è colui che ha la capacità di liberare l’uomo dall’oceano del divenire (bhava sagara). Supponete che un aspirante sia stato iniziato da qualcuno che non ha il potere supremo: egli potrà progredire solo fino allo stadio del suo guru, e dopo dovrà aspettare. Grazie ad una congiunzione favorevole – sia per l’impellente desiderio di realizzazione, per le capacità sviluppate nelle vite passate o anche senza queste o simili cause, semplicemente per l’intervento della grazia divina – egli potrebbe per mezzo di un’istruzione, di un contatto, di uno sguardo o di un mantra, ricevere un flusso di potere che gli permetta di procedere oltre. Quando viene un’alluvione, essa non fa distinzioni, come ad esempio ‘quest’albero dev’essere risparmiato e quell’altro sradicato’, ma porta via indistintamente ogni cosa. Allo stesso modo, nel reame dello spirito non vi è scelta, poiché il Sé è contenuto dentro di Sé.

C’è però ancora un’altra possibilità: il potere può essere conferito senza istruzione, senza sguardo, contatto o mantra, che il beneficiario ne sia consapevole nello stesso istante in cui avviene o solo molto più tardi. Colui che ha conferito questo potere porta con sé ogni cosa, come l’inondazione. È nella sua natura ricondurre a Sé ogni cosa e farla Sua. Non è dunque lecito dire, in un caso particolare, che l’iniziazione è stata ricevuta da qualcun altro e non da questa fonte; non è forse tutto Suo, o meglio ancora, Lui stesso? Come l’inondazione porta con sé ogni cosa senza alcuna distinzione, così quel grande Essere fa Suo con assoluta naturalezza e spontaneità ciò che erroneamente si è considerato estraneo. Non ci sono ‘mio’ e ‘tuo’ – c’è solo il Sé rivelato dal Sé: Quello, e Quello soltanto. Una madre non tiene il conto di quel che fa per i figli, perché sono suoi. Similmente, anche qui non si tiene conto di quanto potere è stato comunicato.

Una certa persona prese l’iniziazione da un guru. In seguito quella persona incontrò un mahatma e coltivò frequentemente la sua compagnia, poiché si sentiva beneficiata dal suo contatto. Saputo questo, il guru s’irritò e disse: “Io ho coltivato il giardino e tu ne dai il frutto a qualcun altro?”. Il discepolo rispose: “Non è così; il contatto con il mahatma ha rafforzato la fede nel mio guru”. Quel guru però non riuscì a capire. Per il mahatma in questione, il mondo e ciò che è al di là erano la stessa cosa. Per lui l’identità era completa, poiché vedeva solo il Sé che tutto pervade. Che si avvicini o meno una tale persona, questi tratterà tutti allo stesso modo. Si può dunque dire: quell’uomo non aveva un altro guru, poiché la trasmissione del potere avviene al livello in cui tutti sono uno. Non si può neppure dire che una certa quantità di potere sia stata trasmessa ad una certa persona – come un grande fuoco non discrimina asciugando un oggetto e lasciandone un altro bagnato. L’istruzione, il contatto, lo sguardo o il mantra che costituiscono la diksha avvengono spontaneamente. Qui non c’è distinzione di ‘mio’ e ‘tuo’. Ci sono due modi: il potere può essere controllato oppure conferito universalmente in perfetta uguaglianza. È tutto nelle Sue mani.

 

*) – In un’altra occasione Mataji disse al riguardo: “Fare pranam significa prostrarsi ai Suoi Piedi, aggrapparsi saldamente ad Essi, e dunque uniti a Lui, diventare di Colui che solo È”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XIII

 

 

Benares, 27 marzo 1949

 

Mataji: Una persona ricevette un mantra nel sogno; ebbe la visione di un grande Essere che gli dava un mantra, piuttosto ebbe la visione del mantra. Al risveglio l’esperienza del mantra gli rimase, pura e semplice; in effetti, anche da sveglio continuò ad essere influenzato dalla visione. Con quali conseguenze? Riuscì a risolvere un problema che lo assillava da molti giorni. Si sentì liberato da quel peso e cominciò a vivere in un diverso stato mentale. Non ebbe più desiderio di prendere l’iniziazione. Anche per una persona in questo stato è necessario accettare di nuovo l’iniziazione sul piano fisico?

Un devoto: Può essere o meno necessario, dipende dalla capacità dell’aspirante e dalle sue qualità interiori.

Mataji: Ciò vuol dire che non è uguale per tutti. Fatemi raccontare la storia di una persona – non rivelerò il suo nome. Costui aveva preso sannyasa in conformità ai riti prescritti dagli shastra, e aveva impugnato il bastone del pellegrino senza dimora; ma non gli fu concessa alcuna realizzazione o espe­rienza spirituale. Preso dallo sconforto e dalla disperazione, alla fine abbandonò il bastone da pellegrino e, per così dire, divenne uno scettico. Era talmente scoraggiato che non desiderava nemmeno muovere gli arti. Un giorno, all’improvviso, ebbe un’esperienza e realizzò: “Tutto è dentro di me”. Il suo scoraggiamento svanì insieme alla sofferenza. Una volta abbandonato l’ordine dei sannyasi e tutte le sue pratiche spirituali, dopo avere avuto una realizzazione così elevata, doveva prendere di nuovo l’iniziazione? A volte succede che qualcuno, anche dopo avere ricevuto un mantra nel sogno, prenda di nuovo l’iniziazione nello stato di veglia.

Molti s’avvicinano a questo corpo dicendo: “Prenderò o meno la diksha a seconda dal vostro consiglio. Se mi direte di prendere l’iniziazione, lo farò; se invece mi direte ‘no’, obbedirò ugualmente”. È così che dicono, vero? Non si può dare a tutti la stessa risposta. A qualcuno forse è stato detto: “Non prendete l’iniziazione fin quando non ne sentirete il bisogno da dentro. Continuate a praticare il mantra ricevuto nel sogno”. Ad altri, al contrario, può essere stato suggerito di riprendere l’iniziazione da qualcuno in cui hanno fede.

Domanda: L’iniziazione avviene su livelli sottili; non avviene solo pronunciando un mantra. Parimenti, l’iniziazione ricevuta nel sogno ha luogo sui piani sottili al di là dei sensi. In questo caso, sarà ancora necessario prendere la diksha sul piano fisico?

Mataji: L’atto dell’iniziazione è istantaneo, sia all’esterno sia all’interno. Ogni cosa è già racchiusa in voi. Può darsi che affinché questo possa rivelarsi, affinché l’esterno e l’interno possano fondersi, qualcuno dia la sua benedizione sul piano fisico. Dopo l’iniziazione, praticando sadhana, alcuni possono raggiungere la perfezione, mentre altri sembrano non arrivare da nessuna parte e muoiono.

Dal punto di vista del mondo, dello stato di veglia, si può dire che come si prova un senso d’appagamento ricevendo l’iniziazione sul piano fisico, si può sentire lo stesso appagamento anche quando si riceve nel sogno. Se c’è questo senso di soddisfazione, si dirà: “Non ho bisogno di ricevere di nuovo l’iniziazione”. L’iniziazione ricevuta nel sogno può avere lo stesso risultato di quella ricevuta sul piano fisico. Allora perché, in questo caso, si dovrebbe sentire ancora il bisogno dell’iniziazione sul piano fisico?

Domanda: In altre parole, il senso di soddisfazione che si prova significa che l’iniziazione ha veramente avuto luogo?

Mataji: No, non è semplicemente questione di soddisfazione; profondamente dentro si sente un ‘contatto’ che fa capire che non c’è più bisogno d’iniziazione. A questo punto, se si desidera consultare qualcuno in particolare, allora si potrà essere in grado di capire. Non occorre dire che la persona dev’essere veramente imparziale e capace di spiegare il significato reale dell’esperienza. Certo è difficile giudicare la capa­cità di un uomo di farlo. In genere si può dire che in alcuni casi le persone occupano solo esteriormen­te delle posizioni spiritualmente elevate; comunque, se l’aspiran­te è veramente sincero ed è diventato puro come l’oro, col tempo arriverà a capire da sé (se la sua esperienza è stata genuina).

La trasmissione di potere costituisce l’iniziazione. Il conferimento del potere del guru costituisce il fattore principale, sia che ciò avvenga nel sogno o nello stato di veglia. Se la manifestazione del potere ha effettivamente avuto luogo all’in­terno, allora non c’è più il bisogno di conferirlo esternamente.

Domanda: Quale ne è il segno?

Mataji: Una volta benedetti da questo potere, all’inizio si può sentire ancora un senso di vuoto, ma la sensazione svanirà man mano che si avanza. Ciò dipende da diversi fattori che operano insieme. In alcuni casi, ad esempio, il potere dapprima potrebbe non essere stato percepito internamente; se ne è consapevoli solo più tardi. Se ne potrebbe realizzare la presenza a poco a poco, gradualmente; anche questa è una possibilità. Ancora, il risultato dell’iniziazione potrebbe non avvertirsi subito e nemmeno alla fine di una lunga vita. D’altro canto, si può trovare qualcuno trasformato immediatamente in virtù dell’iniziazione; in questo caso, la sua azione ha portato subito frutto. Se è così, naturalmente non ci sarà problema; ma anche quando per lunghissimo tempo non si nota alcun effetto dell’iniziazione, anche allora il potere sta senza dubbio agendo all’interno.

Sul fatto di dedicare il japa al proprio Ishta o al guru, Mataji disse:

Dopo aver fatto il japa, lo si deve dedicare all’Oggetto della propria venerazione; se questo non si fa e si conserva per sé, c’è il rischio che vada perduto, poiché non si è consapevoli del grande valore di ciò che si possiede. Quando si lascia in custodia ad un bambino un gioiello di grande valore, questi potrebbe buttar via il tesoro, non comprenden­do quant’è prezioso. Anche tenendo per sé il japa si otterrà qualcosa, ma non si raccoglierà il pieno beneficio della sua pratica. Il frutto pieno e totale del japa, che si ottiene quando lo si dedica all’Oggetto supremo della propria devozio­ne, non può aversi se il japa si tiene per sé. Per questo motivo il japa va offerto al proprio Ishta o al guru.

Quando un bambino riceve una cosa, la porta a sua madre, poiché non conosce il valore di quanto ha ricevuto. Non appena la madre vede l’oggetto, realizza subito quanto è prezioso; lo toglie subito dalla mano del bambino e lo ripone al sicuro. Quando il bambino crescerà e comincerà a capire, la madre gli ridarà l’oggetto prezioso dicendo: “Ho conservato il tuo tesoro; adesso riprendilo”.

Una volta acquisita la capacità necessaria (adhikara), si capisce bene quel che prima non si poteva comprendere. Con l’età e la saggezza, la comprensione diventa matura. Offrendo regolarmente il proprio japa all’Ishta, lenta­mente e gradualmente si perviene a realizzare che cos’è il Nome e chi è Colui il cui nome si ripete, chi si è e cosa significa realizzazione del Sé. Quando si rivelerà tutto questo, si realizzerà completamente lo scopo del proprio japa. Nessuno può dire in quale momento particolare accadrà; perciò continuate sempre la vostra sadhana.

Infinite sono le sadhana, infinite le esperienze spirituali, infinita è la manifestazione – e tuttavia Egli non è manifesto. La natura del proprio japa dipende dalla propria linea d’approccio. Perché ho usato il termine ‘infinito’? Le foglie di un albero sono infinite di numero, e pur avendo tutte lo stesso modello, all’interno di quel modello ci sono innumerevoli variazioni. Anche considerata da questo punto di vista, la diversità è infinita. Quando avverrà l’Illuminazio­ne sarà la fine, e in quello stesso istante Egli si rivelerà nell’infinita varietà. Il seme come tale rimane quel che è, e così i rami e i ramoscelli; tuttavia in ciascuno di essi c’è infinità. Anche nel campo della sadhana tutto è infinito. Continuando a praticare il numero prescritto di japa, prima o poi il fuoco s’accenderà. Il fuoco è presente ovunque, solo che non si sa in quale momento l’attrito sarà sufficiente ad accenderlo. Siate sempre pronti! Certo, vi sono degli yogi che possono predire dopo quante ripetizioni del nome o del mantra verrà la Luce.

Perseverate nella pratica del japa. Esso sarà accuratamente conservato per voi, come fosse tenuto al sicuro da vostra madre. In qualsiasi istante può arrivare il momento in cui realizzerete i molti nell’Uno e l’Uno nei molti. Quando sarà completato il numero di ripetizioni? Cosa si scoprirà? Che il Nome e l’Uno al quale appartiene il nome sono indivisibili; così ciò che avete offerto tornerà a voi.

Domanda: Se il japa non fosse dedicato al guru, ma si tenesse per sé, il suo frutto andrebbe perso?

Mataji: Se l’istruzione del guru è di non dedicare il japa, in tal caso rimarrà nelle sue mani; infatti, non si è agito secondo il suo comando? Egli potrà portarlo a compimento preservando­lo o lasciandolo al discepolo. Lui solo sa come sarà completato. Nulla va completamente perso. Se il japa è stato praticato di continuo, un giorno è destinato a portare frutto; ma potrebbe anche essere infruttuoso se, ad esempio, il mantra non fosse corretto o il japa non fosse fatto secondo le regole prescritte – nessuna possibilità può essere completamente esclusa.

Può succedere che qualcuno pratichi japa e austerità con fede e regolarità, e tuttavia non vi sia risposta. Preso da forte disperazione, costui abbandona ogni pratica. L’angoscia non lo lascia dormire né mangiare. Il suo desiderio è grande, anche se ha abbandonato ogni sforzo. Se ha totalmente e unicamente sete d’Illuminazione, dovrà avvenire là e subito.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XIV

 

 

Raipur, Dehradun, 3 dicembre 1948

 

Domanda: La realizzazione del Sé dipende dal potere del guru o avviene indipendentemente da lui?

 

Mataji: Prima di tutto va chiarito che è l’azione del potere del guru a mettere in moto la forza di volontà; in altre parole, si può dire che la forza di volontà derivi dal potere del guru. È l’Uno che si manifesta in entrambi, nel potere del guru e nella forza di volontà. Chi e che cos’è quest’Uno? Tutto ciò che è manifesto è Lui, e null’altro. Allora perché classificare separatamente il sentiero di chi dipende da se stesso (purushkara)? Si può certamente differenziare dal resto, ma bisogna capire che esso è basato sul lavoro del guru interiore. Vi sono ricercatori della verità inclini a procedere senza un guru, perché nella loro linea d’approccio si enfatizza il dipendere da se stessi, il fare assegnamento sul proprio sforzo. Se si va alla radice del problema, si vedrà che nel caso della persona che fa sadhana spinta da un’intensa aspirazione e facendo affidamento sulla propria forza, l’Essere Supremo si rivela in maniera speciale attraver­so l’intensità del suo sforzo. Sapendo che è così, che motivo ci sarebbe, da qualunque punto di vista, di sollevare obiezioni contro il fatto di fare affidamento su se stessi? Tutto quello che si può dire o chiedere al riguardo sta nei limiti del pensiero umano, che è limitato; c’è però uno stato in cui tutto è possibile.

La linea d’approccio del dipendere dalla propria forza o capacità è, come tutti gli altri approcci, un’operazione dell’unico Potere. Non v’è dubbio che il potere del guru può operare in maniera speciale attraverso la fiducia in se stessi, e così non ci sarà bisogno di un insegnamento esterno. Se alcuni aspiranti possono dipendere dall’insegnamento esterno, perché altri non possono ricevere guida dall’inter­no, senza l’ausilio delle parole espresse esternamente? Perché non dovrebbe essere possibile, se anche lo spesso velo dell’ignoranza umana può essere distrutto? In questi casi l’insegnamento del guru opera dall’interno.

Nella vita comune, si può notare che l’insegnante che istruisce i bambini deve ripetere continuamente la stessa cosa agli alunni normali; ma ve ne sono alcuni che ricordano e afferrano qualunque cosa venga detta loro una sola volta. Non avete mai incontrato alunni che non hanno bisogno neppure che gli si dica tutto su un argomento, e che nel corso dello studio pervengono ad una tale comprensione che l’intero argomento gli è subito chiaro? Come sapete, esistono questi studenti intelligenti.

Allo stesso modo, accade a volte che un certo numero di persone ricevano insieme l’iniziazione e pratichino la sadhana; ma solo molto raramente avviene che uno o due iniziati, realizzando l’Unità di tutto, facciano un tale progresso da pervenire allo stato di maestro del mondo. Ciò si può attribuire all’effetto dell’insegnamento ricevuto nelle vite precedenti che dà frutto in quella presente. D’altro canto, in alcuni casi, non potrebbe essere dovuto semplicemente al grande Momento che porta l’Illuminazione? Come si può dire chi può essere illuminato e in quale momento?

Si incontrano dei ricercatori della verità molto zelanti. L’unione dell’individuo con il Tutto esiste eternamente; il desiderio di essere consapevoli di quest’unione non è dovuto al fatto che l’Uno rivelerà Se Stesso?

Molti studenti frequentano l’università, ma solo pochi si distinguono, anche se tutti ricevono l’insegnamento dagli stessi professo­ri. Nessuno può predire in quale istante particolare le circostanze contribuiranno a determinare in ognuno il grande Momento. All’inizio ci possono essere fallimenti, ma ciò che conta è il successo finale. Un aspirante non può essere giudicato dai risultati iniziali; nel campo spirituale il successo finale significa successo fin dall’inizio.

In effetti, che cos’è un mantra? Mentre si è schiavi dell’idea di ‘io’ e ‘tu’ e ci s’identifica con l’ego, il mantra rappresenta lo stesso Essere Supremo sotto forma di suono. Non vedete come certe sillabe sono state magnificamente messe insieme nei mahavakya? Pensate di essere completamente incatenati, ma è solo ciò che crede la vostra mente. Ecco perché la vera conoscenza può sopravvenire nello stesso istante in cui si pronuncia una parola di potenza, composta semplicemente da alcune lettere comuni messe assieme. Com’è misteriosa e intima la relazione tra queste parole e l’immutabile Brahman! Prendete ad esempio lo Shabda Brahman: con il semplice shabda ci si stabilisce nel Sé. L’oceano è contenuto nella goccia, e la goccia nell’oceano. Che cos’è una scintilla, se non una particella di fuoco – di Lui, che è la stessa conoscenza suprema?

È l’idea di ‘tu’ ed ‘io’ che ha tenuto tanto tempo prigioniera la vostra mente. Dovete comprendere che la combinazione di suoni che va usata è quella che ha il potere di liberarvi dalla schiavitù. In verità è attraverso il suono che si entra nel silenzio, poiché Egli è manifesto in tutte le forme, senza eccezioni. Tutto è possibile nello stato che è oltre la conoscenza e l’ignoranza.

Fino a quando non sarete stabiliti completamente nella cono­scenza suprema, dimorate nel reame di onde e suoni. Ci sono suoni che attirano la mente all’esterno e altri che l’attirano all’interno; ma i suoni che tendono all’esterno sono collegati anche a quelli che portano all’interno. A causa della loro correlazione, in un momento propizio potrebbe avvenire quella perfetta unione seguita dalla grande Illuminazione, la rivelazione di ciò che È. Perché non dovrebbe essere possibile, giacché Lui è sempre rivelato? Inoltre, poiché Lui rivela Se stesso, perché non si dovrebbe ammettere che ci possano essere esempi d’Illuminazione senza l’aiuto della parola esterna? In alcuni casi si ricorre alla parola esterna, in altri no; comunque, nel mondo degli uomini così come sono, di solito c’è questa dipendenza. Nei casi in cui non è così, sarà dovuto a istruzioni e tendenze che risalgono alle nascite precedenti; anche questo può certamente accadere. Non è anche giustificabile immaginare che l’illuminazione possa avvenire anche senza avere, nelle vite passate, ricevuto insegnamenti e sviluppato una tendenza in quella direzione? Poiché Lui risplende di luce propria, come si può escludere una qualunque possibilità? La diversità è la nostra stessa diversità; ciascuno vede e parla secondo la propria luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XV

 

 

Sul treno per Benares, 5 dicembre 1948

 

Domanda: Nel ‘Vicara Sagara’ si legge di un certo ministro chiamato Bharju che, nonostante avesse conseguito la conoscenza della verità, non si era ancora liberato dell’illusione. Anche se qualcuno dovesse pervenire alla realizzazione del Brahman mediante i mahavakya, la sua liberazione non sarebbe certa, se dovessero ancora persistere incertezze ed idee errate. Una volta che una cosa è stata rivelata, non capisco come possa sorgere la questione del suo oscuramento. Per di più, in questo caso, da dove nasce il bisogno d’istruzione?

 

Mataji: Una cosa è la realizzazione piena e finale della Luce non velata; tutta un’altra cosa è la realizzazione dovuta ad una certa causa e in cui c’è ancora la possibilità che sia di nuovo oscurata. Quando il gioco della sadhana si è manifestato attraverso questo corpo, esso ha potuto percepire chiaramente queste varie possibilità.

Dovete comprendere che se un velo d’ignoranza è stato per così dire bruciato o dissolto, il ricercatore avrà, per un certo tempo, una visione non offuscata; ma in seguito verrà oscurata di nuovo. Quale sarà comunque il risultato di quel barlume? L’ignoranza sarà meno densa e la vera conoscenza guadagnerà maggiore rilievo; in altre parole, col mo-menta­neo sollevamento del velo, s’allenteranno i legami dell’indivi­duo. In questo stato può sembrare d’avere ottenuto la conoscenza reale; in effetti si tratta di uno stato di realizzazio­ne, anche se del tutto diverso da quello della realizzazione finale. Grazie al potere del guru, il velo è stato improvvisamente dissolto o consumato – come nella storia dei dieci uomini, quando il mahatma dice: “Tu stesso sei il decimo!”*. C’è però una realizzazione che non può essere di nuovo oscurata dal riapparire del velo d’ignoranza: è la vera e definitiva realizzazione del Sé. Il lampo dura un attimo, ma la luce del giorno continua stabilmente.

Domanda: Come può accadere qualcosa non menzio­nata negli shastra?

Mataji: Il compito degli shastra è principalmente quello di espor­re la reincarnazione, il karma e simili dottrine. Se può succedere qualcosa che non è menzionata in essi? Ricordate soltanto che Lui è infinito! Dalla vostra unione con questa Infinità originano le vostre azioni, i vostri sentimenti e i vostri pensieri, nel presente e nel futuro, in qualunque forma Egli si compiaccia d’apparire. Questo non potete apprenderlo dagli shastra; ma gli stessi shastra sono infiniti.

Oh, com’è bella la legge della creazione di Dio! Non conoscete il senso di gioia, di beatitudine profonda, quando in maniera nuova fate esperienza di un barlume di Lui, l’eternamente nuovo!

Considerate: l’Infinito è contenuto nel finito e il finito nell’In­finito, il Tutto nella parte e la parte nel Tutto. È così quando si entra nella grande corrente. Chi ottiene e quello che si ottiene sono la stessa cosa. Non è solo questione d’immaginazione; Egli è percepito in forme sempre nuove attraverso canali sempre nuovi. Quando si entra in quella corrente ininterrotta, è semplicemente naturale che lo yoga, l’intima unione dell’individuo con il Tutto, divenga mahayoga.

Tutto è contenuto negli shastra, ma non proprio tutto. Immagi­nate di stare viaggiando in treno diretti a Dehradun. Durante il viaggio attraverserete grandi stazioni, città e villaggi. Ognuno di questi posti è indicato nella guida ferroviaria; ma può tutto ciò che vedete tra le diverse stazioni essere descritto nei minimi dettagli? Gli alberi e le piante, gli animali e gli uccelli, le piccole formiche che s’incontrano lungo la via: potrebbero essere descritte tutte queste cose? Considerato da questo punto di vista, non tutto è stato scritto negli shastra. Infinita è la diversità della creazione e infiniti i suoi modi d’essere, i suoi movimenti mutevoli e gli stati inalterati che si rivelano ad ogni istante. È impossibile mettere per iscritto tutto ciò che sperimenta un ricercatore della verità. È assolutamente certo che la Realtà è oltre la parola e il pensiero. Viene detto solo ciò che si può esprimere con le parole. Quanto non può essere espresso dal linguaggio è Quello che È.

Quando a certi livelli avrete delle realizzazioni, saranno naturalmente entro i limiti della vostra particolare linea d’approc­cio. Nel caso della piena realizzazione, può un pensiero come: “Non è menzionato negli shastra” avere significato? Le tappe principali del sentiero, che pensate possano essere trattate a fondo, sono state certamente discusse negli shastra; ma vi sono anche le innumerevoli cose che pensate non vi siano espresse. Le esperienze spirituali verranno da sole, secondo il progresso del sadhaka; ma, laddove l’Illumi­nazione è completa, non si pone più la questione d’esperienze importanti o prive d’importanza. Raggiunta la fine del proprio viaggio, ci dev’essere l’Illuminazione piena. Può aver raggiunto la meta del suo pellegrinaggio chi dubita di qualcosa perché non è contenuta negli shastra? Affermazione e negazione hanno significato solo quando si è ancora sulla via, poiché esiste un numero illimitato di sentieri, che non possono essere limitati a quanto è stato esposto negli shastra. Trattandosi dell’Infinito, la diversità d’approcci è ugualmente infinita, e ugualmente infinita è la varietà delle rivelazioni in quei sentieri. Non si dice: “Ci sono tante dottrine quanti sono i saggi”? Se non si ha un proprio punto di vista, non si sarà classificati tra i saggi.

Questo è un aspetto della questione; ora passiamo ad un altro. Dal livello in cui si può dire che tutto è possibile, sarebbe insensato affermare che qualcosa non può accadere perché non si trova negli shastra o in altre scritture. Ogni zelante ricerca ha certamente come fine la rivelazione di Quello che è già rivelato. Potrebbe esservi un desiderio così ardente per qualcosa che non è e che mai può essere?

 

In seguito qualcuno affermò:

La ripetizione del nome di Rama, Krishna, Shiva, Durga o di qualsiasi altro nome è completamente inutile, con la sola ecce­zione del nome ‘Ma’.

Con queste parole si riferiva non ad una ‘Ma’ qualunque, bensì alla specifica ‘Ma’ adorata da un particolare gruppo di persone.

Qualcun altro: La realizzazione del Sé non si può ottenere con la ripetizione di alcun nome, ma solo comprendendo i processi della mente. Ogni problema che sorge nella mente dev’essere ponderato e compreso in tutte le sue implicazioni e, in tal modo, dissolto. Se una persona è incapace di farlo da sola può cercare l’aiuto di qualcun altro, non importa chi. Questo, però, non stabilirà una relazione permanente tra guru e discepolo. In sostanza chi è il guru, visto che tutti sono uno?

Mataji: Pitaji, quando viene dato quest’insegnamento, chi cerca di metterlo in pratica non accetta automaticamen­te chi lo espone come proprio guru?

Interlocutore: No, poiché quando i problemi sono stati risolti, tutti sono di nuovo sullo stesso piano.

Mataji: Proprio così; per questo quando il guru dà l’iniziazione al sannyasa si prostra lungo davanti al discepolo, per dimostrare che non c’è differenza tra guru e discepolo: invero sono entrambi uno.

C’è uno stadio in cui non si può in alcun modo considerarsi un guru o accettare un altro come guru. Esiste un altro stadio in cui non si può pensare a guru e discepolo separati l’uno dall’altro. C’è ancora un altro stadio, che si può descrivere così: chiunque in questo mondo dia insegnamenti o istruzioni è considerato un guru. Vi sono innumerevoli metodi e sillabe sacre concepiti per aiutare l’uomo a conseguire la realizzazione del Sé; usandone qualcuno si può avanzare verso la meta.

Concentrandosi sui problemi che sorgono nella mente, è possibile sciogliere i nodi che costituiscono l’ego. Per questo motivo il metodo riferito prima non è in contraddizione con altri. Quanto si è detto sul fatto di essere sullo stesso piano è anche giusto, poiché in questo mondo le persone devono aiutarsi e istruirsi a vicenda in molte situazioni della vita; perciò si può dire davvero che ognuno è un guru. Da un certo punto di vista si può considerare come proprio guru ogni individuo da cui s’impara qualcosa, non importa quanto. Il vero guru però è chi, con il suo insegnamento, aiuta a conseguire la realizzazione del Sé.

Supponete che una persona stia camminando al buio e che all’improvviso un cane cominci ad abbaiare rabbiosamente accanto a lui. Che accade? L’uomo accende la lampadina tascabile e si trova davanti un enorme serpente velenoso. Facendo attenzione può evitare le sue fauci velenose. In questo caso il cane dovrà essere considerato il suo guru oppure no? Si potrà certamente obiettare che il cane non ha abbaiato per rendere l’uomo cosciente, ma chi dà la consapevo­lezza può presentarsi anche in forma di cane.

 

*) – Mataji si riferisce ad una famosa parabola vedantica. Dieci uomini dovevano attraversare un fiume a nuoto. Per essere certi che tutti avessero raggiunto sani e salvi l’altra sponda uno di essi contò il gruppetto, ma con grande costernazione contò soltanto nove persone. Per controllare che non avesse sbagliato, un altro di loro contò gli uomini, pervenendo allo stesso risultato. Ciascuno contò a sua volta, confermando che erano rimasti in nove, anche se non potevano dire chi di loro mancasse. Un mahatma si trovava a passare di lì, e gli raccontarono l’accaduto. Egli li fece mettere in fila, colpì ciascuno con il suo bastone e chiese loro di contare man mano che batteva. Con gioia e stupore realizzarono che nessuno di loro era annegato. “Ciascuno di voi ha dimenticato di contare se stesso”, spiegò il mahatma.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVI

 

Benares, 17 agosto 1948

 

Domanda: Secondo gli shastra, dopo la realizzazione del Sé si può vivere nel mondo come capofamiglia oppure starsene in disparte come uno spettatore. Quale delle due vie bisogna seguire?

Mataji: Vedo che alludete alla storia di Chudala e Sikhidvaja. Volete dire che la vita nel mondo è possibile dopo la realizzazione del Sé?

Dall’uditorio: No, nel caso in questione c’era ancora una traccia d’ignoranza, anche se era solo uno stadio; in quel tempo Chudala non era ancora pienamente illuminata.

Mataji: Per colui che ha realizzato il Sé non esiste il mondo con le sue coppie di opposti né il corpo. Se non c’è il mondo è ovvio che non può esserci neppure il corpo!

Domanda: Ma il corpo sicuramente esiste.

Mataji: Chi dice che esiste? Non vi è alcuna questione di nome e forma. Chiedersi se un essere realizzato veda qualcosa al di fuori del Sé è ugualmente fuori luogo. A chi dire: “Da’, da’!”.* Eppure questo stato di desiderio è proprio la causa che fa credere nella realtà del corpo, ma siccome non c’è né il mondo né il corpo, non può esservi neanche azione. È logico. Per rendere la cosa ancora più chiara: dopo la realizzazione del Sé non c’è corpo né mondo e nemmeno azione – neppure la più remota possibilità di questi – né c’è un’idea quale ‘non c’è’. Usare le parole è esattamente la stessa cosa che non parlare; stare in silenzio oppure no è lo stesso – tutto è soltanto Quello.

La questione di parlare o non parlare semplicemente non si pone. Vi prego, cercate di comprendere! Cosa credete sia la vita del mondo dopo la realizzazione del Sé? Sì, certo, quanto è scritto nella Bhagavad Gita è assolutamente vero; nondimeno resta valido quanto detto prima, poiché questo corpo risponde strettamente alla linea di pensiero e allo spirito con cui viene posta una domanda. Di conseguenza qual è l’opinione di questo corpo? Se c’è una linea d’approccio, dev’es­serci una meta alla quale conduce; e al di là di essa c’è l’irraggiungibile. Solo in Quello non sorge la distinzione tra raggiungibile e irraggiungibile. Ciò che udite dipende da come suonate lo strumento. Per questo corpo il problema della differenza d’opinioni non esiste.

Domanda: Allora Mataji emette suoni come uno strumento musicale? (Risata)

Mataji: Secondo il vostro orecchio. Sta a voi giudicare se i suoni che le udite pronunciare hanno un senso oppure no. Qui (con Mataji), la questione di far vibrare o meno una corda non si pone. Siete voi a dover decidere se la vostra Mataji è una buona a nulla oppure è utile, perché lei è vostra figlia ed anche vostra madre. Il padre sarà in grado di dire se è inutile o se serve a qualcosa. (Risata).

Qualcuno dell’uditorio: Se il padre lo sapesse, ci sarebbe scampo per lei?

Mataji: È stato detto solo per amore della discussio­ne; ma non è neppure così, e anche il termine ‘non’ è improprio. Ora dove andrete? Dov’è il ‘dove’?

 

*) – Un gioco di parole: deo = da’, e deho = corpo.

*) – Un gioco di parole: baje indica il suono di uno strumento musicale, ma anche ‘inutile’ e ‘insensato’.

 

 

 

 

 

Capitolo XVII

 

 

Benares, 14 Agosto 1948

 

Domanda: Se l’esistenza fisica è il risultato delle azioni compiute nelle vite passate (prarabdha), non dovrebbe rimanere almeno una traccia d’ignoranza finché si continua a vivere nel corpo?

Mataji: Se tutto può essere consumato, non può essere bruciata anche quella traccia? Ad un certo stadio, naturalmente, persiste ancora un ultimo barlume d’ignoranza; ma c’è uno stadio in cui scompare.

Domanda: Si dice che un essere realizzato continui a rima­nere nel corpo a causa del prarabdha degli altri, in risposta al loro desiderio di godere della sua presenza.

Mataji: Il proprio desiderio, il desiderio di un altro e l’indiffe­renza – questi termini indicano i diversi tipi di schiavitù dovuti al desiderio. Anche se qualcuno sembra stabilito nel proprio vero essere (svarupa), se può essere toccato dal desiderio o dal suo contrario, significa che in una direzione o nell’altra la dipendenza continua ancora. Dovete comprendere che chi è in uno stato di videha (libertà dalla coscienza corporea) appare incarnato a quelli che hanno coscienza del corpo. Se dite che il corpo non può sopravvivere dopo l’illuminazione, allora l’incarnazio­ne è un ostacolo alla conoscenza suprema? Laddove il Sé è rivelato, il problema del corpo semplicemente non si pone. In quello stato non esiste la questione di qualcuno o qualcosa in particolare.

Interlocutore: Poiché l’illuminazione può consumare tutto, è logico che anche il corpo fisico debba essere consumato. Alcuni sostengono questa          teoria.

Mataji: Il corpo sarà certamente consumato; ‘corpo’ significa ‘ciò che è soggetto a mutamento’, e perciò sarà bruciato. È come dite voi. Quando sostenete una teoria, prendete una certa posizione e ne siete coinvolto; ma quando c’è la realizzazione del Sé non può mai porsi il problema se il corpo sopravvive o meno.

Domanda: Che cos’è il nitya lila (l’eterno gioco di Dio)?

Mataji: Che cosa intendete per ‘nitya’ (eterno)?

Dall’uditorio: Ciò che non può essere toccato dagli stati di veglia o sonno è chiamato ‘nitya’; così l’ho sentito spiegare.

Un altro: Dualità (dvaita) e non-dualità (advaita) sono entrambe eterne; si tratta solo di diversi punti di vista. Quando si ammettono diversi punti di vista, in mezzo a questa diversità di prospettive si può anche parlare del non-eterno.

Mataji: Se la visione limitata è scomparsa, come possono esserci distinzioni tra dualità e non dualità nel Supremo, nella Causa Prima? Chi cerca percepisce le due cose; e c’è ancora dualità per chi pratica la sadhana, sebbene questi tenda all’Unità. Dovete comprendere la verità che Chi è duale è invero l’Uno che è non duale – come il ghiaccio e l’acqua.

Dall’uditorio: Il ghiaccio non è semplice acqua; bisogna mischiare qualcosa all’acqua per ottenere il ghiaccio.*

Mataji: Nessuna similitudine può essere perfetta in ogni senso. In questo caso l’attenzione è concentrata sull’acqua, che è ghiaccio liquefatto.

Esiste uno stato in cui la distinzione tra dualità e non dualità non ha luogo. Chi è legato da un particolare punto di vista, parlerà dal punto di vista che gli è proprio in quel momento. Dove c’è il Brahman, l’Uno senza secondo, null’altro può esistere. Voi distinguete la dualità dalla non dualità perché siete identificati con il corpo, il che vuol dire che siete in uno stato di continua insoddisfazione.**

 Bisogna sottolineare che se attraverso qualunque tipo di percezione dei sensi si palesa qualcosa che non è Quello e solo Quello è dovuto all’avidya. Se dite ‘c’è solo Vishnu’, quando in realtà non Lo vedete ovunque, che cosa avete realizzato? Ancora, che diciate Shabda Brahman e quindi Brahma o che lo chiamiate Vishnu o Shiva, sono solo manifestazioni diverse necessarie in differenti linee d’approccio. Tutti i nomi sono i Suoi nomi, tutte le forme le Sue forme, tutte le qualità le Sue qualità. Il senza nome e il senza forma è sempre e solo Lui.

Esiste uno stato d’essere in cui non ha importanza se Egli assume una forma oppure no; ciò che è, è Quello. In questo caso, cosa c’è da esprimere con le parole? Ad un certo livello il Sé può rivelare Se stesso a Se stesso. Nello stesso tempo Egli non Si rivela affatto: a chi dovrebbe rivelarSi? Dove non ci sono forme né attributi, cosa si dovrebbe esprimere con le parole? Come può essere ostruita l’Unità, laddove nulla è escluso? In questo stato di totale armonia, assolutamente nulla è più separato da Lui; ciò che è, È. Cosa si può dire o tacere, giacché Esso è assolutamente oltre le parole! È evidente che ognuno parla dal livello in cui si trova; pertanto qualunque cosa venga pronunciata è la Sua parola, il Suo canto, è rivolto a Lui. Nulla mai può rappresentare un ostacolo nello stato supremo: se vi sono ostacoli, allora l’ignoranza è rimasta. In realtà c’è solo Lui – Lui soltanto e nient’altro che Lui.

Immaginate d’aver modellato una bambola nel burro; qualun­que aspetto osserviate – la sua forma, le sue caratteristiche peculiari, la sua apparenza – essa rimarrà burro e solo burro. In quanto burro, essa è una sostanza indivisibile. Dividendola perdereste la sua integrità; perciò la divisione è impossibile.

Ciò che si chiama ‘nitya lila’ è solo il gioco di Dio, nel quale Lui Stesso interpreta tutte le parti. Dov’è Dio, il Suo gioco non può essere mai transitorio.* L’Onnipotente mette in scena il Suo lila infinito, il Suo gioco infinito. Dentro l’Infinito c’è il finito, e nel finito l’Infinità. Lui, l’Uno che è il Sé, gioca con Se Stesso: questo è il ‘nitya lila’. Su quel piano sono presenti diversi aspetti che si confanno ad occasioni e luoghi differenti, perché non è la sfera della Pura Coscienza! Là anche la divisione partecipa alla natura della Pura Coscienza, poiché è trascendentale (aprakrit).

Quando parlate di non dualità, non è implicita l’idea di dualità? Ma nel reame della pura Coscienza se dite: “Maya esiste”, è così; e se dite: “Non esiste maya, è ugualmente corretto. Niente si può escludere. La non dualità che non si può concepire è vera come quella che si può concepire, poiché tutto è Quello, e dov’è Quello non c’è contraddizione. Il falso come tale deve scompa­rire. Come si può parlare di advaita e includere gli individui, il mondo? Se c’è la non dualità, possono ancora esservi individui, può ancora esserci il mondo? In quello stato, dove trovano posto queste cose? Dove c’è solo l’Unità, come può esservi posto per ‘due’? Non si dice anche: “Dove c’è un uomo c’è Shiva e dove c’è una donna c’è Gouri”?. Ora riflettete su tutto ciò, da questo punto di vista.

Qualunque cosa si possa dire, da qualsiasi punto di vista, è giusto; nulla può essere al di fuori di Quello. Che diciate che maya ci sia o non ci sia, di fatto la parola non esprime nulla. Usare o meno le parole, vedere o non riuscire a vedere è semplicemente questione di punti di vista. D’altro canto, dov’è Quello non possono esserci punti di vista. I problemi nascono per mancanza di conoscenza, a causa del velo dell’ignoranza. Fino a quando non si è stabiliti nel proprio essere essenziale (svarupa) è naturale che sorgano delle domande.

Nel mondo fenomenico ci sono molte distinzioni, come ‘sopra’ e ‘sotto’; ma Là cosa è e cosa non è? Come chiamerete lo stato in cui si può ancora parlare di ascesa e discesa? Non dovete ammettere che sono rimaste varie direzioni? Se parlate di ascesa e discesa volete dire che dev’esserci un luogo in cui discendere; ma dove può discendere Lui? Soltanto in Se Stesso, naturalmente. Ascendere e discendere sono un’unica e stessa cosa. Colui che ascende è Colui che discende, e le azioni di ascendere e discendere sono pure Lui. Parlate di discesa divina (avatar), ma di certo Lui non si divide. Voi vedete che il fuoco divampa qua e là, ma questo non tocca la sua unità; il fuoco come tale è eterno. Ecco come dovreste comprenderlo. Nessuna similitudine è mai completa. Colui che discende, da dove discende e dove va – tutto è uno. Non c’è assolutamente nulla al di fuori di Quello.

Domanda: Se il Reale rimane ciò che è, allora che significano ascesa e discesa?

Mataji: Ciò che dite ritrae un particolare punto di vista del mondo. La domanda che ponete è impossibile laddove c’è la Causa Prima, il Supremo. Ascesa e discesa esistono solo su un certo piano. Siete voi che dite: “Dio discende”. In realtà non esiste discesa: Egli rimane là dove è; in Lui sono racchiuse tutte le possibilità. Comprendere solo con l’intelletto – che significa ‘prendere con’ o, in altre parole, essere appesantiti dalle concezioni mentali – impedisce d’afferrare la Verità.

Poi, a che cosa potreste giungere? Lui è già presente anche qui! Ogni cosa trovata sarà persa. Per prepararsi alla rivelazio­ne di Quello che eternamente È, ci sono ingiunzioni e numerosi sentieri; ma non vedete che ogni sentiero deve arrivare alla fine. In altre parole, dovete concentrarvi su quell’immaginazione che spazzerà via tutte le altre immaginazioni.

Quando sarete andati oltre ogni immaginazione, ci sarà la rivelazione di Quello che realmente siete.

La cosa bella è che la stessa natura dell’uomo è desiderare ardentemente la Realtà, la Suprema Saggezza, la Gioia Divina – come fa parte della sua natura tornare a casa quando il gioco è finito. Il teatro del gioco è Suo, anche il gioco è Suo, e così quelli che vi prendono parte, gli amici e i compagni: tutto è solo Lui. L’ignoranza non è certo quel che si cerca. La vera natura dell’uomo è aspirare all’immortalità – o è desiderabile la morte? Il mondo s’interessa alla conoscenza che è ignoranza. Benché sia vero, anche in questo caso si può osservare come l’uomo costruisca una solida casa che possa durare a lungo, perché desidera la stabilità. A volte si può dire una menzogna spinti da un impulso incontrollabile, ma dopo ci si sente a disagio.

La vostra stessa natura è aspirare alla cessazione del desiderio – ed esplorare e penetrare alla radice tutto ciò che percepite. Quando comprate dei vestiti scegliete un tessuto durevole, che non si consumi rapidamente; anche questa è un’indicazione dell’innata tendenza a cercare l’Eterno. La vostra natura è desiderare ardente­mente la rivelazione di Quello che È, l’Eterno, la Verità, la Conoscenza illimitata. Ecco perché non siete soddisfatti dell’evanescente, del falso, dell’ignoranza, della limitazione. La vostra vera natura è tendere alla rivelazione di ciò che SIETE.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVIII

 

 

Lui solo È – perciò la questione di accettare o rifiutare non si pone. Ha mai cominciato ad esistere, perché si debba accettarLo? Egli non è mai nato. Secondo un certo punto di vista è vero che questo mondo non esiste, che la Verità si trova eliminando nome e forma. D’altro canto, nome e forma sono costituiti dall’akshara*, dall’indistruttibile; ma, in essenza, Quello è Verità. L’apparizione del mondo fenomenico (dovuta ad una percezione erronea) e la sua scomparsa (dovuta alla giusta Conoscenza) sono in definitiva la stessa cosa: sono entrambe Lui. Non si tratta dunque di correggere un errore; c’è solo Lui, l’Unica Base di tutto. L’errore di pensare che esista l’errore va sradicato, avendo Lui come meta. Parlare in questo modo serve solo ad aiutare qualcuno a comprendere.

Lo studio delle sacre scritture e di testi simili, a condizione che non diventi un’ossessione, può aiutare ad afferrare la verità. Fino a quando ciò che si è letto non è diventato esperienza personale, vale a dire non è stato assimilato nel proprio essere, non ha realizzato il suo scopo. Un seme tenuto nella mano non può germogliare: per poter manifestare tutte le sue potenzialità deve svilupparsi in una pianta e produrre frutto. Eppure, nello stato in cui non si può parlare di rivelazione né di occultamento, ciò che appare e diviene è sempre presente. Ad un certo livello si vedono, per così dire, bagliori, barlumi della Realtà; anche questo è uno stadio. Non si può comprendere ciò che si percepisce, e dunque si è confusi. In verità ci sono innumerevoli stati e stadi. Il potere di ardere del fuoco è indivisibile, ma come può esserci pienezza e completezza nei cosiddetti bagliori o barlumi che si percepiscono? La questione della divisione non si pone solo dove c’è quella pienezza. Ciò che ci vuole è un genuino risveglio, un risveglio dopo il quale non c’è più nulla da conseguire. Il mondo degli oggetti dei sensi può o non può essere percepito, non fa alcuna differenza. Esiste uno stato in cui è così.

Tutto quello che si fa appartiene al regno della morte, dell’incessante mutamento. Nulla può essere escluso. Tu sei nella forma della morte e nella forma del desiderio; Tu sei il divenire e l’essere, la differenziazione e l’identità – giacché Tu sei infinito, senza fine. Sei Tu che ti celi nel travestimento della natura. Da qualunque punto di vista si possa fare un’affermazione, non m’oppongo mai ad essa; poiché Egli è tutto, Lui solo è: l’Uno con forma e senza forma. La vostra essenza divina non si può rivelare nel vostro stato attuale. Quando si costruisce un tetto, è essenziale che tutti i materiali che lo compongono rimangano uniti. Non importa quanto tempo può richiedere, il tetto dev’essere solido. Allo stesso modo (nessuna similitudine è perfetta), v’identificate con un tipo di lavoro nel quale siete esperto, credendo che costituisca la vostra vera natura. Fin qui va bene; ma dov’è la totalità del vostro essere, che è con forma e senza forma? Dovete riflettere: che cosa dev’essere conseguito? Dovete diventare coscienti del vostro Sé nella sua totalità. No, diventare pienamente coscienti non basta; dovete andare oltre coscienza e incoscienza. Ciò di cui si ha bisogno è la rivelazione di Quello. Dovete continuare a discriminare, a fare uno sforzo sostenuto per convincere la vostra mente del fatto che japa, meditazione e tutti gli altri esercizi spirituali hanno come scopo il vostro risveglio. In questo pellegrinaggio non bisogna rilassarsi mai: ciò che conta è lo sforzo! Bisogna cercare di rimanere sempre impegnati in questo sforzo; deve far parte del proprio essere, bisogna fondersi con il proprio Sé. Sei Tu che gridi disperatamente nell’angoscia, e Tu Stesso sei la Via e la Meta. Affinché questo possa rivelarsi, l’uomo deve usare con vigore incessante la propria intelligenza.

Un albero s’annaffia alle radici. La radice dell’uomo è il cervello, dove il suo potere raziocinante – l’intelletto – è costantemente al lavoro. Tramite il japa, la meditazione, lo studio delle scritture e simili pratiche, si progredisce verso la Meta.

L’uomo deve dunque impegnarsi e, fissando lo sguardo sull’Uno, avanzare lungo il sentiero. Qualunque legame, vincolo o restrizione s’imponga deve avere come fine la Meta suprema della vita. Bisogna andare avanti con indomita energia alla scoperta del proprio Sé.

Che s’intraprenda il sentiero della devozione, in cui l’ ‘io’ si perde nel ‘Tu’, o il sentiero della ricerca del Sé, in cerca del vero ‘Io’, si troverà soltanto Lui tanto nel ‘Tu’ quanto nell’ ‘Io’.

Perché mentre si percorre il sentiero lo sguardo dev’essere fisso? Lo sguardo è Lui e anche il ‘perché’ è Lui. Ciò che è rivelato o nascosto, dovunque e in qualunque forma, sei ‘Tu’, è l’ ‘Io’. Negazione e affermazione sei ugualmente ‘Tu’: l’Uno. Lo capirete pienamente solo quando troverete tutto dentro di voi – in altre parole, nello stato in cui non c’è altro che il Sé. Ecco perché, mentre siete sulla via, dovete dirigere lo sguardo verso l’Eterno. Anche la limita­zione è una manifestazione dell’Illimitato, dell’In­finito; in essenza non è altro che il vostro Sé. Fino a quando tutto questo non si rivela, non si può parlare di realizzazione piena, completa, perfetta, che tutto comprende – chiamatela come volete! In tale stato di Compimento come potrebbe sorgere ancora la questione della perfezione o dell’imperfezione, della completezza o dell’incompletezza?

 

*) – Il termine ‘akshara’ significa ‘indistruttibile’, e anche ‘lettere dell’alfabeto’.

 

 

 

Capitolo XIX

 

 

Raipur, Dehradun, 6 settembre 1948

 

Domanda: Dite che tutti i momenti sono contenuti nell’unico Momento supremo. Non riesco a capire.

 

Mataji: Il momento della nascita determina l’esperienza della vita, ma il Momento supremo che si rivela nel corso della sadhana conduce al completamento dell’azione e quindi del karma. Dovete capire che chi è impegnato nell’azione è soggetto alla natura (prakriti). Gli elementi che costituiscono la natura sono chiamati guna,* perché si moltiplicano; poiché questo mondo non appartiene all’eternità. La percezione del mondo costituito dai tre guna è transitoria e soggetta al tempo. Visto così, si deve riconoscere che il mondo è transitorio. Il vairagya può consumare e il bhava e la bhakti fondere ciò che vi è d’impermanente nella natura umana. Quel momento in cui è impossibile bruciare e fondere è il Momento eterno. Ciò che dovete fare è cercare e afferrare quel Momento. In realtà, questo è Quello – ogni cosa percepita è Quello; come potrebbe Quello essere separato da qualcosa? È così  quando un uomo entra nella corrente; per costui può ancora esistere la divisione tra presente, passato e futuro? Uno yogi può prendere qualcosa che sta dall’altra parte del muro semplicemente allungando la mano. Se ciò è possibile, nonostante esista, il muro non è là; ma anche se non esiste, il muro può operare come se esistesse. La cosa sta dietro il velo, ma il velo è davanti a voi. Il velo in precedenza non c’era né ci sarà in futuro; dunque neanche ora esiste realmente. Da un certo punto di vista è così.

Dovete capire che il processo yogico, grazie al quale il velo non ha il potere d’ostacolare la libera attività dello yogi, è analogo al metodo attraverso cui egli percepisce un oggetto comunemente invisibile; inoltre, sebbene movimento e riposo rimangano ciò che sono, per chi può vedere essi perdono ogni distinzione. In quello stato vi sono possibilità illimitate; ma questo corpo non ha sempre il kheyala di dire ogni cosa. Tutto questo appartiene al regno del meraviglioso (camatkara).

Per tornare al ‘momento’: il momento che vivete è distorto, mentre il Momento supremo contiene essere e divenire – tutto; eppure non c’è nulla, nonostante vi sia tutto. Per questo non si pone la questione del Momento supremo né quella del momento che fa parte del tempo che scorre.

 

Più tardi fu di nuovo sollevato l’argomento del ‘momento’.

 

Mataji: Momento significa tempo, ma non ciò che voi chiamate tempo. Tempo (samaya) significa sva-mayi*, lo stato in cui tutto è visto soltanto come il Sé, e in cui nient’altro può esistere accanto al Sé.

 

Domanda: Dite che c’è riposo (sthiti) nel movimento (gati) e movimento nel riposo. Che significa?

 

Mataji: Quando il seme viene unito alla terra, quando i due sono mischiati, in quel momento c’è riposo; ma subito dopo comincia il processo di germinazione, e di certo questo implica movimento. Muoversi significa non rimanere in un posto; nondimeno, era in un unico e stesso luogo – perché era? – lo è tutt’ora. Ogni stadio della crescita di un albero rappresenta un punto di passaggio. Ancora, le foglie crescono e infine cadono, il che indica un mutamento di stato; lo è e non lo è, giacché dopotutto fanno parte dello stesso albero. L’albero potenzialmente contiene il frutto: ecco perché lo maturerà – ‘maturerà’ vuol dire ‘matura’. (Nessuna similitudine è perfetta in tutto).

 

Mataji disse di nuovo:

In realtà c’è solo e sempre l’Unico Momento. Come un singolo albero contiene innumerevoli rami, innumerevoli foglie, una quantità infinita di movimenti e incalcolabili condizioni statiche, così un momento contiene un numero infinito di momenti, e dentro questi innumerevoli momenti c’è l’Unico Momento. In quel Momento supremo c’è sia movimento sia riposo. Allora perché parlare della rivelazione di quel Momento? Perché ingannati dalla vostra percezione delle differenze, conside­rate voi stessi e ogni singola creatura o oggetto del mondo separati gli uni dagli altri; per questo motivo per voi esiste la separa­zione. Il senso di separazione in cui siete intrappolati, vale a dire l’idea del momento della vostra nascita, determina la vostra natura, i vostri desideri e il loro appagamento, il vostro sviluppo, la vostra ricerca spirituale – tutto. Di conseguenza, il momento della vostra nascita è unico, il momento della nascita di vostra madre è unico, e così quello di vostro padre; la natura e il temperamento di tutti e tre è unico.

Ciascuno di voi, secondo la propria particolare linea d’approc­cio, dovrà cogliere il tempo, il momento che vi rivelerà la relazione eterna attraverso la quale siete uniti all’Infinito: questa è la rivelazione del Mahayoga, l’Unione Suprema. Unione Suprema vuol dire che l’intero universo è dentro di voi, e che voi siete in esso. Non ci sarà motivo di parlare dell’universo, sia che affermiate che esiste o che non esiste sia che non può neppure dirsi che esista o non esista, o altro ancora – come vi pare. Ciò che importa è che Egli si sia rivelato, in una forma o l’altra.

In quel ‘Momento’, in quell’attimo di tempo – quando lo troverete – conoscerete il vostro Sé. Conoscere il vostro Sé implicherà (in quello stesso istante) la rivelazione di cosa sono in realtà vostro padre e vostra madre, e non solo vostro padre e vostra madre ma l’intero universo. È quel Momento che collega l’intera creazione. Conoscere voi stessi non significa conoscere solo il vostro corpo; significa la rivelazione piena di Quello che eternamente È – il Supremo Padre, Madre, Amato, Signore e Maestro – il Sé. Nel momento della vostra nascita non sapevate di venire al mondo; ma quando afferrerete il Momento supremo, in un attimo saprete Chi siete in realtà.

Nell’istante in cui scoprirete il vostro Sé, l’intero universo diventerà vostro. Così come nel ricevere un seme avete ricevuto potenzialmente un numero infinito di alberi, allo stesso modo dovete catturare l’Unico Momento Supremo, con la realizzazione del quale non rimarrà più nulla d’irrealizzato.

Il senso di mancanza e di vuoto (abhava) e il proprio vero essere (svabhava) sono esattamente nello stesso luogo: in effetti sono Quello, e soltanto Quello. Che cos’è il ‘senso di mancanza’, e cosa il ‘vero essere’? Lui, null’altro che Lui. Per la semplice ragione che c’è un solo seme, che è l’albero, il seme e tutti i vari processi di trasformazione – invero soltanto l’Uno.

Voi cercate d’appagare un desiderio con un altro desiderio; pertanto il desiderio non scompare, e neppure il senso di mancanza. La ricerca spirituale diviene genuina solo quando l’uomo si desta alla viva coscienza di questo senso di mancanza. Ricordate che la vera ricerca comincia solo quando il senso di mancanza diventa senso di mancanza della conoscenza del Sé. Che lo chiamiate Uno, Due o Infinito – qualunque cosa si possa dire – tutto è giusto.

 

*) – Un gioco di parole: il termine ‘guna’ significa tanto ‘moltiplicare’ quanto ‘qualità’.

 

 

 

 

 

 

Capitolo XX

 

 

Benares, 26 ottobre 1948

 

Mataji partì per Jhusi. Alla stazione di Benares ebbe luogo una conversazione.

Domanda: Ho sentito dire che uno yogi, grazie al potere del suo yoga, può prolungare la vita di un uomo di uno o due mesi al massimo. Il potere di uno yogi comune non può conseguire di più a questo riguardo.

Mataji: Sì, ad un certo stadio è così; ma il fatto che la vita umana sia stata prolungata, anche di un mese o due, mostra che un ulteriore aumento è solo questione di un maggior potere yogico.

Uno dei metodi per accrescere la durata della vita di un uomo consiste nel prenderne un periodo da quella di un altro. C’è anche un metodo attraverso cui si può prolungare la vita di un uomo senza sottrarne un periodo da quella di un altro. Ci sono yogi in grado di usare i loro poteri in questo modo; ma laddove il Potere Creativo non è ostruito, è una questione completamente diversa.

 

Domanda: Ne segue allora che il corpo fisico può essere reso immortale?

Mataji: Là, tutto è possibile.

 

Interlocutore: Senza dubbio; se Egli è concepito onni­sciente e onnipotente, come potrebbe esserGli impossibile qualco­sa? Nondimeno negli shastra non si trova un solo esempio di un corpo fisico reso immortale. Hanuman ed altri sono considerati immortali, ma ci viene detto che anche loro di tanto in tanto devono cambiare corpo servendosi dei loro poteri yogici.

 

Mataji: Nello stato supremo tutto è possibile ed anche impossibile. Dire: “Questo o quello non è mai successo” vuol dire parlare semplicemente dal punto di vista dell’individuo del mondo. Se il corpo dev’essere mantenuto in un’unica e stessa condizione, anche questo può essere e viene fatto. Ora conside­rate la cosa da un altro punto di vista: i corpi generano corpi, gli alberi alberi, e così via. In un certo stato c’è essere e non-essere. Laddove esiste, è manifesto e continuerà ad essere manifesto tutto ciò che è stato appena discusso; là cosa è e cosa non è? Quando dite che negli shastra non se ne trova esempio, il motivo è che laddove la Verità è rivelata – almeno nella misura in cui è rivelata – queste cose si conoscono mediante percezione diretta.

 

Domanda: Vi ho sentito dire che un individuo può avere molti corpi. Se fosse così, un uomo potrebbe nello stesso tempo praticare yoga con un corpo e con l’altro provare i piaceri e i dolori della vita. Per uno yogi questo potrebbe essere fattibile; ma come potrebbe avere luogo nel caso di una persona comune, che è ancora nell’ignoranza?

Mataji: Sì, proprio così. Si può fare per mezzo dei poteri yogici, ma per la persona comune sembra impossibile.

Quando guardate il bocciolo di un fiore, percepite solo il bocciolo; ma di fatto quel piccolo bocciolo contiene il fiore pienamente sbocciato, il frutto, il seme e l’intera pianta. La manifestazione è universale e illimitata, ma la visione che ne avete è parziale, da un angolo, dipendente da ciò che in un determinato momento vi appare davanti agli occhi. Guardate con una visione d’insieme e cercate di scoprire chi è in realtà quel particolare yogi, quel particolare individuo!

Il vostro corpo è stato dapprima quello di un bambino, poi è diventato quello di un giovane e in seguito diventerà vecchio. Infanzia, gioventù e vecchiaia sono dentro di voi. Se fosse altrimenti, da dove potrebbero venire? Sentite dire ad altri che da bambino la vostra faccia era così e così; è la prova che la vostra faccia da bambino è presente anche in questo momento, altrimenti come potrebbe essere descritta? In maniera simile, il vostro corpo è sempre presente in ognuna delle sue fasi: com’era nel passato, com’è adesso e come sarà in futuro. È così laddove passato, presente e futuro sono sperimentati come eterno-presente.

Il tempo divora tutto incessantemente. L’infanzia è appena passata e l’adolescenza ne prende il posto, l’una divora l’altra; non può essere afferrato dalla percezione comune. Il cambiamento viene osservato solo in misura minima. In effetti apparizione, continuazione e scomparsa avvengono contemporaneamente in un solo posto. Tutto è infinito; finito e infinito sono invero la stessa cosa. In una ghirlanda il filo è uno, ma tra i fiori ci sono degli spazi. Sono questi spazi che causano desiderio e dolore. Riempirli vuol dire essere liberi dal desiderio.

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXI

 

 

Benares, 21 marzo 1949

 

Qualcuno ha affermato che bhakti e vedanta sono due dottrine o vie d’approccio completamente differenti.

 

Mataji: Dove ci sono dottrine non può esserci comprensione.* Ciò che viene enfatizzato da un punto di vista sarà rigettato dall’altro; ma dov’è lo stato in cui bhedabheda, la differenza e la non-differenza, cessano di esistere? Alcuni sostengono che la concezione di Radha-Krishna sia del tutto vedantica, poiché Krishna non può esistere senza Radha né Radha senza Krishna; essi sono due in uno e uno in due.

Interlocutore: Si dice che l’eterno lila di Dio sia basato sulla dualità.

Mataji: La supposizione della dualità è ugualmente all’interno dell’Unità; alcuni sono di quest’opinione.

Domanda: Qual è il vero significato dei termini dhama, lila e parikara?

Mataji: Dicono che anche in mezzo a questo lila l’Unità rimanga immutata. Nel lila si gode del rasa, che è unico; anche nel vedanta la dualità è fuori questione. Anche se agli occhi del bhakta sembra manifestarsi la dualità, anche qui c’è solo Unità. Se non si vedono le cose con le lenti del bhakta, non si può capire. Visto dal suo punto di vista, appare così.

Supponete che quando il guru dà l’iniziazione insegni al discepolo a praticare l’adorazione formale di Radha-Krishna, a considerare se stesso come il servitore e Radha-Krishna come il Maestro. Impegnandosi regolarmente in questo tipo d’adorazio­ne e di servizio possono avvenire varie cose.

Prima di tutto si sente che la stanza in cui si pratica l’adorazione va consacrata alla Divinità, che dev’essere adorata con luci, incenso, ecc. (arati). Giorno dopo giorno, continuando a compiere questi atti d’adorazione, ci si comincerà a chiedere: “Il mio Signore è piccolo come questa statuina? Dimora soltanto nel mio tempietto?”. Servendolo, gradualmente si perverrà a sentire che tutto è Suo. Questo sentimento farà presa e si diffonderà come una malattia contagiosa. Una volta qualcuno disse: “Non provate ad avvicinare Anandamayi Ma, vi sono germi di vaiolo intorno a lei”. (Risata).

La devozione rivolta ad una sola cosa genera pensieri profondi, che si esprimono nell’azione. La Luce del Signore scende sul devoto; in lui si desta il Suo Potere e, di conseguenza, si manifesta una profonda ricerca interiore.

Segue poi lo stadio in cui può capitare di avere la visione dell’Amato – per esempio, mentre si puliscono i vasetti usati per il puja, oppure Lo si può vedere vicino al letto quando si dorme. All’inizio si crede che il Signore sia presente nel proprio tempietto, ma di lì a poco si è in grado di percepirLo qua e là. In uno stadio ulteriore, non Lo si vede più in posti particolari, ma ovunque si volgano gli occhi: Lo si vede seduto sugli alberi, in mezzo all’acqua; Lo si percepisce dentro animali e uccelli. Anche in questo caso, però, la visione che si ha di Lui non è continua.

Viene poi il tempo in cui l’Amato non lascia più il devoto: ovunque questi vada, Egli è sempre al suo fianco e la Sua Presenza è percepita costantemente.

A cosa somiglierà lo stadio successivo? La forma, la varietà e l’apparenza dell’albero – tutto è il Signore. In uno stadio precedente Lo si percepiva all’interno degli oggetti; ma ora non Lo si vede più dentro gli oggetti, poiché non esiste altro che Lui. Alberi, fiori, acqua e terra – tutto è l’Amato, solo Lui. Ogni forma, ogni modo di essere, ogni espressione – tutto ciò che esiste è Lui, e non esiste altro accanto a Lui. Può succedere che un sadhaka rimanga in questo stato per tutta la vita.

Se tutto è il Signore, e nient’altro che Lui, allora anche il proprio corpo dev’essere Lui – l’Unica Esistenza. In questo stadio si è profondamente assorti nel dhyana e non è possibile alcuna attività fisica – sia essa la pratica del rituale o gli atti di servizio. Poiché soltanto Lui è, il devoto non esiste più separato da Lui. Che direbbero i vedantini? “C’è solo Brahman senza un secondo”; nondimeno per alcuni che hanno realizzato questo stato, la relazione tra il Signore e il Suo servo rimane ed è sentita così: “Egli è il Tutto ed io sono parte di Lui, tuttavia c’è solo l’Unico Sé (Ek Atma)”. Perché obiettare se si descrive il Brahman come lo splendore del corpo di Krishna? In verità tutto è identico, indiviso. Realizzarlo significa immergersi completamente nell’Oceano dell’Unità.

Realizzato questo, si può continuare a fare il puja e il servizio, poiché la relazione tra maestro e servitore continua. Mahavira disse: “Lui ed io siamo uno, tuttavia Egli è il Tutto ed io sono una parte di Lui; Egli è il Maestro, io sono il Suo servo”. Si fa l’espe­rienza della Totalità e anche dello stato di servo del Signore. Perché si dovrebbe obiettare se la relazione tra servo e Maestro continua ancora, anche dopo avere realizzato l’Unico Sé? All’inizio è stato quello il sentiero verso la propria meta; dopo la Realizzazione è Lui, l’Uno, che serve. Questo è il vero servizio – chiamatelo mukti, parabhakti o come volete.

Il maestro spirituale dà l’istruzione. Per lui fare o non fare japa è esattamente la stessa cosa; ciò non implica contraddizione. Chiamandolo maestro del mondo, come si possono trovare difetti in lui?

Domanda. Dopo avere realizzato l’Unità di tutto, per quale bisogno o imperfezione diventa di nuovo necessario adorare una particolare divinità?

Mataji: In quello stato non c’è bisogno né imperfezione.

Interlocutore: Non può allora essere servizio o adorazione come l’intendiamo noi!

Mataji: Potete chiamarlo come vi pare. Il punto è questo: Shukadeva era un essere liberato! Perché allora narrò lo Srimad Bhagavatam? Che risposta avete? Qui non c’è posto per il bisogno o l’imperfe­zione che nella fase iniziale spinge il devoto a servire e ad adorare.

I vedantini scartano una cosa dopo l’altra, dicendo “neti, neti”. (‘non questo, non quello’). Oggi infatti vedete un bellissimo fiore e qualche giorno dopo è stato ridotto in polvere; perciò quel che dicono è perfettamente vero. Ciò che è soggetto a cambiare, cambierà senz’altro. D’altra parte, esprimendosi nei termini di coloro che credono nella realtà di nome e forma, si potrebbe dire: “Tutti i nomi sono il Tuo nome, tutte le forme la Tua forma”. Qui nome e forma sono ugualmente reali. Si potrebbe argomentare ancora: “Ciò che è legato al mutamento è il mondo. Perseveran­do nella pratica della discriminazione, alla fine ci si stabili­sce nell’Unica Realtà”. Quando c’è solo l’Unico Oceano – cioè soltanto acqua – non ci si può vedere separati dal Tutto. Questa è l’immersione totale; eppure, se all’esterno o all’interno rimanesse asciutto anche un solo capello, significherebbe che l’immersione completa non è ancora avve­nuta. Una volta che un seme è stato bruciato non potrà più germogliare. Allo stesso modo, dopo avere realizzato l’Unità potrete fare qualsiasi cosa, ma non ci sarà più il seme del karma; e dove questo non è presente, là tutte le forme e le varietà sono solo Quello. Con l’intensa devozione e la discrimina­zione vedantica si è arrivati all’Unica Essenza. ‘Fondersi in Esso’ significa allora diventare come pietre? No davvero, perché forma, varietà e manifestazione sono soltanto Quello.

I tratti caratteristici del sentiero specifico di ogni persona saranno naturalmente conservati: tuttavia, ciò che si raggiunge è l’Uno in cui non può sussistere alcun dubbio, alcuna incertezza. In effetti, cosa c’è da raggiungere? Noi siamo Quello – l’eterna Verità, che rimane separata da noi perché immaginia­mo che debba essere sperimentata, realizzata. Questo punto di vista è valido a certi livelli, ma non ad altri. L’eterno È sempre. Ciò che si chiama ‘il velo dell’ignoranza’ significa movimento continuo. Movimento significa mutamento, trasformazione incessante; ma nessun mutamento ha luogo dove c’è non-azione nell’azione. Per chi lo ha sperimentato, la dualità non esiste; allora chi è che mangia, e cosa potrebbe mangiare? Come potrebbero esservi teorie o dispute in questo stato? Qualcuno può argomentare che poiché una determinata persona parla, non può avere ottenuto quello stato; ma che cosa dice e a chi? Chi è la persona alla quale parla? Quando sopraggiunge la Realizzazione totale è così.

Quando si cerca di spiegarlo agli altri, ci si accorge che non comprendono. Realizzare che qualcuno non ha compreso implica che si è tornati nell’ignoranza? Si sono realizzate entrambe le cose: essere in grado di capire ed essere incapace di capire. Chi è limitato dal punto di vista del mondo è in schiavitù; ma dove c’è la visione di Quello, la conoscenza dell’ignoranza e la conoscenza della Conoscenza si rivelano in tutta la loro pienezza. Non può sorgere assolutamente la questione di vedere separatamente conoscenza e ignoranza. Azioni come mangiare e così via, diventano azioni nell’inazione. Che differenza fa se si compiono ancora rituali oppure no? Sapere e non sapere sono ora contenuti nella loro interezza dentro di Sé. Comprendere questo stato è davvero difficile! È facile comprendere una particolare linea d’approccio o un certo livello; ma qui non si tratta di conseguimento o non-consegui­mento, e dunque anche il non-conseguimento non è una mancanza. Se però fosse rimasto anche il più piccolo attaccamen­to, significherebbe che non è stato ancora raggiunto lo stato sublime. Qualcuno potrebbe diventare ricco vendendo prodotti d’imitazione. Perché si comprano prodotti d’imitazione? Perché somigliano a quelli autentici; è questo che attira! Con l’uso l’inganno verrà alla luce, e si andrà di nuovo in cerca del prodotto originale.

Avendo realizzato l’Unico Sé, e che non esiste nulla al di fuori di Esso, un devoto sa che l’immagine che ha adorato è Quello in una determinata forma. Dopo aver trovato la Realtà, la si percepisce in quella forma particolare: la divinità che ho adorato non è altro che l’Unico Sé, il Brahman – non c’è secondo. Il Signore che adoravo è l’Uno. Quando ci s’immerge nel mare, si sa che l’acqua è Lui in una certa forma. Quando l’aspirante che avanza lungo il sentiero della bhakti perverrà alla visione del Maestro, diventerà un vero servitore. I due metodi ‘non questo, non quello’ e ‘questo sei Tu, quello sei Tu’ conducono all’Unica Meta, che viene raggiunta procedendo per una direzione; ma prendendo l’altra direzione s’arriva ugualmente alla stessa identica Meta. Quelli che seguono il sentiero dell’abbandono alla Shakti, l’Energia Divina, e quelli che adorano l’immagine di Shiva, alla fine giungeranno all’unica Shakti, all’unico Shiva. Quelli che avanzano lungo la via del vedanta scopriranno che il ghiaccio è acqua, che non c’è forma, ma solo il senza forma; mentre il bhakta realizzerà che il suo Amato è solo il Brahman. Ognuno ha il suo metodo d’approccio. L’Uguaglianza, l’Unità, dev’essere realizzata e deve diventare uno stato permanente. Se, dopo averla conseguita, qualcuno dicesse: “Rinuncio alla libera­zione”, oppure: “Abbandono l’adorazione del mio Ishta”, anche se l’abbandonasse nulla andrebbe perduto, perché in quello stato non c’è rinuncia né continuità. Ci si potrebbe chiedere: “Perché non c’è un unico sentiero per tutti?”. Perché Egli rivela Se Stesso in forme e modi infiniti; invero, l’Uno è tutti questi. In quello stato non c’è ‘perché’. Dispute e argomentazioni esistono solo lungo la via. Con chi si dovrebbe discutere? Dispute e differenze d’opinione sono possibili solo fintanto che si è ancora sulla via.

 

*) – Un gioco di parole: in sanscrito vada significa dottrina. La parola bengali ‘bada’ significa esclusione. In bengali le consonanti v e b si pronunciano allo stesso modo.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXII

 

 

Domanda: Ci sono tanti nomi di Dio quanti sono i credi oppure in realtà c’è solo un credo e un nome?

Mataji: Qual è la vostra opinione, pitaji?

Qualcun altro: Ci sono molti credi e molti sentieri, ma di fatto tutte le strade conducono alla stessa unica Meta.

Mataji: Discussioni e controversie appartengono al sentiero, ma invero ciascuno è a casa sua. Lo stesso sentiero non può essere per tutti; anche i fratelli di una stessa famiglia hanno inclinazioni e preferenze diverse. Ad alcuni piacerà il vedanta, ad altri la via vaishnava, ad altri ancora il culto della shakti; perciò non si può dire che c’è solo un sentiero. In effetti, ogni singolo ricercatore della verità è modellato in maniera unica, differente dagli altri; tutti però dovranno passare attraverso la porta della Verità.

Domanda: I credi sono allora realmente differenti l’uno dall’altro?

Mataji: Potete vedere che ogni guru ha un certo numero di discepoli. Volete cercare di convertire ciascuno di loro allo stesso credo? Quante sette sono state fondate proprio perché molte persone hanno abbandonato la loro? Ciò che avete detto, pitaji, in realtà è verissimo. Ma dove? In ciò che appare quando si abbandona ogni cosa. Cosa appare allora? Lui stesso – Quello.

Interlocutore: La mia opinione è presa in prestito, nata da ciò che ho sentito dire ad altri.

Mataji: Perché avete adottato questo particolare punto di vista? Questo corpo presenta le cose dal punto di vista dei rishi e dei muni, secondo la linea d’approccio da loro indicata. Nel mondo ci sono innumerevoli opinioni e scuole di pensiero, ma non faranno al caso del ricercatore. Il metodo da adottare è quello che prescrive il guru: seguendo quella corrente il devoto sarà portato verso l’Oceano.

Domanda: Quando il tempo giungerà alla fine, tutti dovranno immergersi in quell’Oceano? Com’è possibile che persone che hanno mete così diverse, come per esempio i vaishnava con i loro ‘salokya’, ‘samipya’, ecc., e i vedantini con il loro ‘stato equilibrato del Sé’, finiscano per fondersi nell’Unico Oceano?

Dall’uditorio: Riso soffiato e ‘murmura’ sono nomi che indi­cano la stessa cosa!

Mataji: Se riso soffiato e murmura fossero la stessa cosa, perché dovrebbero essere chiamati con due nomi diversi? Ci dev’essere qualcosa che li differenzia, anche se entrambi sono essenzialmente riso. Il senso di ‘mio’ e ‘tuo’ è rimasto. Cosa dite, pitaji? (Risata). Quando parlate di credi e sentieri, ricordate che si parla di sentieri solo mentre si è sulla via.

Interlocutore: Quando si giunge oltre il livello in cui  ogni credo rappresenta una diversa linea d’approccio, non ci sono più discorsi e controversie.

Mataji: Nel ‘non ci sono’ è implicito anche ‘ci sono’, poiché senza di esso non sarebbe potuto spuntare il ‘non ci sono’. Tanti affermano d’appartenere ad una certa setta, ma Lui si trova dove non vi sono dottrine né controver­sie, alla base – presente in tutte le innumerevoli forme. Che parliate dei molti o dell’Uno, è una questione di prospettiva. Si pianta un seme e cresce un albero con innumerevoli fiori e foglie, che dispiega infiniti modi di divenire e innumerevoli fasi di riposo; tuttavia, nell’essenza, è uno. Ogni credo, ogni scuola di pensiero ha il suo particolare metodo d’approccio. Fino a quando percorrete un particolare sentiero, per quel periodo di tempo per voi c’è solo un sentiero. Molto bene, ora lasciamo stare questo punto. Pitaji, avete chiesto in che modo quelli che mirano a mete completamente differenti possano alla fine – quando il processo del tempo giunge al termine – fondersi nell’Unico Oceano. Quando parlate di ‘termine’, parlate entro i limiti del tempo; tuttavia dove c’è il tempo c’è anche qualcosa al di là di esso. Dove però non potrà più sorgere la questione del ‘termine’ o del ‘tempo’, Là tutto sarà unito.

Domanda: Se si continua a parlare e a discutere significa che persiste ancora qualche tipo d’imperfezione?

Mataji: Sì, chi è ancora nel regno della parola, vale a dire dei discorsi materiali sulle cose del mondo, è nei confini del tempo; ma ‘Lì’ la questione del parlare non sorge. Ecco perché quanto detto prima non si applica ad un vero maestro del mondo. Ciò che dice un maestro è diverso dai discorsi di questo mondo.

Domanda: Vi prego di spiegare la natura della felicità divina e di quella mondana.

Mataji: La felicità divina – quella che chiamate parama sukhadam – è pura e semplice beatitudine, felicità che non dipende da nulla.

Domanda: Di certo vi è felicità anche nel mondo!

Mataji: Perché allora fate quest’osservazione?

Domanda: Perché la gente insegue la felicità materiale?

Mataji: Conoscete questa felicità per esperienza, da qui la vostra domanda; ma Dio è misericordioso e vi fa vedere che questa cosiddetta felicità non è tale. Egli suscita in voi il malcontento e l’angoscia, dovuti alla voglia di comunione con il Divino. La felicità del mondo deriva dalle innumerevoli mani­festazioni di Dio. La gente parla e si meraviglia di quelli che rinunciano al mondo, ma in realtà siete voi che avete rinunciato a tutto. Che cos’è questo ‘tutto’? Dio! LasciandoLo da parte, tutti stanno letteralmente praticando la rinuncia suprema. (Risata). È naturale che si desti il senso di bisogno. Anche in mezzo a comodità e piaceri ci si sente in terra straniera. C’è dolore anche nella felicità; le cose che si possiedono non sono veramente proprie: questo è ciò che Lui fa sentire all’uomo. Non si dice che venendo percossi si riacquistano i sensi? S’impara ricevendo colpi.

Quando Egli Si manifesta come felicità materiale non si è contenti, perché insieme ad essa Egli si manifesta come senso di bisogno; mentre neppure la più piccola particella di un granello di felicità divina abbandona mai. La Felicità Suprema sorge quando si realizza l’Essenza delle cose e si trova il proprio Sé. Una volta trovato, non rimane altro da trovare; il senso di bisogno non si desterà più e il tormento del cuore sarà placato per sempre.

Non siate soddisfatti della felicità discontinua, interrotta inevitabilmente dalle scosse e dai colpi del fato. Diventate completi e, raggiunta la perfezione, siate il vostro stesso Sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXIII

 

 

Domanda: Perché non si ricordano le vite passate?

Mataji: Per ignoranza; non c’è conoscenza, a causa del velo che la ricopre.

Domanda: Perché dev’esserci il velo? Dopo la morte del corpo, la mente continua perché i samskara continuano a vivere. Dal momento che i samskara rimangono e considerato che si è in grado di ricordare ciò che è successo ieri e oggi, perché si dovrebbero dimenticare gli eventi delle vite passate?

Mataji: Quando si entra nel regno dell’oblio, si dimentica tutto; questo mondo è il regno del non-ricordo.

Domanda: Perché si dovrebbe dimenticare tutto? Non si potrebbe ricordare almeno una parte?

Mataji: Si dice che il Signore Buddha abbia parlato degli eventi di cinquecento sue vite passate. Potete ricordare qualcosa che avete provato nella vostra presente nascita, dall’infanzia fino ad ora? Voi morite ad ogni istante senza esserne consapevoli. Ora non siete un neonato né un bambino né un giovane. Quando un bimbo nasce comincia spontaneamente a bere il latte di sua madre, e dopo aver bevuto si sente felice e soddisfatto; con questo fatto dà già piena testimonianza delle sue nascite precedenti. Anche ora, quando viene soddisfatta la vostra fame, provate lo stesso senso di benessere e contentez­za che avete provato nella prima infanzia, anche se non ricordate ciò che avete sentito allora.

Domanda: Come mai i samskara rimangono?

Mataji: Per la forza dell’assidua pratica (abhyasa yoga). Dirigete i vostri sforzi alla realizzazione di Dio, e nel momento della morte il ricordo di Lui verrà automaticamente. L’individuo è ciò che è legato, mentre il mondo è movimento perpetuo. Tutto ciò che appare nel mondo delle creature è una manifestazione dell’Uno. Il fatto che moriate in ogni attimo – o, in altre parole, che Brahma, Vishnu e Shiva siano sempre al lavoro – diventa palese quando il corpo muore. Fino a quando vagate nel mondo dell’oblio dovete necessariamente dimenticare.

Che cos’è un samskara? Prendiamo per esempio il samskara di un tempio; vale a dire, viene rivelato quello che già esisteva. Tutto quello che fate, coscientemente o incoscientemente, che ne siate consapevoli o no, lascia un’impressione nella vostra mente. Questo è chiamato samskara. Chi ha la capacità di vedere sarà in grado di discernere che queste impressioni o samskara appartengono alle vite precedenti. Uno yogi può percepire le impressioni di un gran numero di vite passate. Si possono vedere gli eventi di migliaia delle proprie nascite precedenti, ma quando si realizzerà quel che è realmente la creazione, con le sue correnti ascendenti e discendenti, cosa si vedrà? Si vedrà e non si vedrà; e né si vedrà né non si vedrà. Quando ciò che esiste si rivela nella sua pienezza, si chiama rivelazione del Sé, Quello Stesso, l’Uno che splende di luce propria – chiamatelo come volete.

La nascita di tutto ciò che esiste in questo mondo – siano alberi, piante, insetti, rettili o qualunque altra cosa – è invero la vostra nascita, e la loro morte la vostra morte. Nel livello in cui tutto è contenuto dentro di voi e voi siete presenti in tutto, c’è solo l’Uno, Lui soltanto.

Supponete di poter visualizzare alcune delle vostre vite precedenti: la vostra visione sarà numericamente limitata. Se ricordate la storia delle vostre vite precedenti significa che conoscete soltanto il corso delle vostre vite individuali, nei loro tempi e luoghi circoscritti; ma non siete consapevoli dei vostri movimenti o gradi statici nell’intero universo. Potete vedere i ‘molti’, ma come andrete oltre la molteplicità? Trovando il vostro Sé nei molti! Chi è quel Sé? Lui, nessun altro che Lui. Fino a quando Lui, il Sé, non viene rivelato, siete imprigionati entro dei confini; confine significa ignoranza, e dunque c’è oblio.

Domanda: State suggerendo che dobbiamo raggiungere lo stato della Divinità (Ishvarakoti)?

Mataji: Non si tratta di questo; finché rimane il velo dell’ignoranza è impossibile. Voi stesso dovete accertare se quanto detto si riferisce all’Ishvarakoti o al sadhakakoti!

Domanda: Chi è stabilito nel Sé dimentica naturalmente il mondo?

Mataji: Nel regno dell’oblio si dimentica; finché v’identificate con il corpo (deho), è nella vostra natura gridare: “Dai, dai” (‘deo, deo!’). Dite: “Dai!” perché siete nel bisogno. Laddove esiste il bisogno dev’esserci necessariamente errore ed ignoranza; e dove c’è errore ed ignoranza ci sarà certamente oblio. Quando praticate sadhana per realizzare il Sé o piuttosto quando, per grazia di Dio, la sadhana avviene – poiché poter impegnar­si nella sadhana è la grazia di Dio – allora, dopo aver superato strato dopo strato d’ignoranza, realizzerete: “In verità Io sono il tutto”. Io sono: ecco perché ci sono alberi, piante e tutto ciò che esiste, per quanto molteplice. In effetti ogni singola forma è quest’Io.

Quando sono cosciente della separazione, la mia espressione naturale è volere. Anche in questo stato Io sono infinito. Nella stessa forma del corpo vi sono infinite varietà di stati d’animo e innumerevoli modi d’espressione. Invero, tutte le forme esistenti sono infinite, e anch’Io sono infinito. Vedo che tutte le forme e i segni particolari sono me: perciò Io esisto eternamente. Ho scoperto di avere tante forme – forme davvero infinite, con infiniti modi d’apparire. Esse esistono dentro di me in un’infinita diversità di modi, e tuttavia Io stesso sono tutte queste. Dentro di me esiste separatamente ogni tipo di manifestazione – niente è escluso da questa varietà infinita. Quando il simile si percepisce direttamente e tutti gli aspetti molteplici si riconoscono come un tutt’uno, allora l’Uno sarà certamente rivelato. Come si può distinguere l’Uno dall’infinita molteplicità? Il molteplice esiste nell’Uno e l’Uno nel molteplice.

Ecco perché quando potrete visualizzare cinquecento vostre nascite precedenti, sarete ancora limitati dal numero: c’è molto più di questo! Quando vi scoprirete in tutte le innumerevoli forme, realizzerete che il Signore è presente in ognuna di esse. Quando si rivelerà pienamente la natura essenziale dell’infinito e del finito, vedrete che c’è finito nell’infinito e infinito nel finito. Allora potrete risolvere la polarità di Sakara (Dio con forma) e Nirakara (Dio senza forma).

Se per l’individuo non ci fosse il velo dell’ignoranza, come si potrebbe realizzare il lila di Dio? Quando s’interpreta una parte, bisogna dimenticare se stessi; il lila non potrebbe continuare senza il velo coprente dell’ignoranza. È naturale che ci sia il velo. Il mondo è la percezione, da parte dei sensi, di ciò che viene proiettato (srishti-drishti). Essere un individuo separato significa essere legato, e ciò che lega è il velo dell’ignoranza. Qui c’è la chiave dell’oblio, di cui avete chiesto.

Quando parlate di nascite precedenti, intuitivamente sentite: “C’è mai stato un tempo in cui non esistevo?”. Siete voi a parlare in termini di ‘prima’ e ‘dopo’, poiché siete confinato nel dominio del tempo. In realtà non si tratta di essere ‘nel tempo’ e ‘fuori del tempo’, nel giorno e nella notte, ‘prima’ e ‘dopo’. Fino a quando si rimane schiavi del tempo, ci sarà nascita e morte; in effetti non esiste una cosa come la rinascita. Ad un certo punto, tuttavia, ci sarà sicuramente la memoria delle vite precedenti; ma qual è il significato di ‘prima’ e ‘dopo’, giacché io esisto per l’eternità?

Domanda: Avanzando lungo il sentiero dell’advaita si acquisiscono le vibhuti (poteri sovrannaturali)?

Mataji: Se ad un sadhaka che aspira allo stato di perfetta unità (advaita sthiti) offrissero i poteri sovrannaturali, questi non li accetterebbe; mentre l’aspirante che adora Dio con forma e attributi accetterà qualunque potere psichico gli venga concesso, considerandolo una manifestazione dell’Uno. Nel corso della sadhana, questi poteri sono destinati a svilupparsi perché rappresentano il frutto dei propri sforzi. La parola ‘vibhuti’ indica le varie manifestazioni dell’Onnipervadente (Vibhu). Per questo è semplicemente naturale e certo che le vibhuti debbano manifestarsi. L’aspirante però deve fare attenzione a non farsi possedere da questi poteri, perché allora il suo progresso s’arresterebbe a quel punto.

Il ricercatore che segue il sentiero dell’advaita non accetterà la dualità. D’altra parte, chi contempla Dio-con-forma non accetterà la non dualità; ma, nel corso della sua pratica, arriverà a comprendere che l’Unica Forma suprema si rivela in tutte le forme. Ciò che è chiamato Nirguna, il Senza-Attributi, sarà ugualmente rivelato nella sua pienezza e allora ci sarà la conciliazione dell’apparente contrasto tra Sakara e Nirakara.

Una volta raggiunto un certo stato, quando la molteplicità scompare, non bisogna confonderlo con la realizzazione del Sé. Per chi segue il metodo dell’advaita, la realizza­zione dell’Unico Sé si ottiene con il viveka e il vairagya. Quando sono state distrutte tutte le differenze e ogni cosa è confluita nell’Uno, si consegue uno stato di realizzazione che alcuni chiamano advaita sthiti (stato di unità assoluta). Il mondo sempre mutevole – coi suoi diversi movimenti e stati di riposo, e tutte le sue diversità – svanisce completamente: solo l’Uno rimane. Là i ‘molti’ semplicemente non esistono; c’è solo l’Unica Realtà Suprema (Brahman), il Sé (Atman). Questo è lo stato dell’advaita.

Espresso da un diverso punto di vista, tutto è pura Coscienza (cinmayi) e nient’altro che questa: nama, dhama – tutto. Forma, diversità e apparenza sono realmente Coscienza, e di fatto immateriali (aprakrita). In questo stato non vi sono ‘altri’, Lui soltanto esiste come l’Unica Forma Suprema. Qui non c’è posto per la diversità, come viene percepita dal punto di vista del mondo. La parola ‘vibhuti’ è formata da ‘vibhu’ (Lui soltanto come l’Unica Forma) e ‘ti’, che sta per ‘Tini’ (Lui), e significa che l’Onnipotente rivela Se stesso nei molti come l’Unica Forma Suprema – come il ghiaccio nell’acqua e l’acqua nel ghiaccio. Se non ci fosse l’acqua, da cosa si potrebbe formare il ghiaccio? Se non fosse nella natura dell’acqua solidificarsi in certe condizioni, come potrebbe esistere il ghiaccio? In altre parole: tutto è in Lui, e Lui è in tutto, espresso da ‘Sarvam khalvidam Brahman’ (Tutto questo è Brahman). Il ricercatore che realizza se stesso come l’eterno servitore è in uno stato di non dualità. ‘Eterno servitore’ indica che in questa relazione non c’è nulla di transitorio. QUELLO Si manifesta come forme e modi di essere. Se chi aspira al Senza-forma Lo realizza come l’Uno-senza-secondo, ma non riesce a realizzarLo nel campo del Suo gioco divino, non avrà una realizzazione completa, poiché non ha risolto il problema della dualità.

Qui sono stati descritti diversi metodi d’approccio, ma la realizzazione dev’essere totale, deve abbracciare tutto e bisogna riconoscere il proprio Sé in tutto. L’albero produce un germoglio, e da quel germoglio si sviluppa un albero. Un piccolo germoglio contiene potenzialmente un grande albero; e quando quell’albero produce nuovi germogli, è tornato di nuovo a se stesso. (Nessuna similitudine è perfetta; bisogna prendere solo l’aspetto pratico). Il fatto che l’Uno è in tutto e che tutto è nell’Uno dev’essere rivelato simultanea­mente. È e non è, e tuttavia non è né non è. Come può essere? Guardando un seme si vede soltanto il seme, non la pianta né altro; ma quando l’albero si è sviluppato porta foglie, fiori e frutti; allora c’è un’infinita varietà di vegetazione. Nel seme come tale non esiste altro, perciò si può dire ‘non è’; ma quando diventa un albero c’è tutto. Dire: “Ciò che non esiste ora non esisteva in passato” è ugualmente corretto; tuttavia non si può dire che non esiste, poiché ciò che è apparso una volta è; dunque non è perché non era. Come può essere possibile tutto questo?

QUELLO si manifesta in un’infinita varietà di modi ed anche come un Tutto globale. Dov’è il linguaggio per poter esprimere tutto questo? Si dice che c’è l’essere e il non-essere, e ancora né l’essere né il non-essere. La stessa Verità inesprimibile viene sperimentata in due modi: come il Silenzio che splende di luce propria o come il gioco eterno dell’Uno, nel quale Lui stesso interpreta tutte le parti. Prima è stato descritto uno stato in cui tutto viene bruciato e trasformato nell’Uno, al punto che malgrado ogni ricerca non se ne può trovare traccia. Dire che tutto è stato trasformato nell’Uno significa che è rimasto ancora un elemento d’oscurità, e questa non è certo la realizzazione del Sé. Il regno della pura Coscien­za non è ancora venuto. Non è possibile sapere quando si emergerà da questo ‘stato d’oscurità’.

Una volta conseguito il regno della Pura Coscienza, la forma si rivela come la stessa Essenza. Ciò che dal punto di vista del mondo era dolore diventa poi viraha, separazione da Quello – in altre parole, il tormento di esistere in una forma particolare. Questa separazione è senza fine, e si manifesta in modi sempre nuovi. Questo universo è venuto in essere per un semplice movimento dell’immaginazione di Dio. Che cos’è in effetti questa creazione? Lui Stesso, l’Uno; allora perché ci sono distinzioni, perché devono esserci ‘altri’? Non vi sono ‘altri’! L’oceano continua nella goccia. Come può essere? Quando l’Uno Si rivela in una forma (vigraha) – per esempio, come Radha-Krishna – questo vigraha esiste eternamente. Dove? A Vrindavan. Per chi ha sciolto i nodi del cuore esiste solo Vrindavan, e nient’altro. Ciò che avete realizzato come lila è infinito; e come si conoscerà quest’infinità? Rifiutando il mondo e tutto ciò che appartiene ad esso? Sri Ramakrishna Paramahansa disse: “La Grande Madre danza”.

Chi è un vaishnava? Chi vede Vishnu ovunque. L’idea che il mondo abbia un limite è illusoria; di conseguenza, la concezione di molti poteri differenti è un’illusione. Voi avete creato la distinzione tra naturale e sovrannaturale; in realtà tutto è solo il Suo lila. Egli va trovato in tutto. Il sovrannaturale non è separato dal resto. Se si rimane confinati entro i limiti, il proprio cuore non può diventare Vrindavan. Quando avviene la realizzazione c’è solo Vrindavan, solo Shiva, assoluta non dualità: solo allora si può dire che l’intero universo è il Suo gioco divino. La Prakriti, che spinge l’individuo a distinguere tra ‘questo’ e ‘quello’, è anche Sua. Nello stato di puro Essere non c’è più la distinzione tra naturale e sovrannaturale. Quando la Coscienza si rivela nella sua unità indivisa, alcuni si trovano in un puro Silenzio Autocosciente (advaita), mentre ad altri Essa si presenta come il Suo gioco divino. Egli è forma (vigraha) e nello stesso tempo non lo è. La parola samagra (intero, completo) indica che sama (uguaglianza) viene per prima cosa (agra). Se non si è realizzato che prima di tutto viene l’uguaglianza, significa che si guarda ancora dal punto di vista del mondo, che non è advaita. Al contrario, il conseguimento dell’advaita significa il recupero del proprio stato originario.

Nella vita del mondo si è sommersi dal dolore e dall’afflizione – sommersi vuol dire oscurati (dal velo). Tutto questo viene lasciato dietro e c’è solo QUELLO. La Sua Presenza si rivela in tutto; si realizza che è solo Lui che appare come essere e come divenire. Chi è il pratibimba (riflesso) della Realtà? Sempre e solo Lui. In questo stato chi può causare dolore o ansietà? Tutto il vostro essere è ora in uno stato di completa unione. Il dolore che vi ha reso infelici oggi è diventato la separazione dall’Uno. Il dolore mondano viene per il senso di bisogno, ma consumarsi per Dio è la vera natura dell’uomo.

Quali sono le esperienze di un ricercatore che contempla Dio con forma e attributi? Viene dapprima preso soltanto dalla divinità particolare (murti) che adora; poi, progre­dendo, comincerà a chiedersi: “Il mio Amato è così piccolo? No, invero Egli è in Rama, Krishna, Shiva, Durga e in tutte le altre divinità. Il mio Signore ha molte facce”. In uno stadio ulteriore egli realizzerà che il suo Amato si trova in tutte le creature, e che ogni creatura è in Lui. In questo pellegrinaggio vi sono tante linee d’approccio, e in ciascuna di esse vi sono molti stati e stadi. Lo sviluppo lungo una particolare linea è descritto come segue: all’inizio si è convinti che nessuno può essere paragonato alla divinità prescelta. Se all’inizio non prevalesse quest’attitudine non si potrebbe sviluppare una devozione profonda. A poco a poco, con il crescere della propria fede e devozione, il ricercatore arriverà a sentire che il proprio Amato non è altro che l’Uno. L’intenso amore e l’intensa venerazione non permetteranno che di Lui si abbia una concezione ristretta. L’umiltà e la devozione del sadhaka aumenteranno e infine realizzerà che in effetti l’Uno è in tutto e che tutto è in Lui. Scoprirà nell’Uno la forma del suo Amato. Dal seme è cresciuto l’albero, e l’albero ha prodotto di nuovo lo stesso seme.

‘Devo bhutva devam yajet’. (‘Solo identificandosi con il Signore si può adorarLo’). Compiere ancora l’adorazione della propria divinità particolare dopo avere realizzato il Sé, quando si è rivelato il proprio Essere essenziale, significa compiere la propria adorazione. Questo è il lila.

Domanda: Il lila di chi?

Mataji: C’è solo il lila di Dio. Di chi potrebbe essere?

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXIV

 

 

Benares, 20 marzo 1949

 

Domanda: Se Dio non è differente dal mondo, perché porre tanta enfasi nel sostenerlo?

Mataji: Non vi è alcuna enfasi; la questio­ne se il mondo esista o meno non si pone.

Interlocutore: Alcuni sostengono che la visione dei muni e dei rishi che realizzarono il Brahman era incompleta, perché si era­no estraniati dal mondo. Affermano anche che il mondo rimarrà così com’è, con nome e forma; questo sembra impossibile quanto dire che una tazza d’argilla sia d’oro.

Mataji: Quelli che hanno tali opinioni non hanno raggiunto l’Unità; si tengono lontani dal mondo e tuttavia parlano di salvarlo. Vorrebbero stabilire un nuovo regno, anche se in realtà non hanno idea di cosa sia il mondo. Realizzando che l’intero universo è Quello e nient’altro che Quello, esso si trasforma; questo è tutto ciò che si può dire. Affermare che il mondo rimarrà sempre com’è adesso, significa che il mondo è ancora percepito come tale. Cosa si guadagna o si perde discutendo del mondo? Non si tratta di negare l’esistenza del mondo, dicendo che è estraneo a Dio; e non si tratta neppure di sapere se esiste oppure no.

Si dice che Lui sia tanto nella diversità quanto nell’Unità, come l’acqua e il ghiaccio. Laddove l’acqua è chiamata ghiaccio, vale a dire dove appaiono spazio e forma, lì la forma è sempre Lui. Perché non capite? Il vapore come vapore non diventerà mai acqua come tale.

 

Interlocutore: Fino a quando rimane valida la teoria dell’evoluzione, c’è sia la diversità sia l’identità.

Un altro: La conoscenza del mondo è quella del molteplice, la Conoscenza della Realtà (Brahmajnanam) è quella dell’Unità; come possono coesistere nello stesso posto?

Interlocutore: L’unità della realtà non è in contraddizione con la molteplicità. Parlando in generale si possono distinguere quattro piani:

1) Appare soltanto il mondo; in altre parole, diversità. Questo è il piano dell’ignoranza.

2) A volte appare il mondo o la molteplicità e altre volte l’Unità, che è la Realtà. Nello yoga questo è il piano del nirvikalpa samadhi.

3) Appare il mondo, che riposa in Brahman.

Mataji: Ma c’è ancora ‘apparenza’!

Interlocutore: Il mondo non c’è! Ecco come appare. Quando la luce rimuove l’oscurità, come si può percepire ancora l’oscurità? Brahman è il compimento di ognuno e non l’ostacolo. La stessa Caitanya (Pura Coscienza) è questo e quell’og­getto; ma per la persona di prima ci sono due cose: la forma e la Pura Coscienza. Io però dico che ciò che appare come forma è solo Pura Coscienza.

Mataji: Anche così, dovete parlare di forma.

Interlocutore: Sì, parlo di forma perché vedo la sua essenza. Mio figlio recita la parte di Rama, tuttavia so che è mio figlio. Se quando si realizza Brahman la conoscenza del mondo non rimanesse, allora non si potrebbe stabilire la possibilità della jivanmukti (che è un fatto), per la semplice ragione che per tale individuo il contatto con il mondo sarebbe impossibile. Per lui fuoco e acqua sarebbero espressioni dell’unico Brahman; di conseguenza potrebbe inghiottire fuoco invece di bere acqua.

Secondo alcune dottrine, finché si percepisce ‘questo’ (il mon­do) non si è ancora raggiunta la perfezione. C’è uno stato al di là di questo in cui non c’è più dualità e si è stabiliti sul piano dell’Unità. Questo va inteso come il quarto dei quattro piani menzionati prima. (Questi piani sono differenti dai sette piani di cui si parla nello yoga).

Considero il terzo piano – vale a dire il gioco della dualità radicata nell’Unità – il più alto. In altre parole, in quel piano c’è unità nella dualità e dualità nell’unità. Chi è liberato può venire in questo mondo e agire apparentemente come un uomo comu­ne, mentre la sua realizzazione rimane perfettamente integra. ‘Sarvam kalvidam Brahman’ (Tutto questo è Brahman) e ‘neti, neti’ (‘non questo, non quello’) non sono affatto in contraddizione. In quel piano, il tutto e le parti esistono nello stesso luogo, sebbene ci sia differenza tra i due: fiori e foglie sono differenti, ma appartengono allo stesso albero. Ecco perché non riconosco la differenza di una parte dall’altra né delle parti dal tutto. Sbaglio ad intendere le cose in questo modo?

Mataji: Tutto ciò che si dice è giusto, dal punto di vista dal quale viene detto. Nel dhyana o samadhi si perviene a uno stadio in cui non c’è neppure la possibilità di percepire un secondo oltre l’Uno. Là non può esserci il comportamento che nasce dalla dualità. Ciò a cui ci si riferisce qui è uno stato in cui non c’è movimento, sebbene sembri che ve ne sia. Come potrebbe essere possibile il movimento qui? Quando si vede un individuo liberato impegnato nell’azione, qualcuno potrebbe osservare: “È disceso per qualche missione particolare”. Quando un laureato legge l’abbiccì, perde per questo il suo stato di laureato? Vi è uno stato in cui assolutamente nulla può apparire come un ‘secondo’. Immergendosi nel Gange si è destinati a bagnarsi completa­mente.

Una volta stabiliti nel puro Essere, non ci s’allontana più da Esso; tuttavia, prima che il proprio stato pervenga alla perfetta maturità, si possono avere delle cadute occasionali. Ma quel che è stato realizzato una volta riporterà, per così dire, l’individuo a Se Stesso. In questo stadio si oscilla tra due direzioni; ma è uno stato meraviglioso, non d’ignoranza. Lo stadio successivo è il bhava; ci si entra e se ne esce di continuo, ci s’immerge e poi si galleggia ancora una volta in superficie. Andando ancora oltre, si supera anche questo stadio e si diventa assolutamente inerti, come un sasso. Se non si è pervenuti a quest’inerzia simile alla pietra, ma si fa ancora esperienza del fervore estatico – con i suoi alti e bassi – non si è raggiunto uno stato perfetto, anche se è sovrannaturale. È come stare in una stanza fresca e poi uscire fuori al caldo. Viene poi la perfezione, l’immersione completa e finale. Quando c’è questa, chi l’ha acquisita viene visto ancora muoversi e agire come voi, ma in effetti non va da nessuna parte né mangia né percepisce alcunché.

Interlocutore: Sembrerebbe una contraddizione in termini: mangia eppure non mangia, si muove eppure non si muove. Come può essere?

Mataji: Una volta immersi, ci si deve stabilire in quello stato in cui l’interno e l’esterno si fondono in un’unica cosa. Io mangio come fate voi, mi muovo come fate voi. Se si avverte che l’affermazione ‘mangia e tuttavia non mangia’ è contraddittoria, allora la ‘realizzazione’ del Brahman è frammentaria. Non c’è spazio per la contraddizione. Come può essere limitata l’Unità? Con la limitazione si spezzerebbe! Ecco perché è stato detto che non è questione di mangiare o non mangiare, e così via. È comunque difficile capire, anche in parte, se si sta dormendo o si è in samadhi. Oro e ottone sembrano più o meno uguali; ma quando si tocca l’oro si è trasformati in esso.

Come potrebbe chi vive sul piano del Brahman vedere le differenze insignificanti? Percepite l’incongruenza a causa della vostra visione parziale. Non si tratta di avere realizzato o di essere nell’ignoranza. Se qualcuno si definisce un ‘uomo di realizzazione’, con ciò assume una certa posizione. Che significa realizzazione del Sé? Conoscenza, totale e illimitata in tutti i sensi. Viene rivelato ciò che siete stato, o meglio, ciò che siete in realtà. Da qualunque linea d’approccio o attitu­dine mentale si possano vedere le cose, tutto è giusto. Come dite: “Egli cammina senza piedi e vede senza occhi”. Se è limitata da qualche posto o condizione, da qualche forma o modo, per inclusione o esclusione, la realizzazione non è piena, non è completa. Quel che s’esprime da un certo punto di vista è considerato da quell’angolo particolare, in maniera particolare, perché spazio e tempo sono rimasti. Questo corpo non falsifica le cose, ma dice l’esatta verità. Tutto è giusto, dal punto di vista dal quale viene detto.

Interlocutore: Se, come dite, tutto è giusto, allora se una persona che desidera avere il darshan di Visvanath va in un tempio di Durga e dice: “Questo è Visvanath” è nel giusto?

Mataji: Ad un certo livello si può giustamente dire: “Sì, questo è Visvanath”, perché in quel momento sarà Visvanath (Shiva).

Il Visvanath che ha pensato nella sua mente Si rivelerà esattamente simile al Visvanath limitato dal tempo e dallo spazio, poiché tutto è contenuto nel tutto; ma si può anche dire che Visvanath non si trova in un tempio di Durga. La verità può essere espressa in tanti modi. Si può dare ogni tipo di risposta.

Interlocutore: Se tutto ciò che si dice è giusto, allora perché Shankaracharya, che era un uomo di realizzazione (Brahmajnani), confutava le argomentazioni dei suoi avversari?

Mataji: Quando è necessario che una cosa sia fatta, sarà certamente fatta. La cima dell’albero contiene le sue radici, perché i semi sono presenti ovunque; non c’è contraddizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXV

 

Mataji: Volete sapere se la grazia (ahetuka kripa) è senza causa o motivo? Certamente, perché la grazia è per sua stessa natura al di là di ogni causa o motivo. Quando si agisce, si raccoglie il frutto delle proprie azioni. Se, per esempio, servite vostro padre e questi, compiaciuto del vostro servizio, vi fa un regalo, questo sarà il frutto dell’azione: si fa qualcosa e in cambio si riceve qualcos’altro. Ma la relazione eterna che esiste per natura tra padre e figlio non dipende da alcuna azione. Dio è davvero il Padre, la Madre e l’Amico Supremo. Come potrebbe dunque esserci una causa o un motivo per la Sua grazia? Voi siete Suo, e in qualunque modo Lui possa attirarvi a Sé, è solo per amore di rivelarvi Se Stesso. Chi è stato ad instillare il desiderio di trovarLo che si desta nell’uomo? Chi vi spinge ad agire affinché esso si realizzi?

Dovete capire che ogni cosa origina da Lui. Qualunque potere, qualunque abilità possediate – anche voi stesso – da dove nasce? Non hanno tutti lo scopo di trovarLo, di distruggere il velo dell’ignoranza? Tutto ciò che esiste ha origine in Lui soltanto; perciò dovete cercare di realizzarvi. Siete padroni anche di un solo respiro? In qualunque misura, anche minima, Egli vi faccia sentire la libertà d’azione, se capite che questa libertà va usata per aspirare a realizzare Lui, sarà per il vostro bene. Se invece vi credete l’autore delle azioni e pensate che Dio sia molto lontano e, per la Sua apparente lontananza, agite gratificando i vostri desideri, questa è un’azione sbagliata. Dovete considerare tutte le cose come Sue manifestazioni. Quando riconoscerete l’esistenza di Dio, Egli vi Si rivelerà pieno di compassione, di carità o di misericordia, secondo l’attitudine che avrete verso di Lui in quel momento; ad esempio, per l’umile Egli diviene il Signore degli umili.

Se dite: “Egli è immutabile e tuttavia agisce”, pensate che agisca quando in realtà non ha azione; poiché il vostro ego si vede come agente, pensa che anche Lui compia delle azioni.

Egli è qualunque cosa pensiate che sia, certo. D’altra parte – pensate – dov’è Quello, chi dev’essere l’autore di quale azione, e su cosa dovrebbe agire? Egli cammina senza piedi, vede senza occhi, ascolta senza orecchie e mangia senza bocca – in qualunque modo possiate descriverLo, è così.

Quando un sadhaka comincia ad adorare il vigraha del suo Amato, nel corso della pratica perverrà ad uno stato in cui vedrà la forma dell’Amato ovunque cadano i suoi occhi e realizzerà: “Tutte le altre divinità sono contenute nel mio Amato”. Vede che il Signore di ognuno e tutte le cose sono contenute nel proprio Ishta, e che il suo Ishta risiede ugualmente in tutte le divinità e, di fatto, in ogni cosa. Il sadhaka arriva a sentire: “Così com’è dentro di me, allo stesso modo il mio Signore è veramente presente in ogni altro individuo. Il mio Amato è ovunque nell’universo – nell’acqua, nella terra, negli alberi, negli arbusti e nei rettili; inoltre, non sono espressioni del mio Amato tutte le varie forme e modi di essere che vediamo? Non c’è altro che Lui. Egli è più piccolo del più piccolo, e più grande del più grande”.

Spinto da diverse tendenze innate, ciascuno di voi adora una divinità differente. Il vero progresso nel campo spirituale dipende dalla sincerità e dall’intensità della propria aspirazione. La misura del progresso spirituale di una persona si rifletterà nelle manifestazioni concesse dal suo Ishta, che in nessun modo rimarrà inaccessibile o separato dal Suo devoto, ma Si lascerà contattare in un’infinita varietà di modi. Per quanto condizionato, troverete il Tutto dentro di voi e sarete in grado di comprendere che le vostre tendenze innate sono ugualmente parte di questo Tutto. Quanto è stato detto rappresenta un punto di vista. Non potete dissociarvi dal Tutto.

Che cosa sono i diversi tipi di animali, uccelli, uomini e così via? Cosa sono queste varietà e forme di vita, che cos’è l’essenza dentro di loro? Che cosa sono in realtà queste forme sempre mutevoli? Con gradualità, lentamente, poiché siete presi nella contemplazione del vostro Amato, Egli Si rivelerà a voi in ognuna di queste forme; nemmeno un granello di sabbia sarà escluso. Realizzerete che acqua, terra, piante, animali, uccelli ed esseri umani sono solo forme del vostro Amato. Alcuni ne fanno esperienza in questo modo. La realizzazione però non viene a tutti nella stessa maniera. Ci sono infinite possibilità. Il sentiero specifico lungo il quale l’Universale si rivelerà ad ogni singolo individuo nella sua illimitatezza rimane ignoto alla persona comune.

Riguardo ciò che avete appena udito nel discorso sullo Srimad Bhagavatam circa il corpo universale del Signore, che compren­de ogni cosa – alberi, fiori, foglie, colline, montagne, fiumi, oceani e così via – verrà il tempo, dovrà venire, in cui l’individuo percepirà di fatto la Forma Universale dell’Uno che pervade tutto. La varietà delle Sue forme e apparenze è infinita, incalcolabile, interminabile. “Colui che ha molte forme, e che costantemente crea e distrugge le Sue forme, è l’Uno che adoro”. Nella misura in cui crescerete nel riconoscimento sempre più pieno e vasto di questa verità, realizzerete la vostra unità con ciascuna di queste innumerevoli forme. In quest’immensità vi sono diverse forme, diversi modi, manifestati in maniere differenti, senza fine, senza numero – e tuttavia c’è fine e numero. Quando un sadhaka entra in questo stato, diviene consapevole della continua trasformazione di tutte le forme e di tutti i modi. Egli si desta alla vera comprensione, vale a dire realizza che lo Stesso Supremo si manifesta come il potere di comprensione. Quando la corrente del proprio pensiero, che era diretta verso le cose del mondo, viene invertita e rivolta all’inter­no, lo stesso Uno si rivela come la ‘capacità segreta’. Guardate il mondo sempre mutevole, nel quale ciò che esiste in un dato momento non esiste il momento dopo, nel quale l’essere entra continuamente nel non-essere. Chi è dunque questo non-essere? Esiste anche il non-esistente.

A questo proposito bisogna dire che se si vuole trovare la Verità, ogni cosa dovrà essere realizzata così com’è, al proprio posto, senza scegliere una cosa piuttosto che l’altra. È un regno senza fine, nel quale anche ciò che si percepisce come non esistenza è ugualmente un’espressione dell’Uno. Nel Cinmayi, il mondo puramente spirituale, tutte le forme – quali che siano – sono sempre eterne. Simultaneamente e nello stesso luogo c’è sia la non-esistenza sia l’esistenza, ed anche né la non-esistenza né l’esistenza – e ancora di più, se potete andare oltre!

Come il ghiaccio è solo acqua, così l’Amato è senza forma e senza qualità; quindi la questione della manifestazione non si pone. Una volta realizzato questo, si è realizzato il proprio Sé. Trovare l’Amato, infatti, vuol dire trovare il mio Sé, scoprire che Dio è la cosa più intima, assolutamente identico al mio Sé più profondo, il Sé del mio Sé. In conformità alle esigenze del tempo e delle circostanze, possono verificarsi varie possibilità: per esempio, la rivelazione dei mantra ed anche di tutti i Veda da parte degli antichi rishi, che furono i veggenti dei mantra. Tutto questo accade in accordo con il karma dell’individuo e con la disposizione interiore della persona interessata.

Quando un sadhaka realizza cosa sono essenzialmente la forma e l’assenza di forma, si ha davvero una realizzazione perfetta. Egli viene a conoscere cos’è il bhava, la relazione interiore della forma con lo Shabda Brahman, i numerosi tipi di linguaggi – infiniti nella loro varietà – e realizza anche che il linguaggio è lo Shabda Brahman. Davanti a lui si manifestano innumerevoli tipi di suoni, ciascuno nella sua caratteristica forma visiva; è così che tutte le forme diventano visibili. Nello stesso tempo la forma in realtà è vuota; si capisce che libertà dalla forma significa realizzare che la stessa forma è il vuoto. In tal modo il mondo si rivela come vuoto, prima di fondersi nel Grande Vuoto (Mahasunya). Il vuoto che si percepisce all’interno del mondo è una parte di prakriti, e dunque ancora forma. Da questo vuoto si deve procedere fino al Grande Vuoto.

La percezione del mondo, basata sulla vostra identificazione con il corpo e la mente, finora è stata la fonte della vostra schiavitù. Verrà il tempo in cui questo tipo di percezione svanirà davanti al risveglio della coscienza universale, che si rivelerà come un aspetto della Conoscenza Suprema. Cosa succederà alla stessa Essenza, quando ci sarà la conoscenza dell’Essenza delle cose? Rifletteteci! Quando sorgerà l’intuizione della forma e del senza forma in tutta la sua immensità, tutto sarà sradicato. Trascendendo il livello in cui esistono forma, diversità e manifestazione, si entra nello stato dell’assenza di forma. Come si può chiamare? Dio, Divinità, lo stesso Paramatman. Man mano che il sé individuale viene gradualmente liberato da tutte le catene, che non sono altro che il velo dell’ignoranza, esso realizza la sua unità con lo Spirito Supremo (Paramatman) e si stabilisce nel suo Essere essenziale.

Passiamo ora ad un altro aspetto della questione. Ciascuno ha il suo sentiero. Alcuni di quelli che avanzano lungo la linea del vedanta, quando progrediscono vedono dischiudersi il sentiero dei rishi. Può dischiudersi lo stesso sentiero dei rishi anche ad altri, le cui pratiche spirituali, rituali o yoga si attuano con l’aiuto d’immagini e altri mezzi. Altri ancora, guidati da voci e locuzioni del mondo invisibile, dappri­ma sentono queste voci come suoni udibili, ma gradualmente le ascoltano in un linguaggio perfetto che rivela il pieno significato di quanto è espresso. A poco a poco diviene chiaro che queste voci nascono dal proprio Sé e che sono Lui Stesso che Si manifesta in quel modo particolare. Quale che sia la linea d’approccio di un individuo, a tempo debito, in un modo o nell’altro, gli si può dischiudere il sentiero dei rishi o un sentiero simile. Ma dire in quale momento accadrà e a chi, è oltre la comprensione della persona comune.

Supponete che un uomo segua il suo sentiero specifico, che potrebbe essere l’adorazione di una divinità. Chi è presente realmente in quella particolare divinità? Certamente l’Uno, il Sé senza forma! Di conseguenza, come Lui è il Sé senza forma, così Lo è l’oggetto concreto dell’adorazione.

Chi si è stabilito pienamente nel Sé con il metodo del vedanta può trovare ugualmente la Realtà Suprema nel vigraha, così come l’acqua è contenuta nel ghiaccio. Vedrà allora che tutti i vigraha sono realmente forme spirituali dell’Uno. Perché, cosa si cela nel ghiaccio? Acqua, naturalmente. Laddove Lui è presente come Tutto, in quel ghiaccio vi sono fasi di scioglimento, come ghiaccio solido e semisolido. Nel puro Sé, invece, non possono esservi stadi. Anche se il ghiaccio può sciogliersi, è diventato ghiaccio ed è possibile che esista di nuovo come tale; di conseguenza, per Colui che Si manifesta nella forma del ghiaccio la questione di eterno e non-eterno non si pone. Per questo si parla di dvaitadvaita, per indicare che il dualismo e il non dualismo sono entrambi fatti – come voi siete nello stesso tempo padre e figlio.

Come potrebbe esistere il figlio senza il padre o il padre senza il figlio? In questo modo si capisce che nessuno dei due è meno importante dell’altro, e che qui non può esservi distinzione tra più alto e più basso: c’è solo uguaglianza, identità. C’è però un posto in cui si può effettivamente parlare di stati più alti e più bassi. Ciascuno dei due punti di vista è in sé completo. (Nessuna similitudine può essere applicata in ogni dettaglio, perciò considerate solo quel tanto per cui è intesa). Sia l’acqua sia il ghiaccio condividono la natura dell’eternità; così non c’è dubbio che Lui sia con e senza forma. Quand’è con forma – cosa paragonabile al ghiaccio – Egli appare sotto innumerevoli forme e modi, ciascuno dei quali è la Sua forma spirituale (Cinmayi vigraba). Secondo la propria via d’approccio, si dà risalto ad una forma particolare. Perché dovrebbero esserci tante differenti sette e sottosette religiose? Attra­verso ciascuna di esse Egli Si dona a Se stesso,* affinché ogni persona possa avanzare secondo la sua unicità individuale.

Solo Lui è l’acqua e il ghiaccio. Cosa c’è nel ghiaccio? Solo acqua. Secondo il dvaitadvaita, sia la dualità sia la non ­dualità sono dati di fatto; da quel punto di vista c’è sia la forma sia la libertà dalla forma. Ancora, quando si dice che c’è sia la dualità sia la non dualità, quand’è valida quest’afferma­zione? Vi è certamente un livello in cui differenza e non-differenza si percepiscono simultaneamente. In verità Egli è tanto nella differenza quanto nella non-differenza. Dal punto di vista del mondo si dà per certo che vi siano differenze. Lo stesso fatto che vi sforziate di trovare il vostro Sé mostra che accettate la differenza, poiché, alla maniera del mondo, vi pensate separati dal resto. Da questo punto di vista, la differenza indubbiamente esiste. Allora il mondo è destinato inevitabilmente alla distruzione (nasha), poiché non è né il Sé (na Sva) né Lui (na Sha). Non può durare per sempre e, tuttavia, chi è che appare, anche sotto forma dell’effimero? Pensateci. Che cosa va e viene? Ecco, si tratta di un movimento simile a quello del mare (samudra), Lui che esprime Se stesso (sva mudra). Le onde sono solo l’alzarsi e l’abbassarsi, il movimento dell’acqua, ed è l’acqua che si forma in onde (taranga) – in parti del Suo corpo (Tar anga) – in essenza sempre acqua.*

Cos’è che fa apparire la stessa sostanza in forme differenti, come acqua, ghiaccio e onde? Ciò si chiede di nuovo da un particolare piano di coscienza. Riflettete e vedete quanto potete capire! Nessuna similitudine è sempre valida in tutti i sensi. Quale lezione avete effettivamente tratto? Scopritelo!

Avete compreso che ciò che credevate con forma è anche senza forma; ma la realizzazione della verità non può venire attraverso un processo intellettivo; capirete certo anche questo.

Quanto detto implica che Egli si manifesta eternamente, dispiegando forma e qualità, malgrado sia senza forma e senza qualità; inoltre, poiché c’è solamente l’Uno-senza-secondo, la questione degli attributi e della mancanza di attributi non può sorgere. Voi parlate dell’Assoluto come Verità, Conoscenza, Infinità. Nel puro advaita non può mai sorgere la questione della forma, della qualità o del predicato – sia esso positivo o negativo. Quando dite: “Invero questo è Lui e anche quello è Lui”, con la parola ‘anche’ vi siete limitato e di conseguenza accettate la separazione delle cose come riferito prima. Nell’Uno non ci può essere ‘anche’. Lo stato d’Unità Suprema non può essere descritto come ‘Quello ed anche qualcos’altro da Quello’. Nel Brahman senza attributi non possono esserci cose come la qualità o l’assenza di qualità; c’è soltanto il Sé.

Supponiamo che sosteniate che Egli sia con qualità, incarnato. Quando vi concentrate completamente sulla forma particolare che adorate, per voi il senza forma non esiste – e questo è uno stato (sthiti). Vi è un altro stato in cui Egli appare sia con attributi sia senza. C’è un altro stato ancora, in cui esiste sia la differenza sia la non differenza – tutti e due inconcepibili – in cui Lui è totalmente oltre il pensiero. Si può assumere anche il punto di vista del Karmakanda vedico. Questo e tutto ciò che è stato detto prima fanno parte dello Stato Supremo, del quale si dice che anche se il Tutto è preso dal Tutto, il Tutto rimane Pieno. Non possono esservi addizioni né sottrazioni; la totalità del Tutto rimane intatta. Qualunque linea possiate seguire rappresenta solo un suo aspetto particolare. Ogni linea ha i suoi mantra, i suoi metodi, le sue credenze e miscredenze – a quale scopo? Per realizzare Lui, il vostro Sé. Chi o cosa è questo Sé? Secondo la vostra predisposizione, Lo trovate nella relazione del perfetto servitore con il suo Maestro, della parte con il Tutto o semplicemente nell’Unico Sé (Atman).

Ecco, se si crede in Svayam Bhagavan, il Suo Potere Divino (Shakti) è già dato per scontato. In questo caso distinguete tra Bhagavan e Bhagavati, tra Dio maschile e il Suo potere femminile. Da un certo punto di vista non è questione di maschile o femminile, ma da un altro punto di vista la divinità è concepita divisa in questi due aspetti. La Vergine Eterna (Kumari) non dipende da alcuno; Lei è l’Uno stesso come Potenza. Laddove la Realtà Suprema è concepita come Shakti, è riconosciuta come pura Esistenza (Satta) – con forma o senza forma – e la Potenza ne costituisce soltanto l’Essenza. È ancora un altro punto di vista. La forma può emer­gere solo quando il bhava (il desiderio di creare) si manifesta come kriya (azione). Anche questo è un modo di vedere la cosa; inoltre se concepite la stessa Bhagavati come Shakti, vi sono innume­revoli manifestazioni della Sua infinita Potenza. La Mahashakti è la causa prima di tutto: creazione, conservazione, dissoluzione. Come nel caso di un albero, in cui tutti i rami e i ramoscelli provengono dalle sue radici, così tutti i tipi e ordini di divinità, di angeli, arcangeli e così via, vengono in esistenza come manifestazioni di quella Potenza.

Il carattere specifico di Shiva è la trascendenza di ogni cambiamento e mutamento, simboleggiato da un cadavere (shava), che significa che nella morte della morte c’è l’Immortalità, cioè Shiva. Laddove c’è  creazione, conservazione e dissoluzione, Lui è presente come divenire ed è Lui Stesso a mantenere l’universo col nome di Mahavishnu. Per quanto riguarda i diversi aspetti cosmici, Egli è davvero in ciascuno di essi, manifestandoSi in diversi modi e come il senza forma. Ciascuno di essi contiene tutto il resto, e in questa molteplicità si vede l’Uno! Quando guardate una forma non potete vederne altre, ma in ciascuna di esse è presente il Tutto, e ogni forma rivela l’Uno. Nel vuoto c’è pienezza, e nella pienezza il vuoto. Ci sono possibilità di ogni tipo e descrizione, ma la base è l’Uno, la Grande Luce. Egli è Infinito. Anche quando si parla semplicemente di un sentiero, come se ne può trovare la fine? Quando però l’individuo è incapace di procedere oltre, allora sembra che ci sia una fine.

Che cos’è la pura Esistenza (Satta)? Il Sé, lo Spirito Supremo, chiamatelo come volete. Ciò che chiamate Dio (Bhagavan), Maestà Divina, Gloria o Splendore è solo Lui, l’Uno. Dio è immutabile, il non agente (akarta), poiché non agisce. Solo chi è impegnato in un’azione può essere considerato l’autore di quell’azione. Poiché è presente in tutte le cause e in tutti gli effetti, come si può dire che li controlli o che non li controlli? In questo caso Egli è senza azione; ma dov’è la Sua maya, dove si percepisce il gioco della Sua Potenza e Maestà Divina e, dove la natura opera secondo leggi stabilite, chi si manifesta là? L’Uno naturalmente. Mutabile e immutabile – questi vostri punti di vista unilaterali appartengono al velo dell’ignoranza. Parlate di Lui come dell’agente o del non-agente, e cercate di limitarLo all’uno o all’altro. Dal vostro punto di vista è naturale percepire le differenze. Lui è ciò che volete che sia; Lo vedete secondo il vostro modo di pensare, e come Lo dipingete, così Egli è.

Fino a quando esiste il sipario, il velo dell’ignoranza, si è costretti a vedere e a sentire in questo modo limitato. Fino a quando non si rimuove l’oscuramento, come ci si può aspettare che avvenga la totale rivelazione della Verità? Quando verrà strappato il velo si rivelerà il fatto che anche la lacerazione del velo, e invero tutto ciò che esiste o avviene da qualsiasi parte, è solo Lui.

I tanti credi e le numerose sette servono a far sì che Egli possa donarsi a Se Stesso attraverso diversi canali – ciascuno dei quali ha la sua bellezza – e a far sì che si possa scoprire la Sua Presenza, che Si rivela nelle innumerevoli vie, in tutte le forme e nel senza forma. Lui Stesso è il Sentiero, e attira ogni persona su una via particolare, in armonia con le sue disposizioni e le sue tendenze interiori. L’Uno è presente in tutte le sette, anche se in alcuni casi sembra esservi conflitto tra esse, a causa delle limitazioni dell’ego.

Questo corpo, comunque, non esclude nulla. Chi segue un particolare credo deve andare avanti fino al punto da realizzare completamente tutto ciò che quel credo può dargli. In altre parole, quando avanzate lungo una via, quando aderite ad una determinata religione, fede o credenza – che concepite distinta e in conflitto con le altre – dovete prima di tutto realizzare la perfezione indicata dal suo fondatore, e ciò che è al di là si rivelerà spontaneamente.

Quanto è stato appena spiegato è applicabile nel caso di ciascuna delle varie sette; è però vero che se si rimane soddisfatti di ciò che si può conseguire seguendo una via, lo Scopo della vita umana non è stato raggiunto. Ci vuole una realizzazione completa e libera dal-l’antagoni­smo, che sradichi ogni conflitto e divergenza d’opinio­ne. Se è qualcosa  di meno, significa che l’esperienza è parziale, incompleta. Nel caso della vera realizzazione, non possono esserci contrasti con alcuno; si è completamente illuminati in tutte le fedi e dottrine, e si vede che tutte le vie sono ugualmente buone. Questa è la realizzazione assoluta e perfetta. Fino a quando c’è contrasto non si può parlare di realizzazione; nondimeno, bisogna avere una fede risoluta nel proprio Ishta e seguire il sentiero scelto con costanza e concentrazione.

Per quanto riguarda il frutto dell’azione, in qualunque linea d’approccio, chi pensate si rivelerà laddove c’è uno sforzo fatto senza interruzione e con una concentrazione indivisa sull’unica Meta? Lui, l’Uno Indivisibile! Ma l’Uno Perfetto rivela Se stesso anche nella pura azione. Questo è il vero significato di ogni azione, dello sforzo, che è la caratteristica innata dell’individuo. La vera natura dell’uomo lo spinge a fare azioni che le diano espressione; la sua vera natura desta in lui il bisogno di compiere azioni di questo tipo. La vera natura dell’uomo, Sva, Svayam, Atman – datele il nome che preferite – è il Supremo, Io Stesso.

 

*) – Un gioco di parole: sampradaya = setta religiosa; sama = pienamente; pradam kora = dare, offrire.