Questo libro
contiene una selezione di risposte date da Sri Anandamayi Ma a domande che
furono poste, e registrate, durante incontri con grandi o piccoli gruppi di
persone. Le risposte non sono state disposte in ordine cronologico ma, per
quanto possibile, secondo argomenti. Le questioni più semplici sono state poste
all’inizio. Gli argomenti trattati riguardano la meditazione, il sentiero
spirituale, la realizzazione del Sé e tutta una serie di problemi d’ordine
pratico, filosofico e metafisico che incontrano i ricercatori della verità
nelle varie fasi della ricerca. Mataji risponde esattamente secondo le capacità
di comprensione dell’interlocutore, la sua particolare disposizione e la sua
linea d’approccio, illuminando ogni singola questione da punti di vista
differenti. Di fatto nelle sue risposte troviamo uniti ogni credo e filosofia,
ogni scuola di pensiero e metodo yoga; tuttavia lei rimane al di sopra e al di
là di tutto. Di lei è stato detto che aveva la parola giusta, al momento giusto
e nella maniera giusta per ogni ricercatore spirituale, sia che fosse un
credente o un agnostico, un intellettuale, uno studioso, un analfabeta, un
novizio o un ricercatore molto avanzato sul sentiero. Come la terra dà ad ogni
pianta le sostanze necessarie alla sua crescita, così Sri Anandamayi Ma guidava
ogni aspirante secondo le sue specifiche necessità del particolare momento. Le
sue risposte non venivano dalla mente. Ella affermò spesso in maniera
inequivocabile di non parlare ad un ‘altro’. Per lei tutto era l’Unico Essere
Supremo che si manifestava nella diversità infinita rimanendo, nello stesso
tempo, al di là di ogni espressione e limitazione, senza forma, immutabile e
inconcepibile. In Quello non c’è possibilità di distinzioni, che pure esistono
al nostro livello. Le domande sono poste dal punto di vista dell’individuo, ma
la vera risposta sta oltre l’ego-mente, dove non esiste separazione né
divergenza d’opinioni.
Colui che registrò i
dialoghi, Brahmachari Virajananda, conosciuto da tutti i devoti e visitatori
dell’ashram di Sri Anandamayi come ‘Kamalda’, incontrò per la prima volta
Mataji a Dacca, nel 1926, e da allora le rimase vicino. Nel 1942 entrò a far
parte dell’ashram, divenendone uno dei più devoti e importanti collaboratori.
Dotato di un’intelligenza acuta e di una grande sete di conoscenza, ebbe
l’intenso desiderio di registrare le esatte parole di Mataji, convinto che
sgorgavano spontaneamente da profondità alle quali i comuni esseri umani non
hanno accesso. Per il proprio studio e la propria illuminazione, ogni volta che
ne ebbe l’opportunità cominciò ad annotare le parole di Mataji così come le
sentiva pronunciare. Nonostante i suoi numerosi doveri come cosegretario dello
Sri Sri Anandamayi Sangha, come amministratore dell’ashram di Benares, ecc.,
non appena veniva a sapere che Mataji stava rispondendo a delle domande,
lasciava subito il lavoro che aveva sotto mano e si precipitava dove si
svolgeva la discussione. Nella quiete della notte trascriveva in bella copia
le registrazioni, ponderando sul significato profondo di quanto aveva udito e
scritto. Le prime luci dell’alba gli ricordavano spesso d’avere trascorso la
maggior parte della notte in questo tipo di meditazione.
Nello zelo di
preservare le affermazioni di Mataji nella loro purezza originaria e con la più
grande precisione possibile, egli sviluppò presto una tecnica tutta sua. Poteva
aver perso una parola qui o là, ma non perdeva mai il filo di ciò che veniva
detto. Se per qualche motivo gli era impossibile registrare parte della
conversazione, sentiva la cosa come una dolorosa perdita personale. In molte
occasioni del genere, però, con sua grande gioia sentiva in seguito Mataji
spiegare lo stesso punto a qualcun altro, e delucidare la parte della
conversazione che gli era sfuggita. Non solo Virajananda, ma anche molti altri
che erano a contatto con Mataji ricevevano la risposta ancor prima di porre la
domanda.
A volte Mataji
diceva di sé: “Questo corpo è come uno strumento musicale; ciò che sentite
dipende da come lo suonate”. La cosa meravigliosa è che rispondeva
anche ai tocchi silenziosi! Ecco un esempio impressionante: una notte, a Puri,
ci fu una conversazione in riva al mare. Con vivo disappunto, poiché non c’era
luce, Virajananda non fu in grado di scrivere. Poco tempo dopo, però, sentì
Mataji rispiegare l’intero argomento praticamente con le stesse parole, e
allora poté annotarlo per intero. È uno dei discorsi più ispiranti (il XXV° di
questa raccolta), che probabilmente dà un’idea più completa di qualunque altro
dell’universalità di Mataji.
I diari di
Brahmachari Virajananda comprendono parecchi volumi. Quando, nel 1953, egli ne
mostrò uno al dr. Gopinath Kaviraj, quel grande sapiente fu profondamente
colpito dal suo contenuto. Egli suggerì di pubblicare estratti di quei diari su
Ananda Varta (il giornale trimestrale dello Sri Sri Anandamayi Sangha) e
propose di scrivere per essi dei commenti. Lui stesso scelse le conversazioni
da pubblicare, che apparvero su Ananda Varta dal maggio 1953 all’agosto
1958 sotto il titolo ‘Mataj’s Amara Vani’, sia nell’originale bengali
sia nelle traduzioni in hindi e in inglese. Questo volume ripresenta la
versione accuratamente rivista della traduzione inglese della maggior parte di
quelle conversazioni.
Mataji parla di ciò
che è oltre l’esperienza dell’individuo comune e che, tutt’al più, può essere
solo accennato con le parole. Non sorprende dunque che il suo linguaggio non
sia conforme né al bengali letterario né a quello parlato. Ella ha dato un
significato nuovo a molte espressioni comuni e, a volte, ha coniato parole
nuove con un’etimologia tutta sua. Il suo linguaggio è originale e pertinente,
intensamente vivo ed espressivo, è spesso sintetico e incisivo, privo di ogni
parola superflua. In certi casi, quando esprime delle verità profonde, il suo
linguaggio diviene ermetico.
La differenza tra la
lingua bengali e quella inglese è ben nota. In inglese non esistono parole
adeguate per molti termini bengali. In alcuni casi è stato necessario tradurre
due o tre parole bengali con un’intera frase o proposizione. Non si è
tralasciato alcuno sforzo per tradurre il più precisamente possibile ogni
espressione così com’è stata registrata. Nello stesso tempo, il traduttore ha
cercato di preservare, per quanto possibile, il significato esatto delle parole
insieme al loro ritmo, alla loro bellezza, al loro carico d’ispirazione,
all’immacolata e intangibile qualità che pervade ogni espressione di Mataji –
le sue parole, i suoi canti, i suoi gesti e il suo sorriso.
Se nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a rendere questa traduzione perfetta come avrebbe dovuto, ci sia permesso citare le stesse parole di Mataji: “Sforzatevi al limite del vostro potere, per quanto piccolo possa essere. C’è Lui a completare ciò che è stato tralasciato di fare”.
Preghiamo Mataji di accettare benevolmente quest’umile offerta posta ai suoi sacri piedi. Possano le sue parole illuminare il nostro sentiero!
Solan, 12 settembre 1948
Solo raramente si
poteva avere da Mataji una risposta precisa a un dato problema, così mi sono
chiesto a che serviva annotare le sue parole. Mi sono rivolto allora a Mataji.
Mataji: Hai compreso almeno che vi è uno stato in cui i problemi non si risolvono in un modo ben definito. Nel corso della tua vita, dopo attenta riflessione, sei giunto a una conclusione su molte questioni, non è così? Adesso devi capire che nessuna soluzione è definitiva; in altre parole, devi andare oltre il livello di certezza e incertezza. La soluzione di un problema che si ottiene con la mente dev’essere per forza di cose da un particolare punto di vista; di conseguenza ci sarà possibilità di contraddizione, poiché la tua soluzione rappresenta solo un aspetto. Allora, di fatto, cosa hai risolto? Troverai la soluzione completa e finale di ogni singola questione nel suo stesso modo di mostrarsi; e vedrai che c’è un posto in cui tutti i problemi (reali e possibili) hanno una sola soluzione universale, in cui non vi è alcuna possibilità di contraddizione. Allora non sorgerà più la questione tra soluzione e non soluzione: che uno dica ‘sì’ o ‘no’ – ogni cosa è QUELLO.
Solan, settembre 1948
Riguardo al
valore dei discorsi religiosi e filosofici, Mataji disse:
Ascoltando
frequentemente dialoghi e discorsi su argomenti del genere, apparirà
gradualmente il sentiero verso la conoscenza diretta di quanto è stato udito. È
come una goccia d’acqua che cadendo ininterrottamente su una pietra alla fine
la buca, e così può passarvi un flusso che porterà l’Illuminazione.
Durante l’attenta
lettura dei testi sacri, durante l’ascolto dei discorsi religiosi, durante il kirtan,
Dio dev’essere l’alfa e l’omega di qualunque cosa si faccia. Quando
leggete, leggete di Lui; quando parlate, parlate di Lui; e quando cantate,
cantate le Sue lodi. Queste tre pratiche sono realmente la stessa cosa; ma
siccome le persone rispondono in maniera diversa, la stessa cosa è espressa in
tre maniere differenti per soddisfare i diversi temperamenti e le capacità
d’assimilazione. Nell’essenza c’è solo e soltanto Lui, anche se ciascuno ha il
proprio sentiero personale che porta a Lui. Il sentiero adatto dipende dalla
predilezione personale, basata sul carattere specifico delle attitudini
interiori.
Prendiamo ad esempio
lo studio del vedanta. Alcuni ricercatori vi s’immergono completamente, mentre
altri possono rimanere talmente assorti nel kirtan da cadere in trance.
Uno studente del
vedanta può essere completamente assorto nei suoi testi, anche più di colui che
viene trascinato dal kirtan. Si potrà pervenire alla concentrazione
totale mediante lo studio di una particolare scrittura o con altri mezzi,
secondo la propria particolare linea d’approccio.
Prima viene
l’ascolto, poi la riflessione, e infine la messa in atto di quanto si è udito e
ponderato. Ecco perché bisogna prima di tutto ascoltare, per potere poi
scegliere il vedanta o il kirtan o qualsiasi altra cosa.
Non avete mai
incontrato persone che non danno peso al kirtan e che dicono: “Che c’é
da guadagnare con esso?”; nondimeno, dopo averlo ascoltato per qualche tempo,
sviluppano una forte attrazione. Bisogna dunque ascoltare prima di poter
riflettere; in seguito ciò che è stato ascoltato e ponderato prenderà forma
nell’azione più adatta alla persona in questione. Ascoltare discorsi su Dio o
sulla Verità è certamente benefico, a condizione che non si sia mossi da uno
spirito di critica negativa o di denigrazione se dovessero esservi differenze
d’opinione. Trovare difetti negli altri crea ostacoli per tutti: per chi
critica, per chi è criticato e per coloro che ascoltano le critiche. Al
contrario, quanto è detto in uno spirito di confronto è fruttuoso per tutti. Si
può parlare di satsang* solo quando non c’è più il pensiero di
considerare qualcosa inferiore o biasimevole (asat).
Chi è un vaishnava?
Chi vede Vishnu ovunque. E uno shakta? Chi vede solo la Grande Madre
e nient’altro che Lei. In verità tutte le diverse forme di pensiero hanno
origine da una sorgente comune. Allora, chi dev’essere biasimato, chi dev’essere
insultato o distrutto? Tutti sono uguali nell’essenza.
Tu sei la Madre, Tu
sei il Padre,
Tu sei l’Amico e il
Maestro,
Invero, Tu sei tutto
in tutti.
Ogni nome è il Tuo
Nome,
Ogni qualità è una
Tua Qualità,
Ogni forma è davvero
la Tua Forma.
Come puro Essere non
manifesto, Egli è anche dove non esistono forme. Dipende tutto dalla propria
linea d’approccio.
Non si dice che ciò
che gli shivaiti considerano il supremo (parama) Shiva, e che
coloro che ricercano il Sé chiamano l’Unico Sé, non sia altro che lo stesso Brahman?
In realtà non vi è contraddizione.
Finché si percepisce la minima differenza, sia pure dello spessore di un
capello, come si può parlare dello stato del puro Essere?
Per questo,
indipendentemente dal sentiero che si sceglie, è sempre Quello. Vedanta* in
effetti significa la fine di differenza e non-differenza.
Quando si è
impegnati nella sadhana, ci si deve concentrare in un’unica direzione;
ma cosa avviene una volta completata? Cessa ogni differenza, distinzione e
disaccordo. Le differenze invero esistono sul sentiero, ma come potrebbero
esserci differenze nella Meta?
*) – Un gioco di parole: Sat significa Vero Essere, il Bene; satsang l’associarsi con il bene, e anche riunione religiosa. Asat, il contrario di Sat, significa non-essere, male, errore. Trovare dunque il male (asat) in una riunione religiosa (satsang) è una contraddizione in termini.
*) – Vedanta: la parte finale o il culmine della saggezza Vedica. Qui Mataji gioca con le parole Veda e bheda o differenza. In bengali le lettere b e v si pronunciano allo stesso modo. Anta significa ‘fine’.
Solan, 16 settembre 1948
Una signora*
appartenente ad una ben nota famiglia indiana, che si era distinta per
aver dedicato la sua vita al servizio sociale, venne per avere il darshan di
Mataji e chiese:
La capacità di
meditare viene con la pratica in questa vita o è un’attitudine che si
acquisisce nelle vite precedenti?
Mataji: Può essere
il risultato di una delle due o la combinazione di entrambe. La meditazione va
praticata ogni giorno della propria vita. Guarda, cosa c’è in questo mondo?
Nulla di durevole; perciò volgi il tuo desiderio all’Eterno. Prega affinché il
lavoro compiuto tramite te, Suo strumento, possa essere puro. RicordaLo in ogni
azione. Più puro sarà il tuo pensiero, più sottile sarà il tuo lavoro.
In questo mondo ricevi una cosa e domani potrebbe essere già sparita. Ecco
perché la tua vita dev’essere animata da uno spirito di servizio; qualunque
cosa tu faccia, pensa che il Signore accetta i tuoi servizi. Se desideri la
pace devi aver caro il pensiero di Lui.
Domanda: Quando
ci sarà pace sulla terra?
Mataji: Sai qual è
lo stato attuale delle cose; le cose vanno come sono destinate ad andare.
Domanda: Quando
cesserà questo stato d’agitazione?
Mataji: Anche il
fatto che molti di voi siano preoccupati e chiedano: “Quando finirà?”, è uno
dei Suoi modi di manifestarSi.
Jagat (mondo) significa movimento incessante, e
ovviamente non può esservi quiete nel movimento. Come potrebbe esservi pace nel
perpetuo andare e venire? La pace regna dove non c’è andare né venire, né
struggersi né bruciarsi. Inverti il tuo corso, vai verso di Lui; allora ci sarà
speranza di pace.
Grazie al tuo japa
e alla tua meditazione, anche quelli che ti sono vicini trarranno
giovamento dalla benefica influenza della tua presenza. Per sviluppare il gusto
della meditazione devi fare uno sforzo deliberato e sostenuto, come i bambini
che vanno fatti sedere a studiare sia con la persuasione sia con la forza. Un
malato può guarire se prende le medicine o gli fanno delle iniezioni. Anche se
non sei incline a meditare, conquista la tua riluttanza e fai una prova.
L’abitudine d’innumerevoli vite ti spinge nella direzione opposta e ti rende
difficile concentrarti; persevera malgrado ciò! Con la tua tenacia guadagnerai
forza e sarai forgiata, vale a dire svilupperai la capacità di fare sadhana.
Convinci la tua mente che, per quanto arduo, il compito va svolto. Fama e
riconoscimento durano solo per poco; non t’accompagneranno quando lascerai
questo mondo. Se il tuo pensiero non si volge naturalmente all’Eterno,
fissacelo con uno sforzo di volontà. Qualche severo colpo del destino ti
spingerà verso Dio, e sarà solo un’espressione della Sua Misericordia. Per
quanto doloroso, è con questi colpi che s’impara la lezione.
L’ostinazione della
mente va vinta con fermezza. Che la mente collabori o meno, devi essere
irremovibile nella determinazione di compiere senza fallo un certo numero di
pratiche – semplicemente perché la sadhana è il vero lavoro dell’uomo. A
lungo sei stata abituata a compiere azioni che incatenano; per questo sei
continuamente spinta a legarti all’attività dalla forza delle abitudini. Se
farai per qualche tempo un serio sforzo, potrai vedere da sola quanto sei presa
dal tuo lavoro, e più t’impegnerai nella sadhana più veloce sarà il tuo
progresso.
Per quanto riguarda
l’abbandono di sé: sforzandosi di vivere costantemente una vita di dedizione,
un giorno accadrà. Che significa abbandono, se non abbandonarsi al proprio Sé?
Ricorda ciò che questa tua piccola figlia** ti chiede di fare!
*) – La signora Rameshwari Nehru.
**) – Spesso Mataji si riferiva a se stessa in questi termini.
Solan, 11 settembre 1948
Vennero un
funzionario di stato e sua moglie per il darshan di Mataji; l’incontravano per
la prima volta. Mataji rispose ad una loro domanda:
Se affermate di non
avere fede, dovete esserne profondamente convinti. Dove c’è il ‘no’, è
potenzialmente presente anche il ‘sì’. Chi può affermare di essere oltre la
negazione e l’affermazione? Avere fede è imperativo. L’impulso naturale di
avere fede in qualcosa, profondamente radicato nell’uomo, sfocia nella fede in
Dio. Per questo la nascita umana è un dono molto grande. Non si può dire che
qualcuno non abbia fede. Tutti credono sicuramente in una cosa o nell’altra.
La parola ‘manus’
(uomo) deriva da ‘man’ (mente) e ‘hus’ (conscio), e indica la
consapevolezza e la vigilanza della mente. Ciò implica che la vocazione
naturale dell’uomo è la conoscenza di Sé. Quando i bambini imparano a leggere e
scrivere, devono accettare il rimprovero e la critica. Anche Dio ogni tanto dà
all’uomo una dolce percossa, che è solo un segno della Sua misericordia. Dal
punto di vista del mondo questi colpi sono considerati estremamente dolorosi,
ma in realtà trasformano il cuore e conducono alla pace; turbando la felicità
mondana, inducono l’uomo a cercare il sentiero della beatitudine suprema.
È vero che il corpo
vive respirando, e che dunque c’è sofferenza.*
Ci sono due tipi di
pellegrini sul cammino della vita: il primo è come un turista, che desidera
vedere cose interessanti, andare da un posto all’altro, passare rapidamente per
gioco da un’esperienza all’altra. Il secondo percorre il sentiero che pertiene
alla vera essenza dell’uomo e che porta alla sua vera dimora, alla conoscenza
di Sé. Nel viaggio intrapreso per amore della curiosità e del piacere
s’incontrerà certamente il dolore. La sofferenza è inevitabile finché non si
ritrova la propria vera dimora. La causa originaria della sofferenza è il senso
di separazione, che è fondato sull’errore, sulla concezione della dualità. Ecco
perché il mondo è chiamato ‘du-niya’ (basato sulla dualità).
Il credo di un uomo
è fortemente influenzato dal suo ambiente; per questo deve scegliere la
compagnia dei santi e dei saggi. Credere significa credere nel proprio Sé, non
credere è scambiare il non-sé per il Sé.
Ci sono esempi di
realizzazione avvenuti per grazia di Dio; altre volte si può constatare che
Egli risveglia nell’individuo un ardente desiderio di verità. Nel primo caso la
realizzazione avviene spontaneamente, nel secondo è causata dalle tribolazioni;
ma tutto è opera soltanto della Sua misericordia.
L’uomo pensa di
essere l’autore delle sue azioni, ma in effetti ogni cosa viene diretta da
‘Lì’; si è collegati ‘Lì’ come ad una centrale elettrica, tuttavia l’uomo dice:
‘Io faccio’. È meraviglioso! Quando malgrado ogni sforzo non si riesce a
prendere il treno, questo fatto non mostra chiaramente da dove sono diretti
tutti i nostri movimenti? Qualunque cosa accada ad ognuno, ovunque e in
qualsiasi momento, è stabilito da Lui; i Suoi piani sono perfetti. Tra Dio e
l’uomo esiste un legame eterno; ma nel Suo Gioco questo legame a volte c’è e
altre volte è tagliato o, piuttosto, appare tagliato. In realtà non è così, perché
il legame è eterno. Osservato da un altro punto di vista, non c’è alcun legame.
Un uomo che venne a trovare questo corpo disse: “Sono per voi un nuovo venuto”;
ed ebbe la risposta: “Davvero sempre nuovo e sempre vecchio!”.
La luce del mondo
viene e va, è instabile. La Luce eterna non può mai estinguersi: vedete la luce
esterna e tutte le altre cose dell’universo mediante questa Luce; potete
percepire la luce esterna solo perché essa splende sempre dentro di voi. Potete
vedere ogni cosa nell’universo solo grazie alla grande Luce che è in voi;
potete acquisire conoscenze di qualsiasi tipo solo perché la Conoscenza Suprema
dell’essenza delle cose giace nascosta nelle profondità del vostro essere.
Il cervello umano
può essere paragonato alla radice di un albero; se si annaffia la radice, il
nutrimento giunge ad ogni parte della pianta. A volte dite che il vostro
cervello è stanco. Quando succede? Quando siete troppo presi dalle cose
esterne; ma non appena tornate a casa e parlate con i vostri cari, la vostra testa
diventa più leggera e vi mostrate pieni di gioia. Per questo si dice che poiché
il cervello vi appartiene, il lavoro che fate non può stancarvi. In effetti,
ogni lavoro è il vostro lavoro; ma come potete comprenderlo? In verità il mondo
intero è vostro, del vostro Sé; ma voi lo percepite separato, così come vedete
gli ‘altri’. Sapere che è vostro dà felicità, l’idea che è separato da voi
causa sofferenza. Percepire la dualità significa dolore, conflitto, lotta e
morte. Pitaji,* praticate qualche tipo di sadhana!
Interlocutore: È
tutto nelle mani di Dio.
Mataji: Esattamente!
Tenetelo sempre in mente: ogni cosa è nelle mani di Dio e voi siete il Suo
strumento, che Lui usa come vuole. Cercate di capire il significato di ‘tutto è
Suo’, e vi sentirete subito libero da ogni peso. Quale sarà il risultato del
vostro abbandono? Nessuno vi sembrerà estraneo, tutto sarà il vostro intimo Sé.
Dissolvete il senso
di separazione con la devozione oppure bruciatelo con la conoscenza; cosa si
dissolve o brucia? Solo ciò che per sua natura può essere dissolto o bruciato,
cioè l’idea che esista qualcos’altro oltre il Sé. Che succederà allora?
Conoscerete il vostro Sé.
Tutto è possibile in
virtù del potere del guru; perciò cercate un guru. Nel frattempo, poiché tutti
i nomi sono il Suo nome, tutte le forme le Sue forme, sceglietene una e fatene
la vostra perenne compagna. Nello stesso tempo Lui è anche senza nome e senza
forma; per il Supremo è possibile essere qualunque cosa e anche nulla. Finché
non trovate un guru, siate devoto al nome o alla forma di Lui che più vi
attrae, e pregate incessantemente che Lui vi si riveli come il Sadguru. In
verità il guru è dentro, e finché non scoprite il guru interiore nulla può
essere conseguito. Se non sentite il desiderio di rivolgervi a Dio,
sviluppatelo praticando una sadhana quotidiana, proprio come
fanno i bambini a scuola, che devono seguire un orario stabilito.
Se la preghiera non
sgorga spontaneamente dal vostro cuore, chiedetevi: “Perché trovo piacere nelle
cose fugaci di questo mondo?”. Se desiderate ardentemente una cosa esterna o vi
sentite particolarmente attratti da una persona, fermatevi e dite a voi stesso:
“Guarda, stai per essere incantato dal suo fascino!”. Esiste un luogo in cui
non vi sia Dio? La vita di famiglia, l’ashrama del capofamiglia, può
condurvi ugualmente nella Sua direzione, a condizione che l’accettiate come ashrama.
Vissuta in questo spirito, aiuta l’uomo ad avvicinarsi alla realizzazione
del Sé.
Se invece desiderate
intensamente cose come fama o posizione, Dio ve le concederà, ma non vi
sentirete soddisfatto. Il Regno di Dio è un tutt’uno e, fino a quando non
sarete ammessi alla sua totalità, non potrete essere contento. Egli vi concede
giusto un minimo, solo per tenere vivo il vostro malcontento, poiché senza
malcontento non può esservi progresso. Voi, che siete discendenti
dell’Immortale, non potrete mai rassegnarvi al regno della morte, né Dio vi
permetterà di restarci. Lui stesso suscita in voi un senso d’incompletezza
concedendovi una piccola cosa solo per stimolare il vostro desiderio di
qualcosa di più grande. È così che Lui vi spinge avanti. Il viandante trova
difficile questo sentiero e si sente turbato, ma chi ha occhi per vedere
percepisce chiaramente che il pellegrino avanza. Il dolore che si prova riduce
in cenere il piacere che deriva dalle cose del mondo. Questo è ciò che si
chiama tapasya. Quel che ostacola il sentiero spirituale porta con sé i
semi della sofferenza futura; ma l’angoscia e l’intenso dolore che deriva da
queste ostruzioni sono l’inizio di un risveglio alla Coscienza.
*) – La vita umana, e quella animale in generale, dipende dal respiro, che è un elemento di disturbo nell’equilibrio universale. L’intera creazione è caratterizzata da questo ‘disturbo’. Il processo del respiro implica un duplice movimento, verso l’interno e verso l’esterno, e una pausa regolare tra i due. Lo stato d’armonia si può raggiungere liberandosi dallo stimolo al movimento, pervenendo al riposo, alla calma e alla pace; ciò è possibile mediante lo yoga. Quando si è in uno stato di perfetto equilibrio, non c’è più bisogno di respirare.
Solan, 21 settembre 1948
Una ragazza si
rivolse a Mataji e disse:
Quando siedo per
meditare non desidero contemplare alcuna forma, ma com’è possibile meditare sul
senza forma? Ho notato che a volte, quando cerco di meditare, immagini di
divinità fluttuano davanti alla mia mente.
Mataji: Devi
contemplare qualunque immagine sorga nella tua mente. Osserva in quale forma
Dio ti Si manifesta. La stessa forma non soddisfa tutti. Per alcuni può essere
di maggiore aiuto Rama, per altri Shiva, per altri Parvati e per altri ancora
il Senza-forma. Lui è certamente senza forma ma, nello stesso tempo, osserva in
quale forma particolare ti appare per mostrarti la via. Devi contemplare in
ogni particolare qualunque Sua forma si presenti alla tua mente.
Procedi così:
Quando siedi a
meditare, contempla dapprima la forma di una divinità; immaginala seduta sul
suo trono, inchinati davanti a lei e fai japa. Terminato il japa inchinati
ancora una volta e, dopo averla installata nel tuo cuore, alzati dal seggio.
Questa potrebbe essere in breve la tua pratica, se non riesci a meditare sul Brahman.
Abbi la ferma
convinzione che in ogni momento, senza eccezioni, Egli sta facendo e farà ciò che
è meglio per te. Pensa così: “Egli si è rivelato a me in questo particolare
aspetto per aiutarmi. Egli è con forma e senza forma; l’intero universo è in
Lui ed è pervaso da Lui. Per questo si dice: ‘Il Sadguru è il Maestro
del mondo e il Maestro del mondo è il Sadguru”’.
Quel che ho detto è
inteso particolarmente per te. La stessa cosa non vale per tutti. Più Lo
contempli, più rapido sarà il tuo progresso. Se nella tua mente sorge
un’immagine di Lui, è Lui, così com’è Lui il Senza-forma. Osserva ciò che viene
spontaneamente.
Benares, 18 agosto 1948
Domanda: Come può
la meditazione su un aspetto particolare condurre alla meditazione del tutto? È
possibile concentrarsi completamente solo su un aspetto. Si dice che quando si
è assorti in meditazione, vi sia una graduale espansione della coscienza; e che
quando la mente raggiunge ciò che è oltre la sua capacità di comprensione, si
dissolva spontaneamente (laya).
Non c’è più la meditazione, ma la conoscenza divina (Jnana).
Alcuni sostengono questa teoria, ma non capisco come, con questo metodo, la
mente possa pervadere tutto.
Mataji: La
meditazione (dhyana), quando è veramente tale, avviene spontaneamente.
Deve venire da sé, senza sforzo. Dite poi che la mente si dissolve (laya),
ma qual è la sua origine?
Interlocutore: Il
Sé (Atman). La
Sruti afferma che essa è stata emanata dal Sé come un’ombra.
Mataji: Dove c’è
nascita, ci dev’essere dissoluzione (nasa); volete dire questo? Se fosse
così, la mente dovrebbe riemergere. Dite che non riuscite a capire
l’onnipresenza della mente; questo è naturale, perché non è una cosa che si può
afferrare – non è una cosa né può essere afferrata. Voi fate l’esperienza dei
piaceri e delle sofferenze del mondo; d’altra parte, durante la meditazione
godete di una temporanea felicità o beatitudine. Anche questa è un’esperienza,
vero? Anche se di natura leggermente diversa dalla prima.
Quando un uomo
descrive o riferisce un’esperienza, dopo essere sceso dalle altezze
dell’estasi divina (samadhi), ciò vuol dire che per lui esistono
ancora ascesa e discesa, altrimenti perché dovrebbe usare quelle espressioni?
C’è però uno stato in cui ascesa e discesa sono fuori questione. Potreste
sostenere che la mente va considerata esistente in samadhi, anche se in
uno stato d’assorbimento; altrimenti, uscendo dal samadhi, come potrebbe
quella persona parlare delle esperienze che ha avuto in quello stato? Potreste
ancora sostenere che la sua è una mente purificata. Sto parlando dal vostro
punto di vista. Sul sentiero si hanno delle esperienze. Tra i due tipi
d’esperienza appena menzionati c’è una differenza; ma appartengono entrambi
alla mente, sebbene a livelli differenti – anche ciò che chiamate samadhi.
Vi è un altro stato
ancora in cui non si può parlare d’ascesa e discesa, e di conseguenza neppure
di un corpo. Se sorgesse ancora la questione del corpo o dell’azione o
qualsiasi altro problema, significherebbe che non si è raggiunto quello stato.
Quando dite che la mente si dissolve (laya), in che cosa si dissolve?
Interlocutore: Nel
Sé, naturalmente.
Mataji: La mente si
dissolve come il sale nell’acqua; è questa la vostra idea? Da un certo punto di
vista può sembrare così. Nel caso di una dissoluzione di questo tipo, uno yogi
perfetto può risuscitare di nuovo la mente.
Interlocutore:
Pensavo ad una distruzione totale (nasa).
Mataji: Distruzione
(nasa) o dissoluzione (laya)? Na Sa significa ‘non
Lui, na Sva* ‘non il Sé’; è questo che si definisce distruzione? Quando
la distruzione è distrutta, rimane Quello. Considerate l’annientamento della
mente-ego (manomasa) la sua dissoluzione (laya)?
Interlocutore:
Come posso intenderlo?
Mataji: Sta al guru
indicare il metodo; egli vi mostrerà la via per comprendere e v’istruirà nella sadhana.
Vostro compito sarà continuare a praticarla fedelmente. Il frutto viene
spontaneamente sotto forma di rivelazione del Sé. Il potere d’afferrare
l’inafferrabile si manifesterà a suo tempo tramite il guru. Quando ci si
chiede: ‘Come devo procedere?’, la realizzazione non è stata, ovviamente,
ancora raggiunta. Non allentate dunque i vostri sforzi finché non ci sarà
l’Illuminazione. Fate che non ci siano buchi a interrompere il vostro sforzo,
poiché un buco produrrà un vortice. Il vostro sforzo dev’essere continuo come
il fluire dell’olio, dev’essere un flusso costante e ininterrotto.
Non importa se non
riuscite a controllare il bisogno di cibo e sonno; il vostro scopo dev’essere
quello di non permettere intervalli nella pratica della sadhana. Non
vedete che le necessità di cibo e sonno, ciascuna al suo momento, sono senza
eccezioni dei bisogni ricorrenti? Proprio allo stesso modo, nella ricerca della
verità dovete aspirare alla continuità. Una volta che la mente, nel corso del
suo movimento, percepisce il tocco dell’Indivisibile – se solo poteste
afferrare quel momento! – in quel Supremo Momento sono contenuti tutti i
momenti e, quando l’avrete catturato, tutti i momenti saranno vostri.
Prendete per esempio
i momenti di congiunzione (sandhikshana) all’alba, a mezzogiorno
e al crepuscolo, quando si rivela il potere collegato al punto di contatto –
dove s’incontrano l’andare e il venire. Ciò che chiamate ‘scarica elettrica’ è
solo l’unione di due opposti; ed è così che l’Essere Supremo Si manifesta al
momento della congiunzione. In realtà Esso è presente in ogni singolo momento,
ma voi non lo percepite. È questo che dovete afferrare, e potete farlo nel
punto di congiunzione, in cui gli opposti si fondono. Nessuno può predire
quando si rivelerà quel fatidico Momento per ogni individuo; perciò continuate
a praticare incessantemente.
Che cosa sia
esattamente quel grande Momento dipende dalla particolare linea d’approccio di
ognuno. Il momento in cui siete nati non determina e regola il corso della
vostra vita? Similmente, ciò che conta per voi è il momento in cui entrerete
nella corrente che costituisce il movimento del vostro vero essere, l’andare
avanti o, in altre parole, il grande pellegrinaggio. Fino a quando questo non
succede, la perfezione non può essere ottenuta. Ecco perché per alcuni
discepoli il guru stabilisce delle ore particolari per la sadhana, quali
l’alba, il tramonto, mezzogiorno e mezzanotte; questi sono i quattro momenti
prescritti di solito. Il discepolo ha il dovere di mettere in pratica
diligentemente gli ordini del guru, che variano secondo il temperamento e la
predisposizione dell’aspirante. Lo stesso metodo non si addice a tutti. La
persona comune può ignorare la particolare combinazione dei fattori necessari
per portare a completamento gli aspetti fin qui trascurati del suo essere; per
questo è essenziale obbedire alle istruzioni del guru. Il Momento decisivo è
destinato a manifestarsi non appena, sia per la vostra attitudine mentale sia
per le vostre azioni, sarete pronto. Cercate dunque di seguire rigorosamente il
sentiero indicatovi dal guru, e vedrete che ogni cosa accadrà spontaneamente.
Una parte delle
ventiquattrore del giorno va decisamente dedicata a Dio. Terminate, se
possibile, di praticare regolarmente il japa di un particolare Nome o mantra
mentre sedete in una certa posizione, e aumentate gradualmente il tempo o
il numero delle ripetizioni. Non c’è bisogno di aumentare ogni giorno. Fissate
il ritmo e l’intervallo di quanto aumenterete, per esempio ogni quindici giorni
oppure ogni settimana. Impegnatevi nella Ricerca di Dio in questo modo. Ovunque
siate, prendete rifugio in Lui, fate di Lui la vostra Meta. Quando in virtù di
questo sforzo v’immergerete profondamente in quella corrente e vi dedicherete
sempre più tempo, sarete trasformato e i vostri desideri per i piaceri dei
sensi s’indeboliranno; allora raccoglierete il frutto dei vostri sforzi.
Potreste arrivare a sentire che il corpo può andarsene in qualunque istante,
che la morte può arrivare in qualunque momento.
Così come
nell’universo c’è una creazione sempre nuova, allo stesso modo la vostra
reazione mentale e psicologica nei suoi confronti subisce un cambiamento
costante. Se procederete nella maniera indicatavi, vedrete che i vostri
interessi esterni svaniranno gradualmente e la vostra visione si volgerà
all’interno. Più intensa sarà la vostra ricerca, più vaste le possibilità che
vi si apriranno, e la sofferenza diminuirà in proporzione al vostro progresso e
non crescerà più. Si dice anche che il karma è estinto dal karma; vale
a dire, gli effetti delle azioni passate sono neutralizzati dalle azioni
contrarie. Se venisse veramente estinto, potrebbe accadere in brevissimo tempo.
Anche quando non riceve cibo, il corpo non smette d’assimilare nutrimento; in
questo caso si dice che comincia a consumare la sua stessa carne. Come nutrite
il corpo, così dovete prendervi cura di tutto ciò che riguarda il vostro
benessere spirituale; solo allora prospererete sotto questo aspetto. Chi può
dire in quale momento divamperà la fiamma dell’illuminazione? Per questo dovete
continuare costantemente i vostri sforzi senza venire mai meno. Sarete
assorbiti sempre più profondamente in Lui. Lui e solo Lui occuperà i vostri
pensieri e i vostri sentimenti, perché la mente cerca sempre ciò che le dà il
giusto sostentamento, e questo può venire solo dallo Stesso Essere Supremo.
Sarete allora trasportati dalla corrente che conduce al vostro Sé; più gioia
troverete nella vita interiore, meno vi sentirete attratti dalle cose
esteriori. La mente sarà, di conseguenza, così ben alimentata dal giusto nutrimento
che la realizzazione della sua identità con il Sé potrà avvenire in qualunque
momento.
Riguardo al laya,
se intendete la dissoluzione della mente in Quello, allora ciò che avete
detto è giusto. Il jada samadhi non è desiderabile. Al contrario, dovete
realizzare cos’è la mente, chi è. La mente si dissolve in Quello; è questo che
intendevate dire? Laya può significare sia che la mente non ha dove
andare – in altre parole, che non può più trovare la sua via e quindi è in uno
stato di latenza – sia che s’immerge in Quello che è la rivelazione del Sé, e
di conseguenza non c’è più possibilità di una sua esistenza separata. Dove c’è
la rivelazione del Sé, come può sorgere la questione se la mente viene dissolta
oppure no?
Questa risposta è
stata data dal punto di vista dal quale avete posto la domanda. Avete
cominciato col chiedere in che modo la meditazione su un aspetto particolare
può condurre alla meditazione sul tutto. Certo, il tutto è contenuto nella
parte; ma per arrivare a realizzare questa verità dovete seguire le istruzioni
del guru, che sono piene del Suo potere. Quanto è stato detto dà solo una
pallida idea di un solo aspetto dell’intero argomento.
Ci sono poi gli
esempi di quando si perde coscienza mentre si siede in meditazione. Alcune
persone sono, per così dire, venute meno inebriate dalla gioia, rimanendo in
quello stato per tanto tempo. Rinvenendo, hanno affermato d’aver provato una
sorta di beatitudine divina, che certo non è la realizzazione. Nella
meditazione esiste uno stadio in cui si percepisce una gioia immensa, in cui si
è come sommersi in quella gioia. Ma cos’è che viene sommerso? La mente naturalmente.
Ad un certo livello ed in alcune circostanze quest’esperienza può costituire
un ostacolo. Se ripetuta di continuo, si può ristagnare in quel particolare
livello e ciò può impedire di gustare l’Essenza delle cose.
Una volta stabilita
la vera contemplazione (dhyana), le attrazioni del mondo perdono
tutto il loro fascino. Nel caso in cui si facesse esperienza di qualcosa che
riguarda la Realtà Suprema o il Sé, non si può dire: “Dove sono stato? In quel
momento non sapevo nulla”, perché non può esservi ‘non sapere’. Se fosse ancora
possibile descrivere a parole la beatitudine che si prova, sarebbe ancora
godimento e quindi un ostacolo. Bisogna essere completamente coscienti, del
tutto svegli. Cadere nel torpore o nel sonno yogico non porta da nessuna parte.
Dopo una vera
meditazione i piaceri del mondo diventano ripugnanti, grossolani e del tutto
insignificanti. Che significa vairagya? Quando ogni singolo oggetto del
mondo accende, per così dire, il fuoco della rinuncia, così da fare
indietreggiare come per l’effetto di un colpo, allora c’è il risveglio
interiore ed esteriore. Questo, però, non significa che il vairagya implichi
avversione o disprezzo per le cose del mondo – queste sono semplicemente
inaccettabili, il corpo le rifiuta. Non c’è antipatia né collera. Quando il vairagya
diventa un’ispirazione vivente, si comincia a discriminare sulla vera
natura del mondo, fino a quando, con l’appassionata certezza della percezione
diretta, sorge infine la conoscenza del suo carattere illusorio. Ogni cosa che
appartiene al mondo sembra bruciare, non si può toccare. Anche questo è uno
stato che può presentarsi in un determinato momento.
Ora ciò che amate
non vi appare una cosa di breve durata, al contrario sembra rendervi felice; ma
nella misura in cui si desta lo spirito di distacco, l’inclinazione per quei
piaceri si attenuerà – perché, non sono passeggeri? In altre parole, la morte
morirà. Ora che state avanzando verso ciò che è oltre il tempo, la parvenza di
felicità prodotta dalle cose mondane sta per essere distrutta. Come risultato
vi chiederete: “Cos’è invero questo mondo?”. Finché penserete che il mondo sia
da godere tale domanda non si presenterà e poiché state procedendo verso ciò
che trascende il tempo, tutto ciò che appartiene al tempo comincerà ad
apparirvi nella sua vera luce. Se al ritorno dalla contemplazione continuerete
a comportarvi come prima, vuol dire che non siete stato trasformato. Quando ci
sarà la meditazione autentica, quella che suscita l’indifferenza al mondo,
comincerete a struggervi intensamente per il Divino, avrete un gran desiderio
di Lui e capirete che nulla di transitorio può appagare o soddisfare questo
desiderio.
Come spiegarvelo
chiaramente, pitaji? Alcune persone vengono da questo corpo e raccontano
che i loro figli e le loro figlie sono saliti su una macchina e sono andati via
senza neppure alzare lo sguardo per vedere se i genitori piangevano; sono
completamente insensibili al dolore dei loro genitori. Ecco, questo è
esattamente ciò che succede ad un certo stadio del sentiero: il piacere del
mondo non può toccarvi in alcun modo. Comincerete a pensare: “Le persone che
ritenevo più care sono legate a me solo dalla carne e dal sangue. Che significa
per me?”. Nessuno mette deliberatamente le mani sul fuoco o calpesta un
serpente; proprio allo stesso modo guarderete appena gli oggetti dei sensi e
andrete da un’altra parte. Allora entrerete nella corrente che vi porterà nella
direzione opposta e in seguito, quando vi libererete anche del
non-attaccamento, non ci sarà problema di attaccamento o non-attaccamento – ciò
che è, è Quello. Alcuni dicono che con uno sforzo costante si può ottenere
l’Illuminazione. Ma è vero che lo sforzo può produrre l’Illuminazione?
L’Illuminazione dipende dall’azione?
Il velo viene
distrutto, e una volta fatto questo si rivela Quello che È. Ciò che si ritiene
frutto dello sforzo è solo l’illuminazione dell’aspetto particolare verso cui è
stato diretto lo sforzo. La luce senza velo (niravaran prakasha) è Lui,
l’Eterno. Il guru sa qual è la giusta linea d’approccio per ogni individuo.
Domanda: A volte
si sente che gli oggetti dei sensi esistono realmente, e altre volte che sono
semplicemente delle idee. Perché la stessa cosa appare così diversa in
occasioni differenti?
Mataji: Perché siete
nella morsa del tempo. Non avete ancora raggiunto lo stato in cui ogni cosa è
percepita soltanto come Sé,* non è vero? Qui sta la soluzione di tutto il
problema. Il vostro modo di sentire è buono, giacché il vostro sentimento è
legato alla ricerca suprema; e poiché nulla va mai perduto, ciò che avete
realizzato anche per un secondo un giorno o l’altro porterà frutto. Allora la
conoscenza delle vere caratteristiche di ciascun elemento (tattva) balenerà
nella vostra coscienza, rivelando che cosa sono l’acqua, l’aria, il cielo,
ecc., e quindi che cos’è la creazione, come boccioli che si dischiudono
all’improvviso. Fiori e frutti esistono solo perché sono contenuti in potenza
nell’albero, perciò dovete mirare a realizzare il solo Elemento supremo (Tattva)
che farà luce su tutti gli elementi.
Avete chiesto cosa
sono gli oggetti dei sensi: un oggetto dei sensi (vishaya)** è
ciò che contiene veleno, è pieno di male e spinge l’uomo verso la morte; mentre
libertà dal mondo degli oggetti dei sensi (nirvishaya) – in cui
non vi è traccia di veleno – significa immortalità.
Domanda: Rimane
tuttavia qualcosa del cocente dolore del vairagya!
Mataji: Cosa produce
la sensazione di bruciore? Sicuramente una ferita! L’infiammazione c’è a causa
sua; ma di chi è la ferita? Se non c’è ferita, non può esserci dolore. Qui sta
l’inganno; fino a quando la Realtà non si rivela, la ferita continuerà a far
male. Se l’infiammazione è un processo di guarigione, naturalmente è benefica.
Il paziente che cade incosciente non è consapevole del dolore. Potete vedere
come l’uomo annega nel piacere, nella rovina e nel dolore; e certo questo non è
ciò che si desidera! Questa è la via del mondo, con le sue interminabili
incertezze***. Potete dire perché ci si sente angosciati?
Interlocutore: Si
è spinti in due direzioni: verso Dio e
verso il piacere dei sensi. Questo causa angoscia.
Mataji: Il vostro
problema è che sentite il desiderio di rinunciare, ma non potete realizzarlo.
Lasciate che questo desiderio si desti nel vostro cuore; il fatto che si agiti
significa che il tempo in cui sarete in grado di rinunciare s’avvicina.
Ottenete l’oggetto
che bramate e tuttavia siete insoddisfatto; e se non riusciste a ottenerlo,
sareste ugualmente deluso. La disillusione che provate nell’appagare il vostro
desiderio è salutare; ma l’angoscia del desiderio inappagato delle cose che non
siete riuscito ad ottenere vi conduce verso ciò che è morte, verso la miseria.
Interlocutore: I
desideri dei sensi non possono mai essere appagati; più si ha, più si
desidera. L’appagamento dei desideri mondani genera soltanto desideri più
grandi.
Mataji: Il mondo
stesso è una manifestazione del desiderio, e quindi l’angoscia dovuta al mancato
appagamento deve necessariamente continuare. Per questo si dice che nella vita
umana ci sono due correnti: una relativa al mondo, in cui un desiderio segue
l’altro; e l’altra relativa al proprio vero Essere. Caratteristica della prima
è che non potrà mai finire nell’appagamento; al contrario, il senso di bisogno
viene perpetuamente stimolato. Entrando invece nella seconda corrente l’uomo
si stabilirà nella sua vera natura e porterà a compimento lo sforzo che ne è
l’espressione. Se farà lo sforzo di realizzarsi entrando in questa corrente,
essa infine lo condurrà all’equilibrio perfetto del suo vero Essere.
Domanda: E
l’angoscia di non aver trovato, l’angoscia dell’assenza di Dio? Io non ho
desiderio dei piaceri dei sensi, ma essi vengono a me e sono costretto a farne
esperienza.
Mataji: Ah, ma
l’angoscia di non aver trovato Dio è salutare! Ciò che mangiate lascia un
sapore nella vostra bocca. Portate ornamenti perché lo desiderate, perciò
dovete sopportarne il peso, tuttavia quel peso è destinato a cadere, perché è
qualcosa che non può durare, non è così?
Domanda: Vi sono
esempi in cui una persona illuminata può essere ancora nell’ignoranza?
Mataji: Dite che una
persona è illuminata, e nello stesso tempo affermate che può essere soggetta
all’ignoranza? Una cosa del genere, pitaji, è impossibile. C’è però uno
stato di realizzazione che non è mantenuto sempre e in cui è possibile che si
verifichi quanto suggerite – ma mai in un caso di realizzazione finale. In
qualunque modo possiate percepire un Essere Illuminato, Egli rimane ciò che è.
Come potrebbe essere possibile l’ignoranza in ciò che viene chiamata Conoscenza
Suprema? Parlare d’ignoranza riferendosi ad un uomo realizzato è un esempio di
Conoscenza Suprema scambiata per ignoranza. Per questo parlate di ascesa e
discesa. Come non si pone la questione del corpo per chi è liberato, così per
lui non può esserci alcuna questione di salire e scendere; tuttavia, vi è uno
stato di realizzazione in cui esistono realmente ascesa e discesa.
*) – Un gioco di parole: samaya e svamayi si pronunciano allo stesso modo. Samaya = tempo; svamayi = permeato dal Sé.
**) – Vishaya = oggetto dei sensi. Vish = veleno; hay = è.
***) – Samsara = mondo. Samsaya =
incertezza.
Solan, 19 settembre 1948
Qualcuno parlò a
Mataji di un uomo che, senza alzarsi dal suo seggio, produceva ogni sorta di
oggetti: fiori, ghirlande, dolci, ecc., che apparivano semplicemente nelle sue
mani. Mataji raccontò allora un episodio che aveva avuto luogo a Dacca molti
anni prima.
Mataji: Che numero
incredibile di episodi simili ha visto questo corpo! Di regola questo corpo non
fa commenti su cose del genere, ma in una particolare occasione in qualche modo
accadde qualcosa di piuttosto insolito. Quando venne una certa donna, sentii di
dovermi stendere sul suo grembo. Non appena lo feci, notai distintamente che
nel sari della donna, all’altezza della cintola, era legato un involto
contenente diverse cose. Tutti cominciarono a chiederle di mostrare gli oggetti
che materializzava con mezzi sovrannaturali, perché molti l’avevano vista farlo
altre volte. Molti avevano sentito dire che nelle sue mani appariva spontaneamente
anche il prasad del tempio di Kali a Dakshineshwar. Questo corpo disse:
“Potrei scoprirlo ancor prima che arrivi da lì; ma volete che lo faccia?”. La
donna disse: “Sì, naturalmente!”. La domanda fu ripetuta molte
volte, e ogni volta lei e i suoi devoti rispondevano: “Sì, per piacere!”.
Questo è quanto accadde. Proprio così, questo corpo non tirò fuori nulla con le
sue mani – accadde spontaneamente solo quanto era destinato ad accadere.
In seguito una
devota della donna s’avvicinò a questo corpo e chiese: “Ma, voi non
umiliate mai nessuno, e certamente non in pubblico. Perché l’avete fatto in
questo caso?”. Le fu risposto: “Sì, come sapete di regola questo corpo non
interferisce con i modi innati di alcuno; tuttavia, che si tratti dell’evento
più ordinario o del più straordinario – chiamatelo come vi pare – la regola che
ha seguito questo corpo fino ad oggi è stata semplicemente questa: qualunque
cosa sia destinata ad accadere accade spontaneamente. Quando è arrivata quella
donna, questo corpo l’ha accolta con grande rispetto, offrendole il suo stesso asana
e mettendole una ghirlanda intorno al collo. Tutti erano felici! Ogni
forma, ogni espressione, è Lui e Lui soltanto. Quel giorno questo corpo non
manifestò nulla, ma la donna affermò di sua spontanea volontà: ‘Tornerò di
nuovo domani!’. L’avete sentito tutti, no? Cosa accadde dopo fu il Suo modo di
rivelare Se Stesso. Ditemi, che c’era da fare? Con qualunque metodo Lui possa
scegliere d’insegnare a qualcuno, in qualsiasi momento – per quanto riguarda
questo corpo, esso non ha un proprio desiderio – è per il bene (‘ja hoye jay’)”.*
Quando (nei primi
tempi) questo corpo soleva fare pranam a ogni creatura, fosse un
insetto, un ragno, un cane o un gatto, lo faceva nella piena consapevolezza
della presenza dell’Essere Supremo in ogni cosa.
‘Qualunque cosa
accada è bene’ – che altro si può dire. Ricorrere alla falsità o all’inganno
non può mai essere per il proprio bene. Chi inganna sarà ingannato. D’altro
canto, anche la falsità può essere mutata in verità. Qualcuno può imbrogliare
deliberatamente, ma grazie alla sincerità dei suoi discepoli la verità sarà
portata alla luce. Come risultato il discepolo supererà il guru. Il
proponimento di trovare la verità condurrà inevitabilmente alla sua
rivelazione. Dissi alla devota di quella donna: “Quante volte ho chiesto a voi
tutti: ‘Devo scoprirlo?’; e senza eccezioni m’avete pregato di farlo. Cos’altro
si può dire?”.
Accadono una
quantità di episodi simili! Ascoltate la storia di una giovane donna, che al
minimo stimolo andava in ‘samadhi’ – così almeno la gente credeva.
Sembrava divenire senza vita, le sue mani e i suoi piedi diventavano freddi.
Quando venne da questo corpo, andò ugualmente in quello strano stato che la
gente scambiava per samadhi. Questo corpo chiamava ‘nonna’ la madre
della ragazza, poiché erano entrambe dello stesso villaggio. Ella mi disse:
“Nipote, ti prego, cerca d’aiutare questa ragazza!”. Compresi perfettamente
qual era il problema della giovane, perciò le sussurrai all’orecchio:
“Riceverai molto presto una lettera da tuo marito”; e udendo questo rinvenne
subito. La notizia della guarigione si diffuse dappertutto. La gente era
profondamente disorientata, e si chiedeva quale potente mantra Mataji
avesse sussurrato all’orecchio della ragazza. In quelle circostanze era
davvero il ‘mantra’ appropriato a lei. Lo stato della ragazza era dovuto
alla sua preoccupazione per il prolungato silenzio del marito.
C’era poi un altro
giovane. Quali stati sovrannaturali era solito passare, quanti tipi di visioni
ebbe! Per esempio, faceva pranam e rimaneva in quella posizione per ore
di seguito, senza alzare la testa e con le lacrime che gli scendevano sulle
guance. Diceva di vedere e sentire Sri Krishna che insegnava ad Arjuna, così
com’è descritto nella Gita, e che era solito avere molte altre visioni
del genere. Questo corpo gli disse che se un sadhaka non può mantenere
il fermo controllo della mente può vedere e sentire molte cose, sia illusorie
sia genuine, tutte mischiate assieme. Può perfino essere soggetto all’influenza
di qualche ‘spirito’ o influsso negativo. Questi fatti, invece di creare una
pura aspirazione divina, ostacolano e non aiutano; inoltre, vedere qualcuno in
visione o sentirlo rivolgersi a voi, può diventare fonte di soddisfazione o di
piacere per l’ego. Non è auspicabile perdere il controllo. Nella ricerca della
verità non bisogna farsi sopraffare da nulla, ma si deve osservare attentamente
qualunque fenomeno si manifesti, rimanendo pienamente coscienti, completamente
svegli, mantenendo di fatto il pieno dominio di sé. La perdita della coscienza
e dell’autocontrollo non è mai buona.
Nel corso della
stessa conversazione Mataji disse:
Lo stesso Signore
Buddha è l’essenza dell’Illuminazione. Tutte le parziali manifestazioni di
saggezza che vengono nel corso della sadhana culminano
nell’illuminazione suprema (bodha svarupa). In maniera simile si
può ottenere la conoscenza suprema (jnana svarupa) o l’amore
supremo (bhava svarupa). Come c’è uno stato di conoscenza
suprema, così allo zenit del sentiero dell’amore c’è uno stato di perfezione,
in cui si realizza che il nettare dell’amore perfetto è identico alla conoscenza
suprema. In quello stato non c’è posto per l’eccitazione emotiva; invero,
questa renderebbe impossibile il risplendere dell’amore supremo (maha-bhava).
Ricordate una cosa: se, seguendo una particolare linea d’approccio, non si
perviene a ciò che è la consumazione di ogni sadhana, e cioè la Meta
finale, significa che non si è veramente entrati in quella linea. Sulla vetta
suprema dell’amore – che è il mahabhava – non può esservi in alcun modo
l’esuberanza, l’emozione eccessiva, e cose del genere. Non bisogna paragonare
in alcun modo l’eccitazione emotiva e l’amore supremo: sono completamente
differenti.
Quando si è assorti
in meditazione, che si sia coscienti o meno del corpo, che ci sia o no un senso
d’identificazione con il fisico – in ogni circostanza è imperativo rimanere
completamente desti; l’incoscienza va rigorosamente evitata. Bisogna mantenere
una genuina percettività sia che si contempli il Sé o qualche altra forma
particolare. Qual è il risultato di tale meditazione? Essa dischiude il proprio
essere alla Luce, a Quello che è eterno. Supponete che il corpo abbia avuto
qualche dolore o indolenzimento, ma che dopo la meditazione si senta
perfettamente sano e forte, senza alcuna traccia di stanchezza o debolezza. È
come se nel frattempo fosse passato un lungo periodo di tempo, come se non vi
fosse mai stato alcun problema. Sarebbe un buon segno; ma se al primo contatto
con la beatitudine si fosse tentati di perdersi in essa, e in seguito
affermare: “Non posso dire dov’ero, non so”, questo non sarebbe desiderabile.
Quando si è in grado di meditare veramente, nella misura in cui si contatta la
Realtà si scopre l’ineffabile gioia che si cela perfino negli oggetti
materiali.
D’altro canto, se
durante la meditazione ci si lasciasse per così dire andare ad una specie di
torpore, e in seguito si affermasse d’essere stati immersi nella beatitudine
profonda, questo tipo di beatitudine sarebbe un ostacolo. La forza vitale che
sembra essere rimasta in sospensione – come quando si ha un senso di grande
felicità dopo un sonno profondo – è un indice di ristagno. È un segno
d’attaccamento; e quest’attaccamento è un ostacolo alla vera meditazione,
poiché si sarà soggetti a volgersi di continuo verso quello stato, giacché dal
punto di vista del mondo, che è completamente diverso, sembrerà una fonte di
profonda gioia interiore e quindi un segno certo di progresso spirituale.
Fermarsi in qualunque stadio ostacola il progresso ulteriore – significa
semplicemente che si cessa d’avanzare.
Quando si è
impegnati in meditazione ci si deve considerare un essere puramente spirituale
(cinmayi), risplendente di luce propria, stabilito nella beatitudine del
Sé (atmarama), e concentrarsi sul proprio Ishta secondo le
istruzioni del guru. Il giovane menzionato prima (quello che soleva avere
visioni) era intelligente e quindi in grado di comprendere questo ragionamento.
Come risultato, le esperienze spettacolari cessarono e ora pratica la
meditazione e gli altri esercizi spirituali in maniera calma e riservata.
In seguito,
quando la conversazione si volse di nuovo su dhyana e asana, Mataji disse:
Se passate ora dopo
ora seduti in una certa posizione, se divenite assorti mentre sedete in quella
posizione e siete incapaci di meditare in qualsiasi altra, vuol dire che traete
piacere dalla posizione; e anche questo costituisce un ostacolo. Quando si
comincia a praticare japa e meditazione, è giusto esercitarsi e
continuare nella stessa posizione quanto più a lungo possibile. Ma quando ci
s’avvicina alla perfezione in queste pratiche, non si pone la questione su
quanto tempo si rimane in una posizione; in qualsiasi momento e in qualunque
posizione – supini, seduti, in piedi o poggiati di lato, secondo il caso – non
si può essere più distolti dalla contemplazione del proprio Ideale o Amato.
Il primo segno di
progresso si manifesta quando ci si sente a disagio in tutto tranne che nella
posizione di meditazione. Niente d’esterno interessa; la sola cosa che attrae è
rimanere seduti nella posizione preferita il più a lungo possibile e contemplare
l’Oggetto Supremo della propria adorazione, immersi in una profonda gioia
interiore. Questo segna l’inizio della concentrazione della mente e quindi è un
passo nella giusta direzione. Qui, tuttavia, si attribuisce grande importanza
alla posizione. Se si rimane in quella posizione finché dura l’inclinazione –
fiduciosi che l’Amato non può mai fare del male – e se vi si può rimanere
fissi, allora la posizione diventa di straordinaria importanza. Questo mostra
soltanto che ci si sta avvicinando alla perfezione nella pratica dell’asana.
In piedi, seduti o
camminando – in effetti ogni movimento del corpo è chiamato asana, e
corrisponde al ritmo e alla vibrazione di corpo e mente in quel particolare
momento. Alcuni aspiranti possono meditare solo seduti nella posizione indicata
dal guru o prescritta negli shastra, e non altrimenti. È così che si
diventa esperti nella meditazione. D’altra parte, si può cominciare la pratica
seduti in una qualsiasi posizione normale; ma, non appena si raggiunge lo stato
di japa o di dhyana, il corpo assumerà spontaneamente la
posizione più appropriata, allo stesso modo in cui si manifesta involontariamente
un singhiozzo. Man mano che la meditazione diventerà sempre più intensa, le
posizioni guadagneranno in perfezione. Se in un pneumatico viene pompata poca
aria, rimane sgonfio; ma se si gonfia al massimo della sua capacità, rimane
stabile nella sua forma naturale. Similmente, quando si perviene alla vera
meditazione, il corpo si sente leggero e libero, e alzandosi dalla meditazione
non si sente fatica o dolore né torpore o indolenzimento nelle membra.
Nella vera
meditazione si viene a contatto con la Realtà, e come lascia il segno il
contatto con il fuoco, così questo contatto lascia la sua impronta. Che cosa ne
risulta? Gli ostacoli svaniscono, sono consumati dal vairagya o
dissolti dalla devozione al Divino. Le cose di questo mondo appaiono insipide e
poco interessanti, del tutto estranee; la conversazione mondana perde il suo
fascino, diviene priva d’interesse e, in una fase ulteriore, perfino penosa.
Quando vengono persi o danneggiati i possessi terreni, la vittima si sente
turbata, il che evidenzia la stretta mortale che gli oggetti dei sensi
esercitano sulle menti degli uomini. Questo è ciò che si chiama granthi – il
nodo che costituisce il senso dell’ego. Per mezzo della meditazione, del japa
e di altre pratiche spirituali, che variano secondo la linea d’approccio di
ciascun individuo, questi nodi vengono sciolti; si sviluppa la discriminazione
e si perviene a discernere la vera natura del mondo della percezione dei sensi.
All’inizio si era irretiti nel mondo e ci si dibatteva impotenti nella sua rete
ma, quando ci si disincaglia da esso e si attraversano gradualmente le varie
fasi dell’aprirsi sempre più alla Luce, si arriva a vedere che tutto è
contenuto nel tutto, che c’è solo un Unico Sé, il Signore di tutto, ovvero che
tutti sono solo servitori dell’Unico Maestro. La forma che prende questa
realizzazione dipende dal proprio orientamento. In virtù della percezione
diretta si sa di esistere e che quindi esistono tutti gli altri; e ancora, che
c’è l’Uno e solo l’Uno, e che nulla viene e va, eppure viene e va. Non c’è modo
d’esprimere tutto questo a parole. Nella misura in cui ci s’allontana dal mondo
dei sensi, ci s’avvicina sempre più a Dio.
Quando si perviene
alla vera meditazione, la posizione scelta non rappresenta più un ostacolo né
una fonte di piacere; in altre parole, non ha alcuna importanza in quale
posizione particolare uno stia. Che si sieda dritti o storti, la posizione
giusta si formerà da sé, il corpo assumerà la posizione appropriata. Ci sono
dei casi in cui si è completamente indipendenti dalla posizione fisica. In
qualunque posa il corpo possa trovarsi, la meditazione avviene senza sforzo;
anche se non c’è dubbio che se si assume una posizione particolare, come ad
esempio padmasana (la posizione del loto) o siddhasana (la
posizione del perfetto), si perviene ad uno stato in cui non può esserci alcuna
interruzione alla propria unione con l’Essere Supremo.
*) – Ja hoye jay: questa frase concisa è pronunciata continuamente da Mataji. Essa è piena di significato; in effetti implica tutta una filosofia di vita. Significa che qualunque cosa succeda è secondo la volontà divina, e perciò ugualmente benvenuta a Mataji. Esprime anche la completa mancanza di desiderio personale, l’abbandono senza riserve alla Provvidenza, e la convinzione che nulla possa accadere che non sia fondamentalmente diretta dal Creatore.
Benares, 11 agosto 1948
Domanda: L’altro
giorno, parlando delle visioni e delle esperienze che si hanno durante la
meditazione, avete detto che non sono vere visioni ma semplici ‘contatti’.
Mataji: Sì, dal
livello di chi può parlare di ‘contatto’ è così, vale a dire, non siete
stati cambiati dall’esperienza; tuttavia vi attrae, e potete esprimere il
sentimento in parole, il che implica che traete ancora piacere dagli oggetti
dei sensi. È dunque un mero contatto. Se ad essa fosse seguita una
trasformazione, sareste incapaci di sentire i piaceri del mondo in questo modo.
Come può esservi godimento o piacere in uno stato d’essere trasformato?
Domanda: Atman e
Brahman sono differenti solo per l’enunciato di una limitazione. La visione
che viene dalla costante meditazione su ‘Io sono Saccidananda’ è Atma darshana
(visione del Sé). Considerato che non può esservi visione del Brahman, deve
trattarsi di una visione parziale e quindi limitata del Brahman. È esatto?
Mataji: Se pensate
che nel Brahman vi siano parti, potete dire ‘parziale’; ma possono
esserci parti nell’Assoluto? Parlate di ‘contatti’ perché pensate e sentite in
termini di parti; ma Colui che È, è un tutt’uno.
Domanda: Ci sono
gradi (krama) nella conoscenza?
Mataji: No. Come
potrebbero esservi gradi nella conoscenza del Sé (svarupa jnana)? La
conoscenza del Sé è una. Il procedere di passo in passo si riferisce allo
stadio in cui si distolgono gli occhi dagli oggetti dei sensi e si rivolge lo
sguardo all’interno, verso l’Eterno. Non si è ancora realizzato Dio, ma
percorrere il sentiero spirituale è diventato fonte di gioia. Lungo questa
linea ci sono dharana, dhyana e samadhi. Le esperienze in
ciascuno di questi stadi sono infinite. Dove c’è la mente c’è esperienza. Le
esperienze nei diversi stadi sono dovute alle varie forme di desiderio per la
Conoscenza Suprema. La mente, che in precedenza era concentrata sulle cose
materiali, e deducendo che non si potesse provare l’esistenza di Dio era
pervenuta a negarLo, adesso si volge nella direzione opposta. Non è perciò
naturale che la Luce appaia in essa in conformità allo stato raggiunto? Questi
stati sono noti con vari nomi. Quando cessano le visioni che si hanno in
meditazione? Quando il Sé si rivela (svayam prakasha).
Domanda:
Sopravvive il corpo quando si dissolve l’ego-mente (manonasha)?
Mataji: A volte
viene posta la domanda: “Da dove insegna il Maestro del mondo? Dallo stato d’ajnana?”.
Se fosse così la
mente non sarebbe stata dissolta, la triplice differenziazione (triputi)
di conoscitore, conoscenza e conosciuto non avrebbe potuto fondersi. Cosa
potrebbe darvi allora? Dove potrebbe condurvi? C’è però uno stadio in cui
questa domanda non si pone. Il corpo è l’ostacolo alla Conoscenza Suprema?
Ci si chiede anche
se il corpo esista oppure no. Ad un certo livello questo problema non può porsi.
Lo stato in cui nasce questa domanda non è quello del puro Essere, ma si crede
che la domanda si possa porre e che vi si possa anche rispondere. La risposta
però sta laddove non vi è né domandare né rispondere, dove non ci sono ‘altri’
né divisione. Come ci si può dunque avvicinare al Maestro supremo e riceverne
l’istruzione? Allo stesso modo, gli insegnamenti degli shastra e delle
altre scritture sono diventati completamente inutili. Questo è un aspetto del
problema.
Parlare di gradi (krama)
della conoscenza, come se si stesse studiando per una laurea, è presentare
il problema dal punto di vista della sadhana. Laddove il Sè è rivelato,
questo problema non si pone; tuttavia, dove c’è sforzo personale, come nella
pratica della meditazione o della contemplazione, esso porterà sicuramente
frutto. Ma nello stato d’illuminazione non può esservi realizzazione o
non-realizzazione; sebbene sia lì non c’è e, malgrado non ci sia, tuttavia c’è
– proprio così.
Alcuni dicono che
rimane un ultimo residuo della mente. Ad un certo livello è così. C’è però uno
stadio ulteriore in cui il problema se rimane o meno una traccia della mente
non si pone. Se ogni cosa può essere bruciata, non può essere consumato anche
quest’ultimo residuo? Non c’è questione di ‘sì’ o ‘no’: ciò che è È.
Meditazione e contemplazione sono necessarie perché si è sul livello di
accettazione e rifiuto, e lo scopo è proprio quello di trascendere accettazione
e rifiuto. Volete un sostegno, vero? Il sostegno che vi può portare oltre,
laddove non c’è più questione di sostegno o mancanza di sostegno, è il sostegno
senza sostegno. Ciò che si può esprimere con le parole può essere certamente
ottenuto; ma Egli è Quello al di là delle parole.
Interlocutore: Ho
letto che i Maestri devono discendere per poter agire nel mondo. Questo sembra
implicare che nonostante siano stabiliti nel puro Essere, per operare debbano
ricorrere all’aiuto della mente. Così come un re, quando recita la parte di uno
spazzino, deve in quel momento immaginare di essere uno spazzino.
Mataji:
Nell’assumere una parte non c’è questione di ascendere o discendere. Dimorando
nel Suo essere essenziale (svarupa), Egli interpreta vari ruoli;
ma quando parlate di ascendere e discendere, dov’è lo stato di puro essere? Può
esserci dualità in quello stato? Brahman è Uno senza secondo, anche se
capisco che dal vostro punto di vista la cosa sembri come la ponete.
Interlocutore: Lo
avete spiegato dal livello dell’ajnana; ora vogliate parlare dal livello
dell’illuminato (jnani)!
Mataji: (sorridendo)
Accetto anche quanto dite ora. Qui (indicando se stessa) non si
rifiuta nulla. Sia lo stato dell’Illuminazione sia quello dell’ignoranza è
giusto. Il fatto è che avete dei dubbi; ma qui non ci sono dubbi. Qualunque
cosa diciate – e da qualsiasi livello – è Lui, Lui e solo Lui.
Domanda: Se è
così, a che serve porvi altre domande?
Mataji: Ciò che è È.
È naturale che sorgano dubbi, ma la cosa meravigliosa è che dov’è Quello non
c’è nemmeno spazio per assumere diverse posizioni. Certo, i problemi si
discutono per dissolvere i dubbi, perciò è utile discutere. Chi può dire quando
il velo si solleverà dai vostri occhi? Lo scopo della discussione è rimuovere
la visione consueta, la visione che non è affatto visione, perché è solo
temporanea. La vera visione è quella in cui non ci sono più chi vede e la cosa
vista. Essa è senza occhi – non può essere vista con questi occhi, ma con gli
occhi della saggezza. Nella visione senza occhi non c’è posto per la
‘di-visione’.
Qui (indicando se
stessa) non c’è questione di dare e prendere né di servire. Queste cose
esistono al vostro livello; è da lì che sorgono questi argomenti.
Quella sera fu fatta
la seguente affermazione:
Grazie
all’osservanza del silenzio si ottiene la conoscenza suprema (jnana).
Mataji: Come? Perché
è stata usata la parola ‘grazie a’?
Un devoto: Il
silenzio è di per sé saggezza, il mezzo è di per sé il fine.
Un altro: Per
silenzio dobbiamo intendere il placarsi dei cinque sensi.
Mataji: Si, ma
perché dire ‘grazie a’?
Un devoto: Il
significato di ‘grazie a’ è completa ed esclusiva concentrazione sul Sé.
Mataji: Quando ci si
astiene dal parlare, l’attività della mente continua ancora; nondimeno tale
silenzio aiuta a controllare la mente. Quando la mente s’immerge più
profondamente si rilassa, e quindi si percepisce che Colui che provvede a tutto
aggiusterà le cose. Se la mente è agitata dai pensieri delle cose del mondo si
perde il beneficio che si dovrebbe guadagnare astenendosi dal parlare. Si
potrebbe, per esempio, rimanere in silenzio nel momento della collera che però,
alla fine, è destinata ad esplodere. Quando la mente è centrata in Dio,
continua ad avanzare costantemente e nel contempo emerge la purezza di corpo e
mente. Lasciare che il pensiero si soffermi sugli oggetti dei sensi è uno
spreco d’energia. Quando la mente è così occupata e non osserva il silenzio,
trova liberazione nel parlare. Osservare il silenzio in questi casi potrebbe
sottoporre i sensi ad una tensione eccessiva e causare facilmente qualche
malattia. Quando però la mente è rivolta all’interno non solo non c’è pericolo
per la salute, ma – ancor più – soffermandosi costantemente sul pensiero di Dio
si scioglieranno tutti i nodi (granthi) che costituiscono l’ego,
e sarà realizzato ciò che dev’essere realizzato.
Osservare il
silenzio significa mantenere la mente concentrata su di Lui; dapprima si sente
l’impulso di parlare, ma poi svanisce ogni inclinazione o avversione. È come
l’ape che accumula il miele: tutto quello di cui si ha bisogno viene raccolto
naturalmente. Quando c’è un’unione sempre più intima con Lui, ciò che è
necessario diventa automaticamente disponibile e, per così dire, si presenta da
sé.
Come si mantiene in
vita il corpo, quando ci si astiene completamente dal parlare e anche dal
comunicare con segni o gesti (kasta maunam)? Ogni cosa si fonde,
e la persona in silenzio osserva come una specie di spettatore. Nella misura in
cui avanza verso l’unione, noterà che gli ostacoli scompaiono e tutto ciò che
è necessario avviene da sé. Una cosa è se tutto accade da sé, e tutta un’altra
cosa fare preparazioni con i propri sforzi. Vero silenzio significa che la
mente non ha di fatto alcun luogo dove andare. Alla fine, che la mente esista
oppure no, che si parli oppure no, non fa alcuna differenza.
Non è corretto dire:
“Si è realizzato grazie al silenzio”, perché la conoscenza suprema non viene
‘grazie a’ qualche cosa; la conoscenza suprema rivela se stessa. Per
distruggere il ‘velo’ ci sono appropriate discipline e pratiche spirituali.
Domanda: Che dite
del sadhu silenzioso di Navadvip?*
Mataji: Egli aveva
acquietato il corpo con la pratica, ma la sua mente non era stata trasformata;
era un caso di mero controllo fisico. Se la sua mente fosse stata acquietata,
quel tipo di comportamento mondano sarebbe stato impossibile; comunque, anche
quella pratica non è del tutto inutile, perché produce qualche risultato. Solo
che non si trova Quello, che è il vero bisogno.
*) – Molti anni fa, quando Mataji andò a Navadvip con Bholanath (suo marito), c’era un sadhu che attirava moltissima attenzione. Era solito sedere tutto il giorno nella posizione del loto, così perfettamente immobile che era difficile capire se era un uomo vivo o una statua. Tutti lo rispettavano e credevano si trattasse di un grande santo in uno stato di profondo samadhi. Mataji non fece commenti al riguardo. Stando nella stanza accanto al sadhu, ella scoprì presto che durante la notte questi faceva il bagno, mangiava e dormiva segretamente. A poco a poco il sadhu confidò a Mataji d’assumere quella posa per ricavarne denaro. Grazie all’influenza benevola di Mataji, egli abbandonò quella vita basata sull’inganno.
Benares, 27 settembre 1948
Domanda: Quando
la mente è immersa in samadhi, si fa o no l’esperienza del sovrannaturale
(camatkara)? Se sì, implica che ci si è allontanati dall’oggetto della propria
contemplazione? Qual è la vera causa di ciò?
Mataji: Samadhi
significa samadhana (soluzione, compimento).
Interlocutore: La
soluzione suppone una domanda, mentre il samadhi è uno stato in sé.
Mataji: Questo corpo
non usa il linguaggio degli shastra; quando parla si riferisce alle cose
comuni, come l’acqua, la terra, l’aria e così via. Chi ha intelligenza è in
grado di capire questo linguaggio spezzettato e incompleto. Samadhana significa
perfetta risoluzione di tutto: della forma e del senza-forma, dell’essere
manifesto e del non-manifesto. La soluzione di un problema è una cosa, ma c’è
un altro tipo di risoluzione in cui non può presentarsi la possibilità di
problemi e della loro soluzione: è chiamato samadhi.
Interlocutore:
Proprio così; ci sono dunque due tipi di samadhi: savikalpa e nirvikalpa.
Mataji: Il primo
significa risoluzione dell’esistenza cosmica nella pura e unica Esistenza (Satta).
Riguardo al secondo, Là non c’è neppure una cosa che si possa chiamare
‘Esistenza’.
Interlocutore:
Neppure una cosa che si possa chiamare ‘Esistenza? Allora cos’è?
Mataji: Fino a
quando permangono pensieri e idee (sankalpa e vikalpa), non
può esserci neppure il savikalpa samadhi. Savikalpa samadhi significa
consapevolezza dell’Esistenza. Quando però la questione dell’Esistenza non si
pone – quando non è possibile differenziare ‘ciò che è’ da ‘ciò che non è’ – si
può esprimere qualcosa con le parole, per quanto poco? Questo è il nirvikalpa
samadhi. Dov’è qui lo spazio per il sovrannaturale?
Interlocutore: Il
sovrannaturale, in altre parole ciò che è al di là di questo mondo (aloukika), non è alla portata
dell’intelligenza comune; tuttavia può essere compreso dalla mente. Se si
accetta la mente come dato di fatto, le sue stesse creazioni sono gli oggetti
su cui pensa. C’è, naturalmente, qualcosa di separato dalla mente – Cit – che
si considera completo in se stesso. Qualunque visione appaia alla mente in
contemplazione, eccetto Quello, è ciò che in genere viene chiamato camatkara.
Mataji: Chi
percepisce il camatkara?
Interlocutore: La
mente.
Mataji: Se non ci
fosse la mente, il sovrannaturale non si potrebbe dunque percepire; di
conseguenza, come si possono avere visioni in nirvikalpa samadhi?
Interlocutore: La
ragione mi dice che la mente dev’essere presente in entrambi i tipi di samadhi.
Secondo gli shastra, nel nirvikalpa samadhi la mente cessa d’esistere. Certo,
la mente grossolana non perdura, ma bisogna ammettere che la mente sottile
rimane in uno stato latente; altrimenti come si potrebbe parlare in seguito
dell’esperienza? In altre parole, l’esperienza viene o non viene ricordata
quando finisce? Se sì, bisogna ammettere senza dubbio che la mente sottile
esiste ancora.
Mataji: Alcuni
affermano che una minuscola particella* della mente rimane; altrimenti come
potrebbe esserci la manifestazione del corpo? Questo corpo dice anche che se
il fuoco dell’Illuminazione può consumare tutto, non deve bruciare anche questo
piccolo residuo? Quando c’è esperienza, la mente deve necessariamente esistere;
non vi può essere camatkara senza la mente.
Interlocutore: Se
cessa d’esistere quel piccolo residuo della mente, come può continuare il
corpo? In quale condizione scompare l’ultima traccia della mente? Mentre il
prarabdha è ancora attivo o quando è stato esaurito?
Mataji: Qual è la
vostra opinione, pitaji? Sì, alcuni sostengono che in samadhi l’ego-mente
non esiste. Questo corpo però dice che se tutto viene bruciato dalla conoscenza
suprema, non dovrebbe avere il potere di consumare anche il prarabdha?
Interlocutore: Se
il prarabdha è cancellato, come può sopravvivere il corpo?
Mataji: Volete dire
che fino a quando perdura il corpo deve rimanere necessariamente del prarabdha,
e che dunque anche la mente deve sopravvivere? Va bene. Se accettate il
corpo come realtà, nel senso comune del termine, dovrete indubbiamente
ammettere l’esistenza del prarabdha e, dal vostro punto di vista, anche
l’esistenza della mente. ‘Corpo’ significa cambiamento perpetuo, ciò che
s’allontana sempre**; ma può ancora porsi la questione del corpo nello stato in
cui la morte può considerarsi morta?
Interlocutore:
Quando si hanno visioni del sovrannaturale, significa che ci si è allontanati
dallo stato supremo?
Mataji: Un volta
conseguita la Realtà ultima, non può esservi questione né del sovrannaturale né
di deviare o non deviare dalla Realtà. Che cosa s’intende con videhamukti?
Interlocutore:
Non essere costretti ad assumere un altro corpo dopo aver lasciato questo è
chiamato videha-mukti.
Mataji: Molto bene;
il corpo è dunque un ostacolo, e quindi deve scomparire?
Interlocutore:
No, lo scopo del nirvikalpa samadhi è conseguire il potere d’impartire la vera
conoscenza ai ricercatori (e per questo si richiede un corpo).
Mataji: Anche il samadhi
va considerato uno stato. Ogni cosa è possibile secondo il particolare
stadio di sviluppo di una persona. Ciascuno acquisirà sicuramente la conoscenza
relativa allo stato raggiunto.
Interlocutore: Se
è così, l’esperienza del sovrannaturale indica una deviazione dall’oggetto di
contemplazione.
Mataji: Quando
l’oggetto di contemplazione si rivela da sé, vale a dire quando Quello si
rivela nella forma dell’oggetto di contemplazione, com’è possibile deviare da
esso?
Domanda:
L’esperienza del sovrannaturale non ha radice nel desiderio?
Mataji: Si manifesta
solo ciò di cui è stato piantato il seme; altrimenti, come potrebbe
manifestarsi?
Domanda:
Prendiamo le onde di un lago; non sono la natura dell’acqua, ma sono create
dal vento. Com’è possibile non avere desideri?
Mataji: Fino a
quando il seme non è stato sterilizzato è destinato a germogliare. Qual è
allora, la vostra opinione? Quando sopravviene la vera conoscenza del Sé il
corpo sopravvive oppure no?
Interlocutore:
Penso che sopravviva.
Mataji: Sì – come
dicono alcuni, sostenuto dalla piccola parte di mente che è stata preservata?
Domanda: Un
maestro spirituale insegna dallo stato di jnana o è ancora nello stato
d’ajnana?
Mataji: Non sarebbe
giusto presumere lo stato d’ignoranza della Realtà quando lo scopo
dell’insegnamento è la realizzazione del Sé.
Interlocutore:
Per questo suppongo che il karma non sia stato completamente esaurito.
Mataji: Come un
ventilatore che continua a girare anche dopo che è stata tolta la corrente?
Domanda: In
questo esempio la corrente elettrica viene tolta completamente. Forse questo
vuol dire che allo stesso modo viene distrutta interamente anche l’ignoranza?
Mataji: La
connessione è interrotta. Ciò che era già cominciato ed è in atto è chiamato prarabdha.
Interlocutore: Se
è così, può il prarabdha portare frutto oppure no? Penso che la sua distruzione
non sia confermata dai fatti.
Mataji:
L’insegnamento del saggio illuminato (jnani) si riferisce alla verità
come si rivela prima che il suo prarabdha sia esaurito oppure alla
verità che sta al di là?
Interlocutore:
No, non alla verità che sta al di là. L’istruzione sulla pura verità, non
contaminata dal prarabdha, è impartita da un avatar. L’insegnamento del jnani è
limitato dal suo prarabdha.
Mataji: Laddove la
conoscenza si rivela da sé, la sua rivelazione dipende dal karma?
Interlocutore: Ci
sono due tipi di conoscenza: svarupa jnana (conoscenza del Sé) e vritti jnana
(conoscenza mentale acquisita). Il secondo tipo di conoscenza, relativo al
jnani, gli permette di raccogliere i frutti del suo prarabdha.
Mataji: Intendete
dire che come un bambino accresce gradualmente la sua conoscenza con lo studio
continuo, anche in questo caso si ha un’accumulazione progressiva di
conoscenza? Questo però non può essere lo stato di un jnani!
Interlocutore:
Svarupa jnana si rivela da sé, mentre vritti jnana è la conoscenza degli
oggetti. Svarupa jnana non rende jnani. Chi possiede vritti jnana è chiamato
jnani, perché la conoscenza del Sé è comune a tutti.
Mataji: ‘Conoscenza
del Sé’ significa che si è stabiliti in uno stato particolare?
Interlocutore: Si
è stabiliti nel Sé.
Mataji: Giusto, pitaji.
Come dite voi, tutti, senza eccezioni, sono radicati nella conoscenza del
Sé; invero, è così.
Interlocutore:
Non tutti sono consapevoli di questa conoscenza. Solo quelli che hanno
acquisito vritti jnana possono essere chiamati jnani, poiché sono in grado di
guidare un aspirante secondo la sua struttura mentale.
Mataji: Sì, ma cosa
ha a che fare questo con lo stato in cui il Sé si rivela costantemente in tutta
la sua gloria? Come dite voi, è stabilito nel vritti jnana chi ha
acquisito la conoscenza con uno sviluppo graduale ed è stato progressivamente
illuminato.
Le parole, le
argomentazioni, il linguaggio e cose del genere appartengono alla mente; mentre
nello stato che abbiamo appena riferito, non c’è posto per il linguaggio.
Questo corpo rispetta qualunque cosa si dica, perché il punto di vista di ogni
persona dipende dalla scala particolare per la quale ascende. Qualunque idea si
sostenga – sia di alto o basso livello – per quanto riguarda questo corpo fa lo
stesso. Per tale motivo, sia che qualcuno ritenga che il corpo possa o non
possa esistere senza prarabdha o che avanzi una teoria da un qualsiasi
punto di vista, ogni cosa è giusta al suo livello; ma al di là delle parole e
delle espressioni – dove c’è manifestazione e non manifestazione, durata e non
durata, spazio e assenza di spazio – là nulla è valido. Non si può neppure
parlare dell’essenza delle cose di questo mondo; ma l’essenza dell’Essere
trascendentale è qualcosa di molto più lontano.
C’è poi anche quel
che è noto come ‘fusione’; ma uno yogi può riuscire a staccarsi di nuovo
da quello in cui dice d’essersi fuso. Anche questa è una possibilità che avete
indicato, non è vero? Ma nello stato di cui parla questo corpo non è così – e
anche dire ‘non è così’ non lo esprime. Con il ragionamento e la discriminazione
si può giungere alla conclusione che, fino a quando continua l’esistenza
fisica, rimane una piccola parte della mente; ma questo corpo parla di uno
stato in cui non c’è neppure la possibilità di una traccia della mente.
Domanda: Allora
il corpo continua ad esistere oppure no?
Mataji: Se il corpo
fosse un ostacolo quello stato particolare semplicemente non potrebbe esistere.
In quella condizione la questione se il corpo rimane o meno non può sorgere.
Domanda: Ci può
essere domanda e risposta in quello stato?
Mataji: Sì, può
esserci – se c’è l’idea del corpo. Ci sono domande e risposte per quelli che
pensano che ci siano discepoli e guru.
Interlocutore:
Allora parlare di guru, discepoli e così via è completamente senza senso.
Mataji: Il progresso
del discepolo continua fino al livello raggiunto dal maestro. Se il maestro è
nello stato d’ajnana, e la domanda è posta da chi è ugualmente
nell’ignoranza, come ci si può aspettare la rivelazione della vera conoscenza?
Nondimeno un discorso che intenda
spiegare la realizzazione del Sé sarà ovviamente utile e benefico. Molto
bene, pitaji, ditemi, nel caso di un precettore che è un maestro del
mondo, non è naturale che debbano esserci domande e risposte per ottenere la
realizzazione del Sé? È e sarà sempre così? È una menzogna? Bisogna considerare
qualcos’altro: dite, chi è che risponde e a chi? Che le domande vengano poste e
ricevano una risposta è semplicemente un’idea del ricercatore al suo livello.
Potete considerare chi dà le risposte un individuo, solo perché risponde? A chi
risponde? Chi risponde, e qual è la risposta? Chi è chi, in quello stato di
puro Essere? Il posto del vritti jnana è dove non c’è la rivelazione del
Sé. Questo è difficile da accettare, finché si tratta ancora d’accettare e
rifiutare. Come può esservi discussione e conversazione nel livello in cui non
può sorgere la questione d’accettare o rifiutare?
Pitaji, avete chiesto: “Parlatemi della vostra
esperienza”, ma ciò implicherebbe che ci sia ancora chi ha fatto l’esperienza.
Qui ciò è impossibile; inoltre, la questione della trasmissione di potere dal
guru al discepolo è ugualmente inesistente. Se non c’è il corpo, non può
esserci neanche questa questione. Non c’è questione di un corpo fisico o di
qualunque altro corpo. Ciò che è al di là non può essere espresso con le parole
in una lingua. Tutto ciò che si può esprimere con le parole o il linguaggio è
una creazione della mente. Pitaji, per quanto riguarda il detto: “C’è
solo Brahman senza un secondo”, nel Sé non c’è affatto possibilità di un
‘secondo’. L’idea del ‘due’ è stata prodotta dall’operazione della ragione;
proprio come dite: “Egli cammina senza piedi e vede senza occhi”.
Questo corpo sostiene
che qualunque cosa si dica dal piano della ragione – con l’idea che il corpo
esista, dal punto di vista del discepolo – può essere sostenuta a livello di
ragionamento, perché la propria visione è condizionata dagli occhiali che si
usano. Questo corpo afferma che qualunque teoria si possa sostenere è basata
sul ragionamento, che presuppone l’esistenza di un residuo della mente e del prarabdha;
ma laddove Quello è rivelato, la cosa è diversa, là è impossibile
discriminare o speculare. Oltre la ragione, al di là dei punti di vista, c’è
uno stato in cui nessuno di questi può sussistere. Pitaji, in verità in
Quello non c’è posto per le parole, il linguaggio o la discriminazione di
qualsiasi genere. Che si dica ‘non c’è’ oppure ‘c’è’ – anche queste sono semplicemente
parole; parole che fluttuano sulla superficie.***
Per questo si dice
che là non hanno posto le parole, il linguaggio, le affermazioni di qualsiasi
tipo. Questa è la verità, pitaji; comprendete?
Mataji aggiunse: Non avete ricevuto una risposta precisa alle vostre domande. Da quanto è stato detto, dovete prendere ciò che può essere afferrato dall’intelletto.
*) – Il termine tecnico è ‘avidya lesha’ (un piccolo residuo d’ignoranza).
**) – Sharira = corpo. Sora = allontanarsi.
***) – Bhasha significa ‘linguaggio’ ed anche (pronunciato diversamente) ‘fluttuare’.
Benares, 12 agosto 1948
Domanda: Quali
sono i benefici che si possono trarre dall’hatha yoga, quali gli svantaggi?
Mataji: Che
significa ‘hatha’? Fare qualcosa con forza. ‘Essere’ è una cosa e ‘fare’
è un’altra cosa. Quando c’è ‘essere’, c’è la manifestazione del prana in
un determinato centro del corpo. D’altra parte, se si pratica l’hatha yoga come
un semplice esercizio fisico, la mente non sarà minimamente trasformata. Con
l’esercizio fisico si sviluppa la buona salute del corpo. Si sente spesso
parlare di casi in cui l’abbandono della pratica delle posizioni yoga e simili
causa disordini fisici. Il corpo s’indebolisce per mancanza del giusto
nutrimento, così anche la mente ha bisogno del cibo adatto. Quando la mente
riceve il giusto sostentamento, l’uomo avanza verso Dio; ma curando solo il
nutrimento del corpo si accresce l’attaccamento al mondo. La mera ginnastica è
nutrimento per il corpo.
Ora, riguardo al
‘fare’, lo sforzo che si sostiene conduce all’essere senza sforzo; in altre
parole, viene finalmente trasceso ciò che si è ottenuto con la pratica
costante; alla fine tutto viene spontaneo. Fino a quando non accade questo, non
è possibile comprendere l’utilità dell’hatha yoga. Quando l’abilità
fisica che deriva dall’hatha yoga è usata per coadiuvare lo sforzo
spirituale, non è sprecata; altrimenti non è yoga, ma bhoga (godimento).
Il sentiero per l’Infinito sta nell’essere senza sforzo. Fino a quando l’hatha
yoga non mira all’Eterno, non è altro che ginnastica. Se nel corso normale
della pratica non s’avverte il Suo contatto, lo yoga è stato
infruttuoso.
S’incontrano persone
che dopo aver praticato ogni sorta d’esercizi yoga come neti, dhauti e cose
del genere, si sono ammalate seriamente. A Nainital ho incontrato di recente un
giovane che si è rovinato completamente la salute praticando l’hatha yoga. Aveva
una diarrea cronica che non accennava a diminuire. Lui e alcuni amici avevano
deciso di diventare adepti di hatha yoga e aprire una scuola in cui
raggiungere l’unione con Dio mediante questa disciplina, e si sono ammalati
uno dopo l’altro.
Un insegnante
esperto che capisce ogni cambiamento nel movimento del prana del
discepolo, accelererà o rallenterà il processo, secondo il caso – come un
timoniere che dirige un battello tenendo sempre fermo il timone. Senza tale
direzione l’hatha yoga non è benefico. Chi guida deve avere una conoscenza
diretta di tutto ciò che può capitare in qualunque stadio, e vederlo con la
perfetta prontezza della percezione diretta. Non è infatti lui il medico di
quelli che sono sul sentiero? Senza l’aiuto di un tale dottore, c’è il rischio
di farsi male.
Tutto diventa dolce
quando si sente la benedizione del Suo contatto. È come quando si fa il bagno
in un fiume, e dapprima bisogna nuotare con le proprie forze; ma una volta
presi dalla corrente, che si sia dei buoni nuotatori o meno, si è semplicemente
portati via. Per questo è pericoloso se non si è sperimentato il Suo
‘contatto’. Bisogna entrare nell’essenza della propria vera natura. La sua
rivelazione, agendo come un colpo di fulmine, vi attirerà subito a sé, in
maniera irresistibile; arriverà il momento in cui non sarà necessaria alcuna
azione. Fino a quando non è stato stabilito questo contatto, dedicate a Dio
qualunque inclinazione o avversione, dedicatevi al servizio, alla meditazione,
alla contemplazione – a qualunque cosa del genere.
Di solito fate i
vostri riti quotidiani nella maniera abituale. Se sentite il desiderio di praticare
del japa o della meditazione in più, vuol dire che avete avuto un
barlume, per quanto fievole, e che quindi c’è speranza che l’essenza della
vostra vera natura possa gradualmente emergere. In questo stato c’è ancora il
senso dell’io (aham), ma è rivolto all’Eterno, è intento ad
unirsi a Lui; mentre le azioni fatte per avere fama o per distinguersi
appartengono all’ego (ahamkara) e sono dunque ostacoli, impedimenti.
Che pratichiate l’hatha
yoga o il raja yoga o qualsiasi altro yoga, può essere
dannoso solo se manca la pura aspirazione spirituale. Quando fate asana e
cose simili, se avete trovato accesso al ritmo della natura vedrete che ogni
cosa procederà in maniera dolce e spontanea. Da quali segni potrete percepirlo?
C’è una sensazione di gioco, una gioia profonda, e il ricordo costante
dell’Uno. Sentirete che non è il prodotto della pratica delle cose del mondo.
Quanto è stato detto è quello che può rivelarsi solo spontaneamente, da se
stesso. Ecco perché c’è il ricordo costante dell’Uno: la vera natura dell’uomo
scorre unicamente verso Dio.
Altre volte ancora,
quando siederete in meditazione vedrete che recaka, puraka o il kumbhaka
avvengono senza sforzo. Quando comincerà il movimento della vostra vera
natura, poiché è diretto esclusivamente verso Dio, si scioglieranno i nodi del
cuore. Se durante la meditazione noterete degli asana perfetti che si
formano da soli o che la spina dorsale diviene spontaneamente eretta, sappiate
che la corrente del vostro prana è volta verso l’Eterno; altrimenti, quando sarete
impegnati a fare japa, il giusto flusso non verrà, e potrebbe
cominciare a dolervi la schiena. Anche questo tipo di japa non è privo
di effetti, sebbene non si faccia esperienza della sua azione specifica. In
altre parole, la mente vuole ma il corpo non risponde, e pertanto non avrete la
gioia inebriante che viene dal profumo della Presenza Divina.
Lasciar dimorare la
mente sugli oggetti dei sensi accresce ulteriormente l’attaccamento ad essi.
Quando si desta l’intenso interesse per la ricerca suprema si dedica sempre più
tempo e attenzione al pensiero religioso, alla filosofia religiosa, al ricordo
di Dio immanente in tutta la creazione, fino a quando non si scioglie ogni
singolo nodo. Si è presi allora da un solo desiderio: “Come posso trovarLo?”. Come
risultato, il ritmo del corpo e della mente diventerà armonioso, calmo e
sereno.
Alcuni di voi hanno
il desiderio di praticare asana e simili come esercizi spirituali. Se in
questo non vi è desiderio di mettersi in mostra, sarà facile entrare nel ritmo
della vostra vera natura. Se invece la mente è asservita al corpo, questi
esercizi saranno una mera ginnastica. Succede che gli aspiranti siano condotti
nella direzione verso cui sono destinati ad andare, sebbene all’inizio non ne
siano coscienti; ma anche se lo fossero non sarebbero in grado di resistere.
Supponete che una persona faccia il bagno nel mare e decida di nuotare davanti
a tutti: chiaramente dovrà guardare indietro. Ma per chi come unica e sola meta
ha lo stesso oceano, non c’è nessuno per il quale voltarsi o preoccuparsi;
allora, quel che dev’essere sarà. Abbandonatevi all’onda e sarete presi dalla
corrente; dopo esservi immersi nel mare, non ritornerete più. Lo stesso Eterno
è l’onda che bagna la riva per portarvi via. Chi può abbandonarsi così sarà
accettato da Lui. Se però la vostra attenzione rimane diretta alla riva, non
potrete procedere – dopo esservi bagnati tornerete a casa. Se il vostro fine è
il Supremo, la Causa Prima, sarete guidati dal movimento della vostra vera
natura. Ci sono onde che portano avanti e altre che spingono indietro. Quelli
che possono abbandonarsi, saranno presi da Lui. Sotto forma di onda, Lui tende
la mano e vi chiama: vieni, Vieni, VIENI!
Domanda: Come si
può trarre beneficio spirituale dall’azione?
Mataji: Agendo per
amore dell’azione, impegnandosi nel karma yoga. Fino a quando rimane
nascosto un desiderio di distinguersi è karma bhoga (agire per la
propria soddisfazione). Si compie l’azione e se ne gode il frutto per il senso
di prestigio che procura; rinunciando al frutto, l’azione diviene karma
yoga.
Domanda: Com’è
possibile agire senza desiderio?
Mataji: Servendo con
la coscienza di servire l’Essere Supremo in ognuno. Il desiderio di realizzare
Dio non è certo un desiderio comune: “Sono un Tuo strumento, degnaTi di agire
con questo Tuo strumento”. Considerando ogni manifestazione l’Essere Supremo,
si perviene alla comunione che conduce alla liberazione. Qualunque sia il
lavoro intrapreso, va fatto con tutto il proprio essere e pensando “Sei solo
Tu che agisci”, per impedire che s’insinuino afflizione, angoscia o dolore.
Un’altra cosa: se
non si continua nell’attitudine “Il lavoro non è stato fatto bene a causa della
mia imperfezione, avrei dovuto porre maggior cura in questo servizio”, bisogna
ritenere che il lavoro è stato fatto con negligenza. Abbiate il sentimento che
qualunque cosa accada è nelle Sue mani; voi siete solo uno strumento. Per
questo mettete il corpo, la mente e il cuore nel servizio che potete fare, e
per il resto considerate che quanto accade era destinato ad essere: “Ti sei
manifestato com’era stabilito, e così si è compiuto”.
Domanda: Anche
quando l’azione è spontanea, è ancora azione; ma se non c’è altro guru, come
possono essere chiariti i nostri dubbi?
Mataji: Ci sono due
tipi d’azione – anzi, un numero infinito di tipi. Questo richiede una
spiegazione. Quando comincia a formarsi un asana, esso parla come
facciamo voi ed io. In che modo? Quando si rivela lo scopo per cui si fa l’asana,
quando si consegue ciò che si può ottenere con una particolare posizione
yoga, quello si può considerare il suo linguaggio.
Se un malato si
muove troppo, s’affatica e gli manca il respiro. Il respiro di ognuno cambia
costantemente ritmo secondo il modo in cui ci si siede o ci si muove, solo che
non se ne è consapevoli. Chi ha il controllo del respiro può trasferirlo a
volontà a qualunque livello. All’inizio, chi pratica le posizioni yoga non sa
quale gamba incrociare prima e quale dopo, né se inalare o esalare nel farlo;
di conseguenza, quello che fa è in parte sbagliato. Perché? Quando volete
aprire qualcosa ma non sapete com’è fatta, potreste fare un danno. Quando un asana
si forma spontaneamente, noterete che le gambe si piegano e si allungano
nella maniera corretta e in armonia con il respiro. Quando asana e
respiro sono in perfetta armonia, ciò significa che il guru è al lavoro. Prima
ignoravate tutto della posizione, poi la comprendete chiaramente.
Nei termini della
mente: ci si osserva come un testimone, come un bambino, per così dire; si
sente che qualcuno è la causa di tutto ciò che si fa, e che nello stesso tempo
l’attività della mente si calma.
Quando le vibrazioni
del vostro corpo e del vostro prana raggiungeranno lo stadio in cui ci
sarà una grande abilità in tutto ciò che attiene la ricerca suprema, vi
troverete ad esprimere delle verità spirituali; tale azione in questo stadio
sarà spontanea. Quando vi stabilirete al livello di un rishi a cui sono
stati rivelati i mantra, vale a dire quando le vibrazioni del vostro
corpo e del vostro prana saranno concentrate su quel livello, dalle
vostre labbra usciranno parole corrispondenti a quel livello.
C’è uno stato in cui
potreste non avere coscienza né comprensione di quanto sta accadendo – come
quando, ad esempio, si forma inconsapevolmente una posizione yoga che ignorate.
Chi l’ha prodotta? Il guru interiore. Allo stesso modo, quando sorge
all’improvviso un mantra, v’appare chiaramente la soluzione del problema
e il significato interiore (tattva) del mantra nella sua
forma sovramentale (pratyaksha murti); in altre parole, assieme alla sua
essenza, si rivela la sua forma sottile. In quel momento capirete la vera
natura del guru interiore, che dimora all’interno e opera da lì. Non solo
saranno dissipati i vostri dubbi, ma capirete anche il significato esoterico
del mantra. Questo è il vero darshana, in cui ricevete una
risposta senza essere consapevoli di com’è arrivata.
In un altro tipo
d’esperienza si palesa il processo nascosto di quanto sta accadendo. Qui il mantra,
il tattva, il guru e l’Ishta si rivelano
simultaneamente; è un esempio della rivelazione ricevuta nella piena
consapevolezza di tutte le sue fasi e di tutti i suoi aspetti. Supponete che a
qualcuno impegnato a fare japa o meditazione sorga una domanda; in un lampo
ottiene la risposta e realizza: “L’ha detto il guru; quel che mi è giunto è
l’insegnamento del guru”.
Vi è una linea
d’approccio attraverso l’azione e un’altra attraverso la mente; per essere più
precisi, nel primo caso predomina l’azione e nel secondo la mente, sebbene la
concentrazione mentale sia necessaria in entrambi. Le due linee agiscono
insieme, solo che una predomina sull’altra; quando i mezzi sono gli asana prevale
l’azione, quando si usano i mantra prevale la mente.
Di nuovo, chi è che
mi guida dall’esterno? È sempre Lui, perché in verità non c’è nessun altro.
Le parole appena
dette sono frammenti presi qua e là, offerti affinché ciascuno possa prendere
ciò che gli è d’aiuto, e tanto quanto è in grado d’afferrare.
Benares, 13 agosto 1948
Mataji: Pitaji, che
cosa chiamate ‘nishkama karma’ (azione libera dal desiderio)?
Un devoto: Non
sembra possibile compiere un’azione priva di desiderio, vale a dire senza
attaccamento per il lavoro o per il suo frutto, ma solo per il senso del
dovere. Secondo gli shastra, solo chi ha raggiunto la perfetta realizzazione ne
è capace; fino a quando si è legati agli oggetti dei sensi è impossibile.
D’altro canto, ciò che si fa con spirito di dedizione a Dio può svilupparsi in
lavoro fatto senza desiderio.
Mataji: Con o senza
desiderio è ancora azione. Non si può rimanere in alcun modo senza azione fino
a quando non si manifesta lo stato del Puro Essere. Cercate di comprendere
anche quest’aspetto.
Quando v’abbandonate
al guru, dovete obbedire in maniera incondizionata ai suoi ordini. Nel farlo,
il vostro solo movente dev’essere quello di fare la volontà del guru. Di
conseguenza, se nel compiere il lavoro diventate sempre più ansiosi di fare del
vostro meglio, potete definire anche questo un desiderio nel senso comune del
termine? Impegnarvi con tutto il cuore per essere efficienti, al solo scopo di
compiere la volontà del guru, è certamente un buon desiderio.
Se per qualche
motivo dovesse sorgere anche il più piccolo risentimento, l’azione non si potrà
più definire priva d’attaccamento. Supponete che, dopo aver compiuto la maggior
parte di un lavoro, dobbiate abbandonarlo e che verso la fine qualcun altro lo
riprenda, lo completi e si prenda il merito d’aver portato a termine l’intera
opera. Se vi risentirete, anche solo minimamente, non si può dire che il lavoro
era stato fatto veramente con disinteresse. È ovvio che non era proprio libero
dal desiderio di riconoscimento.
Quando
v’abbandonerete al guru, questi potrà fare qualunque cosa, sottoporvi ad ogni
genere di prove, e tuttavia continuerete a considerarvi uno strumento nelle sue
mani. Allora avrete raggiunto uno stadio in cui, malgrado tutte le difficoltà,
persisterete nel vostro lavoro sapendo che questo è l’ordine del guru.
Ricordate, con questa attitudine diverrete più risoluti nella sopportazione,
nella pazienza e nella perseveranza, e la vostra energia e la vostra capacità
aumenteranno.
Nell’azione è
destinato ad esservi conflitto. Quando ci si libererà da questo conflitto?
Quando non ci si sentirà più offesi. Bisogna essere pronti ad obbedire a
qualsiasi ordine, anche nel bel mezzo del lavoro, sempre e in qualunque
circostanza. Immaginate d’avere fame e che nell’istante in cui sollevate la
mano per mettervi il cibo in bocca vi venga chiesto d’andare altrove. In quello
stesso istante dovete lasciare cadere con gioia il cibo che stavate per
mangiare, e obbedire alla chiamata. Una tale attitudine indica che si è
stabiliti in una felicità che non è di questo mondo. Quando ci si avvicina allo
stato in cui non c’è sforzo,* essere più o meno biasimati per una mancanza nel
proprio lavoro lascia completamente indifferenti. Solo allora si diventa uno
strumento nelle Sue mani. Il corpo si muove come uno strumento, lo si osserva
da spettatori, e si può valutare con quanta calma ed efficienza compia una
grande varietà di lavoro.
Il lavoro fatto
senza ego è pieno di bellezza, poiché non è motivato dal desiderio di
gratificazione personale. Finché non saranno sciolti i nodi che costituiscono
l’ego, vi sentirete feriti anche quando vorrete agire in maniera impersonale, e
questo produrrà un mutamento nell’espressione dei vostri occhi e del vostro
viso, e sarà palese in tutto il vostro comportamento. L’ardente preghiera: “Fa’
che il mio cuore sia libero dalla brama dei risultati”, è ancora desiderio di
un risultato; tuttavia, continuando ad aspirare all’azione disinteressata c’è
sempre speranza che vi si pervenga.
Nodo significa
resistenza. Fino a quando c’è l’ego, ci saranno degli scontri, anche quando si
cerca di fare un lavoro impersonale, poiché si è legati e dunque spinti in una
certa direzione.
Domanda: Non è
allora possibile agire senza una motivazione fin quando non si raggiunge la
realizzazione perfetta?
Mataji: Quando si
compie il lavoro impersonale e si osserva da spettatori, dall’interno
scaturisce una gioia profonda. Se in quel momento il corpo venisse offeso,
sarebbe ugualmente fonte di felicità; ma quest’esplosione di gioia non equivale
alla realizzazione del Sé. Il fremito di gioia prodotto dal lavoro impersonale
è la Sua gioia fatta propria, è la Sua felicità sentita come propria. Si è
raggiunto uno stadio in cui la felicità è legata a Lui. In questo stato, poiché
si è perso interesse per i piaceri del mondo, si può fare una grande mole di
lavoro in maniera perfetta; e anche se, nonostante i propri sforzi qualche
lavoro non avesse successo, non ci si sentirebbe turbati. Poiché ogni cosa ha
il suo posto, anche qui è la Sua Volontà che prevale. Non vedete che questo è
un sentiero di gioia? Quanto detto vale però solo quando l’azione non è
macchiata dal senso di possesso; ma neppure questo stato è la realizzazione del
Sé. Perché no? Con o senza desiderio, qui ci si riferisce al lavoro. Anche se
compiuta in maniera impersonale, l’azione rimane ancora separata da chi la
compie; mentre dove c’è il Sé e nient’altro che il Sé, il guru, l’insegnamento
e il lavoro non possono esistere separatamente. Fino a quando permane la
dualità tra precetto e azione non si può parlare di realizzazione del Sé. Il
gioco di chi è pervenuto al coronamento finale è completamente diverso dal
lavoro diventato disinteressato in virtù dello sforzo. Quanto detto è la
risposta alla vostra domanda.
Anche quando si è
raggiunto il samadhi, nel quale un individuo sembra essere completamente
assorto all’interno, si tratta ancora di uno stato. Ma quando con questo
processo interiore spontaneo (antarkriya) viene sollevato il velo,
allora può sopravvenire la visione della Realtà. Questo non può mai accadere
attraverso un’attività esteriore, come ad esempio il tentativo di cancellare
il desiderio.
Un’altra cosa, pitaji:
vi fu un tempo in cui questo corpo cercava d’eseguire alla lettera
qualunque cosa Bholanath chiedesse. Quando vide che questo corpo s’irrigidiva,
ch’era incapace di compiere certe azioni mondane o di sopportarle, lui stesso
fu felice di ritirare le sue richieste. Nonostante certi doveri non potessero
venire assolti, in un certo senso fu osservata una stretta obbedienza. Un
giorno venne a trovarci il marito della sorella di Bholanath, Kushari Mahasaya.
Quando vide che questo corpo obbediva a Bholanath in ogni cosa, esclamò
irritato: “Non hai una tua opinione? Devi consultare tuo marito per ogni
piccola cosa? Che situazione! Supponiamo che ti chieda di fare qualcosa di
sbagliato, obbediresti anche allora?”. Ricevette questa risposta: “Lascia che
si presenti l’occasione e guarda quel che succederà nel momento in cui l’ordine
dovrà essere messo in pratica”. Questa risposta lo lasciò senza parole e da
quel momento cambiò il suo modo di vivere e fu sempre devoto alla ricerca
suprema.
Nella vita
spirituale c’è uno stadio in cui è possibile agire in maniera incondizionata e
spontanea, perché non ci sono legami. Dove non esistono legami, non c’è
pericolo né sentiero sbagliato, non si può fare alcun passo falso.
Domanda: Non fu
dopo la realizzazione del Sé che foste in quello stato?
Mataji: Lasciate
stare questo corpo! Se dite che questo stato viene solo dopo la realizzazione
del Sé, dovete capire che allora è possibile impersonare ovunque e in qualunque
modo l’Uno che interpreta tutte le parti dell’Uno, il che è completamente
diverso da quanto appena detto. È uno stato d’Unità. Pur rimanendo nella
divisione si è indivisi, e si rimane nell’Unità anche apparendo divisi: questo
è Quello (Tat Sva). Qui, obbedire e disobbedire sono entrambi
Quello.
Ci sono segni
attraverso cui si possono riconoscere le azioni fatte come strumento prima
della realizzazione del Sé. In questo stadio, il corso dell’azione è diretto
all’adempimento dei bisogni reali; ma nello stato del puro Essere è completamente
differente: fare o non fare, chiamatelo come vi pare, tutto è Quello. In quella
sfera è possibile tutto: non mangiare mentre si mangia, e mangiare non
mangiando; camminare senza piedi, vedere senza occhi, e altre cose del genere –
come direste voi. Quando si è stabiliti nel Sé, chi obbedisce e a chi? Non ci
sono ‘altri’, nessuno è separato. Non si parla più a un altro; come potrebbe
esserci ancora la relazione, che è basata sul senso di separazione?
Il livello
dell’azione disinteressata è completamente diverso dallo stato di realizzazione
del Sé. Fino a quando si percepiscono separatamente l’amore per il guru, il
lavoro e l’ ‘io’ non c’è realizzazione del Sé. Bisogna però dire che l’azione
dedicata a Dio non è uguale al lavoro eseguito sotto l’impulso del desiderio.
Il primo è per amore dell’unione che conduce all’Illuminazione, l’altro per
amore del piacere che conduce a ulteriori esperienze mondane. È degna d’essere
chiamata ‘azione’ solo quell’azione mediante cui viene rivelata l’eterna unione
dell’uomo con Dio; tutto il resto è inutile, indegno d’essere chiamato azione.
Non bisogna stabilire un nuovo tipo d’unione, piuttosto si deve realizzare
l’unione che esiste per l’Eternità.
Molto bene, ora
ascoltate qualcos’altro. C’è uno stadio in cui lavorare è molto piacevole e dà
un’intensa felicità; in esso si è del tutto indifferenti a ciò che può
risultare dalla propria azione, e il lavoro viene fatto solo per amore del
lavoro. In questo non c’è un guru esterno né l’amore per Lui. Questo stato esiste.
C’è una grande diversità nel regno dell’azione.
Il senso di
contentezza che si prova realizzando un desiderio mondano è una felicità
relativa. Questo desiderio può essere per la moglie, il figlio, un parente o
qualsiasi altra persona, e in conformità si raccoglierà il frutto relativo ad
ogni azione. Questo è agire per la propria soddisfazione (bhoga), non
per amore dell’unione (yoga), e comporta dolore unito a gioia.
Per tornare a quanto
è stato appena detto sul lavoro fatto per amore del lavoro e non per qualcun
altro, immaginate ciò che talvolta si fa anche camminando per strada, non per
amore di qualcuno, ma per amore del lavoro, considerando lo stesso lavoro
l’unico Dio. Anche questo è uno stato e, continuando a compiere azioni di
questo tipo, verrà il giorno in cui si verrà liberati dall’azione. C’è qualcosa
come lavorare per il bene del mondo, ma qui manca anche questo. È un tipo di
lavoro non motivato dal desiderio o dall’avidità; non si può proprio fare a
meno di farlo. Beh, allora perché si fa? Si è semplicemente innamorati del
lavoro. Quando Dio Si manifesta sotto forma di qualche lavoro, che perciò
esercita un intenso fascino, impegnandosi continuamente in quel lavoro alla
fine si viene liberati da ogni azione.
Domanda: Il
lavoro genera solo altro lavoro; come può cessare?
Mataji: Non lo
sapete? Se potete concentrarvi completamente in una determinata direzione così
da non poter fare a meno d’agire lungo quella linea, l’azione sbagliata diventa
impossibile. Di conseguenza l’azione perde la sua presa su di voi ed è
destinata a finire. Quanti stati e stadi ci sono! Questo è uno; certo qui non
si è ancora conseguita la conoscenza del Sé, ma non si può agire in maniera
errata. Né c’è modo di considerare se si deve agire conformemente agli shastra
o in contrasto con essi. Nondimeno, in questo stato di concentrazione su un
unico punto non può prodursi un’azione errata che violi le leggi enunciate
negli shastra. Il corpo umano – il veicolo attraverso cui si fa il
lavoro – è entrato in una corrente di purezza, e di conseguenza si compie il satkarma,
l’azione in armonia con la volontà divina.
Piacere e dolore
esistono solo al livello dell’individuo. Nei momenti d’intenso dolore, quando
si è nell’angoscia, nonostante l’attaccamento a moglie, marito, figlio o
figlia, c’è spazio per il pensiero di questi cari? Non si soffre in un eccesso
di autocommiserazione? In quei momenti l’illusione dei legami familiari perde
ogni presa, mentre regna suprema l’illusione dell’identificazione con il corpo.
C’è l’individuo e di conseguenza esiste ogni altra cosa; da qui, su questa
base, sorge il presunto andare e venire dell’individuo, il suo ciclo di nascite
e morti.
Dovete capire che
chi ama Dio deve solo distruggere l’identificazione con il corpo. Una volta
fatto questo si distrugge (nasa)* l’illusione, la schiavitù o, in
altre parole, il desiderio (vasana)**, il ‘non-Sé’ (na Sva)*.
La vostra attuale dimora (vasa) è dove il Sé si manifesta come
‘non-Sé’ (na Sva); una volta distrutto questo, è stata distrutta
solo la distruzione. Ciò che è noto come desiderio mondano può anche definirsi
l’attività che si manifesta in assenza dell’azione della rivelazione del Sé.
Lui non c’è, questo è il punto della questione, non è così?
Questo corpo vi
parla ancora di un altro aspetto – potete indovinare quale? Come l’Amato (Ishta) è il Sé (Svayam), così anche la
distruzione è Lui, ed anche ciò che viene distrutto. È così laddove c’è il Sé e
solo il Sé; quindi, con chi ci si può associare? Per questo si dice che Lui non
ha un secondo, che esiste da solo. Quando si dice che Lui appare mascherato,
che cos’è la maschera? Lui Stesso, naturalmente.
Parlate del mondo. Jagat
(mondo) significa movimento, e ciò che è legato è il jiva (l’individuo).
Come dice il detto: “Dove c’è un uomo c’è Shiva e dove c’è una donna c’è
Gouri”.***
Si definisce Eterno
ciò in cui non c’è questione di nascita e rinascita né di essere legati. Ora
comprendetemi bene: come si può legare ciò che è movimento perpetuo? Può
rimanere in un posto? Poiché non rimane confinato in alcun posto, non può
essere legato quando la mente è dissolta; dunque, poiché non è mai legato in un
posto particolare, non lo si potrebbe chiamare libero? Allora cosa va e cosa
viene? Ecco, è un movimento simile a quello dell’oceano (samudra), è
Lui che esprime Se Stesso (Sva mudra)****. Le onde sono solo
l’alzarsi e il cadere, l’ondulazione dell’acqua; ed è l’acqua che si forma in
onde (taranga), in parti del suo stesso corpo (tar anga)* – in
essenza acqua.
Da un particolare
piano di coscienza ci si chiede: “Cosa fa apparire la stessa sostanza in forme
differenti: acqua, ghiaccio, onde?”. Riflettete, e vedete quanto riuscite a
comprendere! Nessuna similitudine è mai perfetta; e tuttavia non vi ha aiutato
a vedere il problema relativo al mondo? Che cosa avete realizzato di fatto?
Scopritelo!
Molto bene; chiamate
transitorio ciò che non rimane mai fermo in un luogo, non è così? Ma cosa non
rimane? Chi non rimane? Chi viene? Chi va? Cambiamento, trasformazione – che
cosa sono? Chi? Afferrate la radice di tutto questo. Ogni cosa passa; vale a
dire, la morte passa – la morte muore. Chi va e dove? Chi viene e da dove? Che
cos’è in essenza questo interminabile andare e venire? Chi? Di nuovo, non è
questione d’azione né d’andare e venire; da dove viene la nascita, da dove la
morte? Meditate su ciò!
Direte che
l’universo non è altro che l’unico Sé. Così ogni forma è Lui nella Sua stessa
forma (Sva akara); cioè, il Sé (Sva), l’Eterno, rivelato come
forma (akara). Che cosa implica questo? La non-azione (akriya). In
che senso non azione? “Solo l’azione dedicata a Dio è vera azione; tutto il
resto è inutile e dunque non è azione”. Questa è la vostra idea dal punto di
vista del mondo. Qui questo tipo d’azione non esiste. Allora che cosa esiste?
L’Azione del Sé (Sva kriya) – Lui stesso come Azione; Lui stesso
come Forma – per questo è chiamato Sakara (con forma); Lui stesso come
Qualità – perciò è chiamato Saguna (con qualità). Laddove è manifesto il
Signore (Ishvara) o qualcosa riguardante il Suo divino splendore,
Lui stesso (Svayam) appare
in azione, pur rimanendo sempre non-agente. Lui come tale è l’Essenza della
verità assoluta. Non azione (akriya), eppure forma (akara)!
Forma significa incarnazione (murti) in cui non c’è azione
né chi agisce. Di che cosa può essere l’agente, chi dev’essere l’agente e dove?
Egli non è rivelato in ciò che definite la schiavitù dell’azione. Egli stesso è
l’azione (kriya), Lui,
l’Eterno, che non può essere mai distrutto. Distrutto (nasta)** significa ‘non-Amato’ (na-ista), e non Chi non può
essere indesiderato (anista);
poiché Lui è la sola ed unica cosa desiderata da tutta la crea-zione,
l’Amato di tutti. Dovete comprendere che l’Uno ‘Senza Forma’ (Nirakara)
e ‘Senza Qualità’ (Nirguna), è anche ‘Con Forma’ e ‘Con
Qualità’. Qual è nell’essenza la differenza tra acqua e ghiaccio? Potete dirlo?
Solo Lui È, nient’altro che Lui. L’Uno che è pura Coscienza e pura Intelligenza
ha molte forme e apparenze, ma nello stesso tempo è senza forma. Per questo,
che la chiamiate azione del mondo o azione del ricercatore, sono entrambe
Quello. Ogni azione è libera; in altre parole, non si pone affatto la questione
dell’azione. Sapete perché è così: c’è solo un’unica ed eterna Realtà (Nitya
Vastu), ma poiché siete limitati dai vostri diversi modi di vedere,
parlate del non-eterno e affermate che il risultato dell’azione non può durare,
che il cambiamento è la sua stessa natura.
Dove conduce
l’incessante cambiamento del mondo sempre mutevole? L’azione in cui non c’è
possibilità di schiavitù è davvero ‘essere’. ‘Jagat’ (mondo) designa il
movimento che è un continuo morire; in altre parole, il suo carattere innato è
il cambiamento perpetuo. Sul piano dell’individuo, e quindi della schiavitù,
ogni cambiamento appartiene esclusivamente a questo tipo di movimento. Rivolti
a Quello (Tat mukhi), molti stanno lottando, ciascuno nel proprio modo
particolare; uno sforzo del genere è certamente dovere di tutti. Per orientare
il corso della propria vita in questa direzione, la persona comune deve
impegnarsi in azioni che hanno per fine Quello (Tat karma).
Ora però, riflettete
attentamente e realizzate che siete eternamente liberi, perché l’azione è
sempre libera, non può rimanere legata. Non sapete che la corda con cui legate
tutto in questo mondo dovrà rompersi o rovinarsi? Malgrado usiate catene di
ferro, o anche d’oro, tutto ciò che lega un giorno si romperà o sarà distrutto.
Esistono catene nel mondo che non possono rompersi né essere distrutte? L’unico
responsabile della schiavitù della mente è il lamento per i legami temporanei,
perché la mente non può essere confinata in alcun luogo. Come un bimbo
irrequieto, indifferente al bene o al male, essa cerca la beatitudine suprema,
non è mai soddisfatta della felicità temporanea e dunque è sempre errabonda.
Come può essere a riposo finché non trova la via alla Realtà suprema, finché
non viene assorbita completamente nella sua sorgente, riposando nel suo stesso
Sé? Nella profondità del vostro cuore sapete di essere liberi; ecco perché è
nella vostra natura desiderare la libertà. Nello stesso modo, se per qualche
buona fortuna Egli si rivela come azione, questa cesserà da sé. Ristagno
equivale a morte; per rinunciare all’arresto del movimento, l’uomo ricorre a
innumerevoli espedienti. Bisogna rinunciare solo a ciò che cade da sé.
Insistete nel dire
che la mente va dissolta; ma non dimenticate che la stessa mente è il mahayogi,
sì, lo yogi sublime. Le vostre scritture dicono che tale yogi si comporta
come un bambino capriccioso, che ignora la pulizia, la decenza e la proprietà,
o come un pazzo o come uno all’apparenza svogliato e insensibile. Ritenete
molto elevato ciò che assomiglia alla completa indifferenza e inattività, e
inoltre dite: “Ciò che è nel microcosmo è nel macrocosmo”.
Un’incarnazione
divina (avatar) che gioca come un bambino – quant’è adorabile,
com’è affascinante! Quando la gente comune legge o sente parlare dell’infanzia
di Sri Krishna o la vede rappresentata sul palcoscenico, l’interpreta alla luce
del comportamento dei propri figli, poiché è con questi che ha familiarità. Da
dove dovrebbe venire la capacità d’intenderne il significato interiore? Quando
assistete ad una rappresentazione teatrale del gioco amoroso tra Radha e
Krishna nel Rasalila, o a una rappresentazione del Ramalila, non
vedete il vero lila, che è totalmente spirituale, sovrannaturale (aprakrta),
trascendentale. Laddove vi è un’esperienza reale, ciò è dovuto all’opera
della visione spirituale.
Domanda: Quando
c’è l’esperienza spirituale, come viene interpretato (il lila) in relazione alle cose del mondo?
Mataji: Quando si è
liberati dalla schiavitù, quando il distruttibile è distrutto e risplende solo
l’Amato – dite, che cosa si può vedere? Quando i legami si spezzano, si rompono
solo quelli fragili. Ma il legame dell’amore di Dio non appartiene a questo
tipo di legami, è piuttosto uno ‘sciogliere’; inoltre, nella conoscenza
dell’Assoluto (Brahmajnana) non esiste più la funzione ordinaria del
comprendere. Comprendere infatti significa rigettare un fardello per prenderne
un altro; mentre la conoscenza della Realtà suprema è oltre il pensiero e la
parola.
Quando la persona
comune guarda una rappresentazione del Rasalila o del Ramalila, cosa
può intendere del suo significato che non sia colorato dal suo attaccamento al
mondo? Dov’è la capacità di sperimentare ciò che è al di là di esso? Nondimeno,
poiché sta cercando di comprendere con gli occhi e le orecchie il gioco divino
di Dio, si spera che la capacità possa sopraggiungere.
La natura della
mente è accettare la molteplicità. Tutto ciò che occorre è focalizzare
quest’accettazione su una sola cosa, con o senza forma, che una volta accettata
non lasci altra scelta tra accettazione e non accettazione. Quest’unica Cosa
esclude completamente ogni possibilità di dualità. Ecco perché si diviene concentrati
su una cosa sola. La mente tende alla molteplicità; in mezzo all’incrocio di
correnti della mente irrequieta, ci si deve concentrare fermamente su una sola
meta.
Pensate ad un
albero: i rami e i ramoscelli che spuntano da ogni lato producono lo stesso
tipo di seme di quello che ha prodotto l’albero; e un singolo seme contiene
potenzialmente innumerevoli alberi, innumerevoli rami, ramoscelli, foglie e
così via. C’è infinito divenire e infinito essere, infinita manifestazione e
infinita potenzialità; il seme si sviluppa in albero, l’albero produce il seme.
Quando si è completamente concentrati su una cosa, perché l’Uno non dev’essere
rivelato? Nell’Uno c’è l’Infinità e nell’infinito c’è la fine; ma nell’Uno
Infinito non può sorgere la questione tra finito e infinito. Ciò che è, È;
questo è ciò che si vuole. Dove percepite una fine, in effetti non c’è alcuna
fine: poiché Lui è infinito. Lui e soltanto Lui è in tutte le forme e nel senza
forma.
Questo per quanto
riguarda l’attaccamento all’azione (karma); ma c’è ancora l’attaccamento
al bhava*. Anche il bhava appartiene al dominio dell’azione,
solo che a volte predomina l’azione e altre volte il bhava. Tutto questo
è molto difficile da comprendere. Qualcuno ha posto la domanda: “Che cos’è
l’attaccamento al bhava?”. Ecco un esempio: un uomo pratica le
posizioni yoga, gli esercizi di respirazione, l’adorazione rituale, la
ripetizione del nome di Dio, la meditazione, la contemplazione – uno qualsiasi
di questi – per conseguire un bhava particolare, e avendolo raggiunto
desidera rimanere sempre in quello stato. Fin quando dura, piuttosto finché
predomina quello stato, si è immersi nella beatitudine; ma non si è ancora
raggiunta l’Illuminazione, si è solo sulla strada che porta ad essa. Questo è
un attaccamento puro e quindi si può andare oltre. Poiché ci si compiace
d’indugiare al livello di questo bhava, un uomo potrebbe abbandonarvisi
ogni giorno o anche per tutta la vita. Sebbene rimanere in questo stato per
molto tempo produca una certa trasformazione, tuttavia non può esserci un
progresso speciale. Se però, per qualche tocco ineffabile, questo bhava potesse
pervenire alla sua consumazione, si potrebbe procedere oltre. Ci sono stati in
cui si spicca il volo, ma si cade di nuovo giù. Di certo è auspicabile
stabilirsi nell’equilibrio perfetto, dove ascesa e discesa sono fuori
questione. Fino a quando karma e bhava non sono portati a
compimento, non si può andare al di là di essi.
*) – Qui Mataji gioca con le parole. In bengali sva e sa si pronunciano allo stesso modo; così nasa = distruzione si pronuncia come na Sva = ‘non-Sé’.
**) – Vasana = desiderio, è dove il Sé dimora come non-Sé. Vasa = abitare; na = no.
***) – Con questa frase s’intende dire che gli aspetti divini di Shiva e Shakti sono presenti in ogni essere umano.
****) – Un gioco di parole: samudra = mare; Sva mudra = ‘Sua stessa espressione’.
*) – Taranga = onda; tar = suo, anga = arto, parte intrinseca.
**) – Un gioco di parole: nasta = distrutto; na-ista = ‘non l’Amato’; anista = indesiderato.
*) – Bhava significa disposizione interiore, e si rivela come karma. Il bhava è karma latente, mentre il karma è bhava messo in atto.
Rispondendo a una
domanda, Mataji disse:
Fate la carità,
impegnatevi nel servizio, fate pranam,* e capirete direttamente con
quale spirito fate questi atti. Convincetevi che l’Illuminazione può venire
indipendentemente dallo stato in cui vi trovate. Non nutrite mai l’idea
d’essere sprofondati nel peccato e nelle cattive azioni e che di conseguenza
non potete giungere da nessuna parte. In ogni momento e in ogni circostanza
dovete essere pronti a seguire il sentiero che porta al Supremo. Chi può dire
in quale momento il vostro dare, servire o inchinarvi diventerà un atto di
consacrazione all’Uno? Tutto è possibile.
Riguardo alla diksha
(iniziazione): chi vi dà l’iniziazione vi porterà fino al livello da lui
raggiunto. Così quando si ascolta un discorso religioso, l’oratore può
comunicare al suo uditorio tanto quanto sta in suo potere dare. Qui ci sono due
fattori: l’effetto inerente alle parole di verità e il potere dell’oratore;
entrambi vengono ricevuti e se chi riceve ha una capacità eccezionale, la
conoscenza suprema si rivelerà in lui nello stesso istante in cui riceve
l’istruzione.
Ci sono diversi tipi
d’iniziazione: tramite mantra, per contatto, con uno sguardo, mediante
istruzione. Il contatto con un grande porta frutto; ciascuno ne trarrà
beneficio in proporzione alla sua ricettività e sincerità. Esiste anche la
Grazia speciale, dalla quale si riceve un raro potere di progredire. D’altra
parte ci sono casi in cui, malgrado l’effettivo contatto, non ha luogo alcuna
trasmissione di potere; chi ha il potere è in grado di controllarlo – dare e
prendere dipende dalla sua volontà. L’istruzione che libera l’uomo dai nodi che
costituiscono l’ego, è ciò che si chiama iniziazione mediante istruzione; in
questo caso l’istruzione realizza istantaneamente il suo scopo.
Quando si dà il mantra
diksha, il mantra viene sussurrato all’orecchio dell’iniziato e il
maestro trasmette tanto potere quanto ne possiede. Se è onnipotente, col suo
solo tocco o sguardo può portare il discepolo alla meta finale; ma se non ha il
potere supremo, può trasmettere all’iniziato soltanto il potere di cui dispone
e potrà guidarlo fin dove è giunto lui stesso. È ovvio che il guru può
trasmettere solo tanta ricchezza quanta ne possiede. Se colui che ha dato il mantra
non ha raggiunto la meta finale e dunque è ancora sulla via, il discepolo
non può progredire ulteriormente, a meno che non avanzi anche il guru. Ecco
perché, finché il guru non avanza, il discepolo deve aspettare sul sentiero.
Chiunque aspiri alla realizzazione del Sé e cominci a dare iniziazioni mentre è
ancora sul sentiero, rimarrà fermo al punto in cui è giunto.
Esiste anche la possibilità
che il discepolo superi il guru; quando qualcuno è iniziato in base alle
capacità e predisposizioni interiori che porta con sé dalle nascite precedenti,
il suo potere di progredire può essere stimolato a tal punto che potrà andare
oltre la realizzazione del proprio guru. In questo caso, per conseguire la sua
meta, l’iniziato ha bisogno solo della quantità di potere conferitagli dalla diksha.
Se il discepolo dovesse contare interamente sulle risorse del suo particolare
guru, dovrebbe muoversi fianco a fianco con lui. Inoltre, quando si realizza
che il proprio guru è il maestro del mondo e il maestro del mondo è il proprio
guru (mondo significa movimento, mentre l’individuo è quello che è legato – il
guru libera dall’individualità e dalla relazione con il mondo), ci si riconosce
come Suo servo o come il Suo stesso Sé o come una parte di Lui – secondo la
propria linea d’approccio.
Come posso dire che
il mio guru è il maestro del mondo? Per il semplice motivo che quello è lo
stato del guru. Per esempio, chi è un cuoco? La parola ‘cuoco’ non indica certo
il nome di qualcuno in particolare, ma una persona che sa preparare da
mangiare. Allo stesso modo, quando si rivela lo stato del guru, si capisce che
non ha nulla a che fare con una data persona: il guru non è altro che il
maestro del mondo. Se il potere del guru può diventare effettivo, ci sarà la
realizzazione di ‘Chi sono Io’. Chi è in grado di conferire questo potere è
davvero un maestro del mondo. Il guru è colui che può rivelare la verità
nascosta dalle tenebre profonde. Il mio guru esiste in molte forme come il guru
di ciascuno e di tutti, e il guru di ogni altro è di fatto il mio guru. Capite
ora come il guru sia diventato uno.
La persona che
pratica riti ed esercizi spirituali di qualunque tipo è sul sentiero, ma non è
stabilita nel Sé, poiché sta ancora facendo degli sforzi. Come può essere un
guru, se non ha trasceso l’azione? Si parla di fratelli nello spirito: il
Signore adorato da tutti è il mio Signore, e il mio Signore è il Signore del mondo.
Un guru non è un precettore comune – un guru è colui che ha la capacità di
liberare l’uomo dall’oceano del divenire (bhava sagara). Supponete
che un aspirante sia stato iniziato da qualcuno che non ha il potere supremo:
egli potrà progredire solo fino allo stadio del suo guru, e dopo dovrà
aspettare. Grazie ad una congiunzione favorevole – sia per l’impellente
desiderio di realizzazione, per le capacità sviluppate nelle vite passate o
anche senza queste o simili cause, semplicemente per l’intervento della grazia
divina – egli potrebbe per mezzo di un’istruzione, di un contatto, di uno
sguardo o di un mantra, ricevere un flusso di potere che gli permetta di
procedere oltre. Quando viene un’alluvione, essa non fa distinzioni, come ad
esempio ‘quest’albero dev’essere risparmiato e quell’altro sradicato’, ma porta
via indistintamente ogni cosa. Allo stesso modo, nel reame dello spirito non vi
è scelta, poiché il Sé è contenuto dentro di Sé.
C’è però ancora
un’altra possibilità: il potere può essere conferito senza istruzione, senza
sguardo, contatto o mantra, che il beneficiario ne sia consapevole nello
stesso istante in cui avviene o solo molto più tardi. Colui che ha conferito
questo potere porta con sé ogni cosa, come l’inondazione. È nella sua natura
ricondurre a Sé ogni cosa e farla Sua. Non è dunque lecito dire, in un caso
particolare, che l’iniziazione è stata ricevuta da qualcun altro e non da
questa fonte; non è forse tutto Suo, o meglio ancora, Lui stesso? Come
l’inondazione porta con sé ogni cosa senza alcuna distinzione, così quel grande
Essere fa Suo con assoluta naturalezza e spontaneità ciò che erroneamente si è
considerato estraneo. Non ci sono ‘mio’ e ‘tuo’ – c’è solo il Sé rivelato dal
Sé: Quello, e Quello soltanto. Una madre non tiene il conto di quel che fa per
i figli, perché sono suoi. Similmente, anche qui non si tiene conto di quanto
potere è stato comunicato.
Una certa persona
prese l’iniziazione da un guru. In seguito quella persona incontrò un mahatma e
coltivò frequentemente la sua compagnia, poiché si sentiva beneficiata dal suo
contatto. Saputo questo, il guru s’irritò e disse: “Io ho coltivato il giardino
e tu ne dai il frutto a qualcun altro?”. Il discepolo rispose: “Non è così; il
contatto con il mahatma ha rafforzato la fede nel mio guru”. Quel guru però non
riuscì a capire. Per il mahatma in questione, il mondo e ciò che è al di là
erano la stessa cosa. Per lui l’identità era completa, poiché vedeva solo il Sé
che tutto pervade. Che si avvicini o meno una tale persona, questi tratterà
tutti allo stesso modo. Si può dunque dire: quell’uomo non aveva un altro guru,
poiché la trasmissione del potere avviene al livello in cui tutti sono uno. Non
si può neppure dire che una certa quantità di potere sia stata trasmessa ad una
certa persona – come un grande fuoco non discrimina asciugando un oggetto e
lasciandone un altro bagnato. L’istruzione, il contatto, lo sguardo o il mantra
che costituiscono la diksha avvengono spontaneamente. Qui non c’è
distinzione di ‘mio’ e ‘tuo’. Ci sono due modi: il potere può essere
controllato oppure conferito universalmente in perfetta uguaglianza. È tutto
nelle Sue mani.
*) – In un’altra occasione Mataji disse al riguardo: “Fare pranam significa prostrarsi ai Suoi Piedi, aggrapparsi saldamente ad Essi, e dunque uniti a Lui, diventare di Colui che solo È”.
Benares, 27 marzo 1949
Mataji: Una persona
ricevette un mantra nel sogno; ebbe la visione di un grande Essere che
gli dava un mantra, piuttosto ebbe la visione del mantra. Al
risveglio l’esperienza del mantra gli rimase, pura e semplice; in
effetti, anche da sveglio continuò ad essere influenzato dalla visione. Con
quali conseguenze? Riuscì a risolvere un problema che lo assillava da molti
giorni. Si sentì liberato da quel peso e cominciò a vivere in un diverso stato
mentale. Non ebbe più desiderio di prendere l’iniziazione. Anche per una
persona in questo stato è necessario accettare di nuovo l’iniziazione sul piano
fisico?
Un devoto: Può
essere o meno necessario, dipende dalla capacità dell’aspirante e dalle sue
qualità interiori.
Mataji: Ciò vuol
dire che non è uguale per tutti. Fatemi raccontare la storia di una persona –
non rivelerò il suo nome. Costui aveva preso sannyasa in conformità
ai riti prescritti dagli shastra, e aveva impugnato il bastone del
pellegrino senza dimora; ma non gli fu concessa alcuna realizzazione o esperienza
spirituale. Preso dallo sconforto e dalla disperazione, alla fine abbandonò il
bastone da pellegrino e, per così dire, divenne uno scettico. Era talmente
scoraggiato che non desiderava nemmeno muovere gli arti. Un giorno,
all’improvviso, ebbe un’esperienza e realizzò: “Tutto è dentro di me”. Il suo
scoraggiamento svanì insieme alla sofferenza. Una volta abbandonato l’ordine
dei sannyasi e tutte le sue pratiche spirituali, dopo avere avuto una
realizzazione così elevata, doveva prendere di nuovo l’iniziazione? A volte
succede che qualcuno, anche dopo avere ricevuto un mantra nel sogno,
prenda di nuovo l’iniziazione nello stato di veglia.
Molti s’avvicinano a
questo corpo dicendo: “Prenderò o meno la diksha a seconda dal vostro
consiglio. Se mi direte di prendere l’iniziazione, lo farò; se invece mi
direte ‘no’, obbedirò ugualmente”. È così che dicono, vero? Non si può dare a
tutti la stessa risposta. A qualcuno forse è stato detto: “Non prendete
l’iniziazione fin quando non ne sentirete il bisogno da dentro. Continuate a
praticare il mantra ricevuto nel sogno”. Ad altri, al contrario, può
essere stato suggerito di riprendere l’iniziazione da qualcuno in cui hanno
fede.
Domanda:
L’iniziazione avviene su livelli sottili; non avviene solo pronunciando un
mantra. Parimenti, l’iniziazione ricevuta nel sogno ha luogo sui piani sottili
al di là dei sensi. In questo caso, sarà ancora necessario prendere la diksha sul
piano fisico?
Mataji: L’atto
dell’iniziazione è istantaneo, sia all’esterno sia all’interno. Ogni cosa è già
racchiusa in voi. Può darsi che affinché questo possa rivelarsi, affinché
l’esterno e l’interno possano fondersi, qualcuno dia la sua benedizione sul
piano fisico. Dopo l’iniziazione, praticando sadhana, alcuni possono
raggiungere la perfezione, mentre altri sembrano non arrivare da nessuna parte
e muoiono.
Dal punto di vista
del mondo, dello stato di veglia, si può dire che come si prova un senso
d’appagamento ricevendo l’iniziazione sul piano fisico, si può sentire lo
stesso appagamento anche quando si riceve nel sogno. Se c’è questo senso di
soddisfazione, si dirà: “Non ho bisogno di ricevere di nuovo l’iniziazione”.
L’iniziazione ricevuta nel sogno può avere lo stesso risultato di quella
ricevuta sul piano fisico. Allora perché, in questo caso, si dovrebbe sentire
ancora il bisogno dell’iniziazione sul piano fisico?
Domanda: In altre
parole, il senso di soddisfazione che si prova significa che l’iniziazione ha
veramente avuto luogo?
Mataji: No, non è
semplicemente questione di soddisfazione; profondamente dentro si sente un
‘contatto’ che fa capire che non c’è più bisogno d’iniziazione. A questo punto,
se si desidera consultare qualcuno in particolare, allora si potrà essere in
grado di capire. Non occorre dire che la persona dev’essere veramente
imparziale e capace di spiegare il significato reale dell’esperienza. Certo è
difficile giudicare la capacità di un uomo di farlo. In genere si può dire che
in alcuni casi le persone occupano solo esteriormente delle posizioni
spiritualmente elevate; comunque, se l’aspirante è veramente sincero ed è
diventato puro come l’oro, col tempo arriverà a capire da sé (se la sua
esperienza è stata genuina).
La trasmissione di
potere costituisce l’iniziazione. Il conferimento del potere del guru
costituisce il fattore principale, sia che ciò avvenga nel sogno o nello stato
di veglia. Se la manifestazione del potere ha effettivamente avuto luogo all’interno,
allora non c’è più il bisogno di conferirlo esternamente.
Domanda: Quale ne
è il segno?
Mataji: Una volta
benedetti da questo potere, all’inizio si può sentire ancora un senso di vuoto,
ma la sensazione svanirà man mano che si avanza. Ciò dipende da diversi fattori
che operano insieme. In alcuni casi, ad esempio, il potere dapprima potrebbe
non essere stato percepito internamente; se ne è consapevoli solo più tardi. Se
ne potrebbe realizzare la presenza a poco a poco, gradualmente; anche questa è
una possibilità. Ancora, il risultato dell’iniziazione potrebbe non avvertirsi
subito e nemmeno alla fine di una lunga vita. D’altro canto, si può trovare
qualcuno trasformato immediatamente in virtù dell’iniziazione; in questo caso,
la sua azione ha portato subito frutto. Se è così, naturalmente non ci sarà
problema; ma anche quando per lunghissimo tempo non si nota alcun effetto
dell’iniziazione, anche allora il potere sta senza dubbio agendo all’interno.
Sul fatto di
dedicare il japa al proprio Ishta o al guru, Mataji disse:
Dopo aver fatto il japa,
lo si deve dedicare all’Oggetto della propria venerazione; se questo non si
fa e si conserva per sé, c’è il rischio che vada perduto, poiché non si è
consapevoli del grande valore di ciò che si possiede. Quando si lascia in custodia
ad un bambino un gioiello di grande valore, questi potrebbe buttar via il
tesoro, non comprendendo quant’è prezioso. Anche tenendo per sé il japa si
otterrà qualcosa, ma non si raccoglierà il pieno beneficio della sua pratica.
Il frutto pieno e totale del japa, che si ottiene quando lo si
dedica all’Oggetto supremo della propria devozione, non può aversi se il japa
si tiene per sé. Per questo motivo il japa va offerto al proprio Ishta
o al guru.
Quando un bambino
riceve una cosa, la porta a sua madre, poiché non conosce il valore di quanto
ha ricevuto. Non appena la madre vede l’oggetto, realizza subito quanto è
prezioso; lo toglie subito dalla mano del bambino e lo ripone al sicuro. Quando
il bambino crescerà e comincerà a capire, la madre gli ridarà l’oggetto
prezioso dicendo: “Ho conservato il tuo tesoro; adesso riprendilo”.
Una volta acquisita
la capacità necessaria (adhikara), si capisce bene quel che prima non si
poteva comprendere. Con l’età e la saggezza, la comprensione diventa matura.
Offrendo regolarmente il proprio japa all’Ishta, lentamente e
gradualmente si perviene a realizzare che cos’è il Nome e chi è Colui il cui
nome si ripete, chi si è e cosa significa realizzazione del Sé. Quando si
rivelerà tutto questo, si realizzerà completamente lo scopo del proprio japa.
Nessuno può dire in quale momento particolare accadrà; perciò continuate
sempre la vostra sadhana.
Infinite sono le sadhana,
infinite le esperienze spirituali, infinita è la manifestazione – e
tuttavia Egli non è manifesto. La natura del proprio japa dipende dalla
propria linea d’approccio. Perché ho usato il termine ‘infinito’? Le foglie di
un albero sono infinite di numero, e pur avendo tutte lo stesso modello,
all’interno di quel modello ci sono innumerevoli variazioni. Anche considerata
da questo punto di vista, la diversità è infinita. Quando avverrà l’Illuminazione
sarà la fine, e in quello stesso istante Egli si rivelerà nell’infinita
varietà. Il seme come tale rimane quel che è, e così i rami e i ramoscelli;
tuttavia in ciascuno di essi c’è infinità. Anche nel campo della sadhana tutto
è infinito. Continuando a praticare il numero prescritto di japa, prima
o poi il fuoco s’accenderà. Il fuoco è presente ovunque, solo che non si sa in
quale momento l’attrito sarà sufficiente ad accenderlo. Siate sempre pronti!
Certo, vi sono degli yogi che possono predire dopo quante ripetizioni del nome
o del mantra verrà la Luce.
Perseverate nella
pratica del japa. Esso sarà accuratamente conservato per voi, come fosse
tenuto al sicuro da vostra madre. In qualsiasi istante può arrivare il momento
in cui realizzerete i molti nell’Uno e l’Uno nei molti. Quando sarà completato
il numero di ripetizioni? Cosa si scoprirà? Che il Nome e l’Uno al quale
appartiene il nome sono indivisibili; così ciò che avete offerto tornerà a voi.
Domanda: Se il
japa non fosse dedicato al guru, ma si tenesse per sé, il suo frutto andrebbe
perso?
Mataji: Se
l’istruzione del guru è di non dedicare il japa, in tal caso rimarrà
nelle sue mani; infatti, non si è agito secondo il suo comando? Egli potrà
portarlo a compimento preservandolo o lasciandolo al discepolo. Lui solo sa
come sarà completato. Nulla va completamente perso. Se il japa è stato
praticato di continuo, un giorno è destinato a portare frutto; ma potrebbe
anche essere infruttuoso se, ad esempio, il mantra non fosse corretto o
il japa non fosse fatto secondo le regole prescritte – nessuna
possibilità può essere completamente esclusa.
Può succedere che
qualcuno pratichi japa e austerità con fede e regolarità, e tuttavia non
vi sia risposta. Preso da forte disperazione, costui abbandona ogni pratica.
L’angoscia non lo lascia dormire né mangiare. Il suo desiderio è grande, anche
se ha abbandonato ogni sforzo. Se ha totalmente e unicamente sete d’Illuminazione,
dovrà avvenire là e subito.
Raipur, Dehradun, 3 dicembre 1948
Domanda: La
realizzazione del Sé dipende dal potere del guru o avviene indipendentemente da
lui?
Mataji: Prima di
tutto va chiarito che è l’azione del potere del guru a mettere in moto la forza
di volontà; in altre parole, si può dire che la forza di volontà derivi dal
potere del guru. È l’Uno che si manifesta in entrambi, nel potere del guru e
nella forza di volontà. Chi e che cos’è quest’Uno? Tutto ciò che è manifesto è
Lui, e null’altro. Allora perché classificare separatamente il sentiero di chi
dipende da se stesso (purushkara)? Si può certamente
differenziare dal resto, ma bisogna capire che esso è basato sul lavoro del
guru interiore. Vi sono ricercatori della verità inclini a procedere senza un
guru, perché nella loro linea d’approccio si enfatizza il dipendere da se
stessi, il fare assegnamento sul proprio sforzo. Se si va alla radice del
problema, si vedrà che nel caso della persona che fa sadhana spinta da
un’intensa aspirazione e facendo affidamento sulla propria forza, l’Essere
Supremo si rivela in maniera speciale attraverso l’intensità del suo sforzo.
Sapendo che è così, che motivo ci sarebbe, da qualunque punto di vista, di
sollevare obiezioni contro il fatto di fare affidamento su se stessi? Tutto
quello che si può dire o chiedere al riguardo sta nei limiti del pensiero umano,
che è limitato; c’è però uno stato in cui tutto è possibile.
La linea d’approccio
del dipendere dalla propria forza o capacità è, come tutti gli altri approcci,
un’operazione dell’unico Potere. Non v’è dubbio che il potere del guru può
operare in maniera speciale attraverso la fiducia in se stessi, e così non ci
sarà bisogno di un insegnamento esterno. Se alcuni aspiranti possono dipendere
dall’insegnamento esterno, perché altri non possono ricevere guida dall’interno,
senza l’ausilio delle parole espresse esternamente? Perché non dovrebbe essere
possibile, se anche lo spesso velo dell’ignoranza umana può essere distrutto?
In questi casi l’insegnamento del guru opera dall’interno.
Nella vita comune,
si può notare che l’insegnante che istruisce i bambini deve ripetere
continuamente la stessa cosa agli alunni normali; ma ve ne sono alcuni che
ricordano e afferrano qualunque cosa venga detta loro una sola volta. Non avete
mai incontrato alunni che non hanno bisogno neppure che gli si dica tutto su un
argomento, e che nel corso dello studio pervengono ad una tale comprensione che
l’intero argomento gli è subito chiaro? Come sapete, esistono questi studenti
intelligenti.
Allo stesso modo,
accade a volte che un certo numero di persone ricevano insieme l’iniziazione e
pratichino la sadhana; ma solo molto raramente avviene che uno o
due iniziati, realizzando l’Unità di tutto, facciano un tale progresso da
pervenire allo stato di maestro del mondo. Ciò si può attribuire all’effetto
dell’insegnamento ricevuto nelle vite precedenti che dà frutto in quella
presente. D’altro canto, in alcuni casi, non potrebbe essere dovuto
semplicemente al grande Momento che porta l’Illuminazione? Come si può dire chi
può essere illuminato e in quale momento?
Si incontrano dei
ricercatori della verità molto zelanti. L’unione dell’individuo con il Tutto
esiste eternamente; il desiderio di essere consapevoli di quest’unione non è
dovuto al fatto che l’Uno rivelerà Se Stesso?
Molti studenti
frequentano l’università, ma solo pochi si distinguono, anche se tutti ricevono
l’insegnamento dagli stessi professori. Nessuno può predire in quale istante
particolare le circostanze contribuiranno a determinare in ognuno il grande
Momento. All’inizio ci possono essere fallimenti, ma ciò che conta è il
successo finale. Un aspirante non può essere giudicato dai risultati iniziali;
nel campo spirituale il successo finale significa successo fin dall’inizio.
In effetti, che
cos’è un mantra? Mentre si è schiavi dell’idea di ‘io’ e ‘tu’ e ci
s’identifica con l’ego, il mantra rappresenta lo stesso Essere Supremo
sotto forma di suono. Non vedete come certe sillabe sono state magnificamente messe
insieme nei mahavakya? Pensate di essere completamente
incatenati, ma è solo ciò che crede la vostra mente. Ecco perché la vera
conoscenza può sopravvenire nello stesso istante in cui si pronuncia una parola
di potenza, composta semplicemente da alcune lettere comuni messe assieme.
Com’è misteriosa e intima la relazione tra queste parole e l’immutabile Brahman!
Prendete ad esempio lo Shabda Brahman: con il semplice shabda ci
si stabilisce nel Sé. L’oceano è contenuto nella goccia, e la goccia nell’oceano.
Che cos’è una scintilla, se non una particella di fuoco – di Lui, che è la
stessa conoscenza suprema?
È l’idea di ‘tu’ ed
‘io’ che ha tenuto tanto tempo prigioniera la vostra mente. Dovete comprendere
che la combinazione di suoni che va usata è quella che ha il potere di
liberarvi dalla schiavitù. In verità è attraverso il suono che si entra nel
silenzio, poiché Egli è manifesto in tutte le forme, senza eccezioni. Tutto è
possibile nello stato che è oltre la conoscenza e l’ignoranza.
Fino a quando non sarete
stabiliti completamente nella conoscenza suprema, dimorate nel reame di onde e
suoni. Ci sono suoni che attirano la mente all’esterno e altri che l’attirano
all’interno; ma i suoni che tendono all’esterno sono collegati anche a quelli
che portano all’interno. A causa della loro correlazione, in un momento
propizio potrebbe avvenire quella perfetta unione seguita dalla grande
Illuminazione, la rivelazione di ciò che È. Perché non dovrebbe essere
possibile, giacché Lui è sempre rivelato? Inoltre, poiché Lui rivela Se stesso,
perché non si dovrebbe ammettere che ci possano essere esempi d’Illuminazione
senza l’aiuto della parola esterna? In alcuni casi si ricorre alla parola
esterna, in altri no; comunque, nel mondo degli uomini così come sono, di solito
c’è questa dipendenza. Nei casi in cui non è così, sarà dovuto a istruzioni e
tendenze che risalgono alle nascite precedenti; anche questo può certamente
accadere. Non è anche giustificabile immaginare che l’illuminazione possa
avvenire anche senza avere, nelle vite passate, ricevuto insegnamenti e
sviluppato una tendenza in quella direzione? Poiché Lui risplende di luce
propria, come si può escludere una qualunque possibilità? La diversità è la
nostra stessa diversità; ciascuno vede e parla secondo la propria luce.
Sul treno per Benares, 5 dicembre 1948
Domanda: Nel
‘Vicara Sagara’ si legge di un certo ministro chiamato Bharju che, nonostante
avesse conseguito la conoscenza della verità, non si era ancora liberato
dell’illusione. Anche se qualcuno dovesse pervenire alla realizzazione del
Brahman mediante i mahavakya, la sua liberazione non sarebbe certa, se
dovessero ancora persistere incertezze ed idee errate. Una volta che una cosa è
stata rivelata, non capisco come possa sorgere la questione del suo
oscuramento. Per di più, in questo caso, da dove nasce il bisogno d’istruzione?
Mataji: Una cosa è
la realizzazione piena e finale della Luce non velata; tutta un’altra cosa è la
realizzazione dovuta ad una certa causa e in cui c’è ancora la possibilità che
sia di nuovo oscurata. Quando il gioco della sadhana si è manifestato
attraverso questo corpo, esso ha potuto percepire chiaramente queste varie
possibilità.
Dovete comprendere
che se un velo d’ignoranza è stato per così dire bruciato o dissolto, il
ricercatore avrà, per un certo tempo, una visione non offuscata; ma in seguito
verrà oscurata di nuovo. Quale sarà comunque il risultato di quel barlume?
L’ignoranza sarà meno densa e la vera conoscenza guadagnerà maggiore rilievo;
in altre parole, col mo-mentaneo sollevamento del velo, s’allenteranno i
legami dell’individuo. In questo stato può sembrare d’avere ottenuto la
conoscenza reale; in effetti si tratta di uno stato di realizzazione, anche se
del tutto diverso da quello della realizzazione finale. Grazie al potere del
guru, il velo è stato improvvisamente dissolto o consumato – come nella storia
dei dieci uomini, quando il mahatma dice: “Tu stesso sei il decimo!”*.
C’è però una realizzazione che non può essere di nuovo oscurata dal riapparire
del velo d’ignoranza: è la vera e definitiva realizzazione del Sé. Il lampo
dura un attimo, ma la luce del giorno continua stabilmente.
Domanda: Come può
accadere qualcosa non menzionata negli shastra?
Mataji: Il compito
degli shastra è principalmente quello di esporre la reincarnazione, il karma
e simili dottrine. Se può succedere qualcosa che non è menzionata in essi?
Ricordate soltanto che Lui è infinito! Dalla vostra unione con questa Infinità
originano le vostre azioni, i vostri sentimenti e i vostri pensieri, nel
presente e nel futuro, in qualunque forma Egli si compiaccia d’apparire. Questo
non potete apprenderlo dagli shastra; ma gli stessi shastra sono
infiniti.
Oh, com’è bella la
legge della creazione di Dio! Non conoscete il senso di gioia, di beatitudine
profonda, quando in maniera nuova fate esperienza di un barlume di Lui,
l’eternamente nuovo!
Considerate:
l’Infinito è contenuto nel finito e il finito nell’Infinito, il Tutto nella
parte e la parte nel Tutto. È così quando si entra nella grande corrente. Chi
ottiene e quello che si ottiene sono la stessa cosa. Non è solo questione
d’immaginazione; Egli è percepito in forme sempre nuove attraverso canali
sempre nuovi. Quando si entra in quella corrente ininterrotta, è semplicemente
naturale che lo yoga, l’intima unione dell’individuo con il Tutto,
divenga mahayoga.
Tutto è contenuto
negli shastra, ma non proprio tutto. Immaginate di stare viaggiando in
treno diretti a Dehradun. Durante il viaggio attraverserete grandi stazioni, città
e villaggi. Ognuno di questi posti è indicato nella guida ferroviaria; ma può
tutto ciò che vedete tra le diverse stazioni essere descritto nei minimi
dettagli? Gli alberi e le piante, gli animali e gli uccelli, le piccole
formiche che s’incontrano lungo la via: potrebbero essere descritte tutte
queste cose? Considerato da questo punto di vista, non tutto è stato scritto
negli shastra. Infinita è la diversità della creazione e infiniti i suoi
modi d’essere, i suoi movimenti mutevoli e gli stati inalterati che si rivelano
ad ogni istante. È impossibile mettere per iscritto tutto ciò che sperimenta un
ricercatore della verità. È assolutamente certo che la Realtà è oltre la parola
e il pensiero. Viene detto solo ciò che si può esprimere con le parole. Quanto
non può essere espresso dal linguaggio è Quello che È.
Quando a certi
livelli avrete delle realizzazioni, saranno naturalmente entro i limiti della
vostra particolare linea d’approccio. Nel caso della piena realizzazione, può
un pensiero come: “Non è menzionato negli shastra” avere significato? Le
tappe principali del sentiero, che pensate possano essere trattate a fondo,
sono state certamente discusse negli shastra; ma vi sono anche le
innumerevoli cose che pensate non vi siano espresse. Le esperienze spirituali
verranno da sole, secondo il progresso del sadhaka; ma, laddove l’Illuminazione
è completa, non si pone più la questione d’esperienze importanti o prive
d’importanza. Raggiunta la fine del proprio viaggio, ci dev’essere
l’Illuminazione piena. Può aver raggiunto la meta del suo pellegrinaggio chi
dubita di qualcosa perché non è contenuta negli shastra? Affermazione e
negazione hanno significato solo quando si è ancora sulla via, poiché esiste un
numero illimitato di sentieri, che non possono essere limitati a quanto è stato
esposto negli shastra. Trattandosi dell’Infinito, la diversità
d’approcci è ugualmente infinita, e ugualmente infinita è la varietà delle
rivelazioni in quei sentieri. Non si dice: “Ci sono tante dottrine quanti sono
i saggi”? Se non si ha un proprio punto di vista, non si sarà classificati tra
i saggi.
Questo è un aspetto
della questione; ora passiamo ad un altro. Dal livello in cui si può dire che
tutto è possibile, sarebbe insensato affermare che qualcosa non può accadere
perché non si trova negli shastra o in altre scritture. Ogni zelante
ricerca ha certamente come fine la rivelazione di Quello che è già rivelato.
Potrebbe esservi un desiderio così ardente per qualcosa che non è e che mai può
essere?
In seguito qualcuno
affermò:
La ripetizione
del nome di Rama, Krishna, Shiva, Durga o di qualsiasi altro nome è
completamente inutile, con la sola eccezione del nome ‘Ma’.
Con queste parole si
riferiva non ad una ‘Ma’ qualunque, bensì alla specifica ‘Ma’
adorata da un particolare gruppo di persone.
Qualcun altro: La
realizzazione del Sé non si può ottenere con la ripetizione di alcun nome, ma
solo comprendendo i processi della mente. Ogni problema che sorge nella mente
dev’essere ponderato e compreso in tutte le sue implicazioni e, in tal modo,
dissolto. Se una persona è incapace di farlo da sola può cercare l’aiuto di
qualcun altro, non importa chi. Questo, però, non stabilirà una relazione
permanente tra guru e discepolo. In sostanza chi è il guru, visto che tutti
sono uno?
Mataji: Pitaji, quando
viene dato quest’insegnamento, chi cerca di metterlo in pratica non accetta
automaticamente chi lo espone come proprio guru?
Interlocutore:
No, poiché quando i problemi sono stati risolti, tutti sono di nuovo sullo
stesso piano.
Mataji: Proprio
così; per questo quando il guru dà l’iniziazione al sannyasa si prostra
lungo davanti al discepolo, per dimostrare che non c’è differenza tra guru e
discepolo: invero sono entrambi uno.
C’è uno stadio in
cui non si può in alcun modo considerarsi un guru o accettare un altro come
guru. Esiste un altro stadio in cui non si può pensare a guru e discepolo
separati l’uno dall’altro. C’è ancora un altro stadio, che si può descrivere
così: chiunque in questo mondo dia insegnamenti o istruzioni è considerato un
guru. Vi sono innumerevoli metodi e sillabe sacre concepiti per aiutare l’uomo
a conseguire la realizzazione del Sé; usandone qualcuno si può avanzare verso
la meta.
Concentrandosi sui
problemi che sorgono nella mente, è possibile sciogliere i nodi che
costituiscono l’ego. Per questo motivo il metodo riferito prima non è in
contraddizione con altri. Quanto si è detto sul fatto di essere sullo stesso
piano è anche giusto, poiché in questo mondo le persone devono aiutarsi e
istruirsi a vicenda in molte situazioni della vita; perciò si può dire davvero
che ognuno è un guru. Da un certo punto di vista si può considerare come
proprio guru ogni individuo da cui s’impara qualcosa, non importa quanto. Il
vero guru però è chi, con il suo insegnamento, aiuta a conseguire la
realizzazione del Sé.
Supponete che una
persona stia camminando al buio e che all’improvviso un cane cominci ad
abbaiare rabbiosamente accanto a lui. Che accade? L’uomo accende la lampadina
tascabile e si trova davanti un enorme serpente velenoso. Facendo attenzione
può evitare le sue fauci velenose. In questo caso il cane dovrà essere
considerato il suo guru oppure no? Si potrà certamente obiettare che il cane
non ha abbaiato per rendere l’uomo cosciente, ma chi dà la consapevolezza può
presentarsi anche in forma di cane.
*) – Mataji si riferisce ad una famosa parabola vedantica. Dieci uomini dovevano attraversare un fiume a nuoto. Per essere certi che tutti avessero raggiunto sani e salvi l’altra sponda uno di essi contò il gruppetto, ma con grande costernazione contò soltanto nove persone. Per controllare che non avesse sbagliato, un altro di loro contò gli uomini, pervenendo allo stesso risultato. Ciascuno contò a sua volta, confermando che erano rimasti in nove, anche se non potevano dire chi di loro mancasse. Un mahatma si trovava a passare di lì, e gli raccontarono l’accaduto. Egli li fece mettere in fila, colpì ciascuno con il suo bastone e chiese loro di contare man mano che batteva. Con gioia e stupore realizzarono che nessuno di loro era annegato. “Ciascuno di voi ha dimenticato di contare se stesso”, spiegò il mahatma.
Benares, 17 agosto 1948
Domanda: Secondo
gli shastra, dopo la realizzazione del Sé si può vivere nel mondo come
capofamiglia oppure starsene in disparte come uno spettatore. Quale delle due
vie bisogna seguire?
Mataji: Vedo che
alludete alla storia di Chudala e Sikhidvaja. Volete dire che la vita nel mondo
è possibile dopo la realizzazione del Sé?
Dall’uditorio:
No, nel caso in questione c’era ancora una traccia d’ignoranza, anche se era
solo uno stadio; in quel tempo Chudala non era ancora pienamente illuminata.
Mataji: Per colui
che ha realizzato il Sé non esiste il mondo con le sue coppie di opposti né il
corpo. Se non c’è il mondo è ovvio che non può esserci neppure il corpo!
Domanda: Ma il
corpo sicuramente esiste.
Mataji: Chi dice che
esiste? Non vi è alcuna questione di nome e forma. Chiedersi se un essere
realizzato veda qualcosa al di fuori del Sé è ugualmente fuori luogo. A chi
dire: “Da’, da’!”.* Eppure questo stato di desiderio è proprio la causa che fa
credere nella realtà del corpo, ma siccome non c’è né il mondo né il corpo, non
può esservi neanche azione. È logico. Per rendere la cosa ancora più chiara:
dopo la realizzazione del Sé non c’è corpo né mondo e nemmeno azione – neppure
la più remota possibilità di questi – né c’è un’idea quale ‘non c’è’. Usare le
parole è esattamente la stessa cosa che non parlare; stare in silenzio oppure
no è lo stesso – tutto è soltanto Quello.
La questione di
parlare o non parlare semplicemente non si pone. Vi prego, cercate di
comprendere! Cosa credete sia la vita del mondo dopo la realizzazione del Sé?
Sì, certo, quanto è scritto nella Bhagavad Gita è assolutamente vero;
nondimeno resta valido quanto detto prima, poiché questo corpo risponde
strettamente alla linea di pensiero e allo spirito con cui viene posta una
domanda. Di conseguenza qual è l’opinione di questo corpo? Se c’è una linea
d’approccio, dev’esserci una meta alla quale conduce; e al di là di essa c’è
l’irraggiungibile. Solo in Quello non sorge la distinzione tra raggiungibile e
irraggiungibile. Ciò che udite dipende da come suonate lo strumento. Per questo
corpo il problema della differenza d’opinioni non esiste.
Domanda: Allora
Mataji emette suoni come uno strumento musicale? (Risata)
Mataji: Secondo il
vostro orecchio. Sta a voi giudicare se i suoni che le udite pronunciare hanno
un senso oppure no. Qui (con Mataji), la questione di far vibrare
o meno una corda non si pone. Siete voi a dover decidere se la vostra Mataji è
una buona a nulla oppure è utile, perché lei è vostra figlia ed anche vostra
madre. Il padre sarà in grado di dire se è inutile o se serve a qualcosa. (Risata).
Qualcuno
dell’uditorio: Se il padre lo sapesse, ci sarebbe scampo per lei?
Mataji: È stato detto solo per amore della discussione; ma non è neppure così, e anche il termine ‘non’ è improprio. Ora dove andrete? Dov’è il ‘dove’?
*) – Un gioco di parole: deo = da’, e deho = corpo.
*) – Un gioco di parole: baje indica il suono di uno strumento musicale, ma anche ‘inutile’ e ‘insensato’.
Benares, 14 Agosto 1948
Domanda: Se
l’esistenza fisica è il risultato delle azioni compiute nelle vite passate
(prarabdha), non dovrebbe rimanere almeno una traccia d’ignoranza finché si
continua a vivere nel corpo?
Mataji: Se tutto può
essere consumato, non può essere bruciata anche quella traccia? Ad un certo
stadio, naturalmente, persiste ancora un ultimo barlume d’ignoranza; ma c’è uno
stadio in cui scompare.
Domanda: Si dice
che un essere realizzato continui a rimanere nel corpo a causa del prarabdha
degli altri, in risposta al loro desiderio di godere della sua presenza.
Mataji: Il proprio
desiderio, il desiderio di un altro e l’indifferenza – questi termini indicano
i diversi tipi di schiavitù dovuti al desiderio. Anche se qualcuno sembra
stabilito nel proprio vero essere (svarupa), se può essere
toccato dal desiderio o dal suo contrario, significa che in una direzione o
nell’altra la dipendenza continua ancora. Dovete comprendere che chi è in uno
stato di videha (libertà dalla coscienza corporea) appare incarnato a
quelli che hanno coscienza del corpo. Se dite che il corpo non può sopravvivere
dopo l’illuminazione, allora l’incarnazione è un ostacolo alla conoscenza
suprema? Laddove il Sé è rivelato, il problema del corpo semplicemente non si
pone. In quello stato non esiste la questione di qualcuno o qualcosa in
particolare.
Interlocutore:
Poiché l’illuminazione può consumare tutto, è logico che anche il corpo fisico
debba essere consumato. Alcuni sostengono questa teoria.
Mataji: Il corpo
sarà certamente consumato; ‘corpo’ significa ‘ciò che è soggetto a mutamento’,
e perciò sarà bruciato. È come dite voi. Quando sostenete una teoria, prendete
una certa posizione e ne siete coinvolto; ma quando c’è la realizzazione del Sé
non può mai porsi il problema se il corpo sopravvive o meno.
Domanda: Che
cos’è il nitya lila (l’eterno gioco di Dio)?
Mataji: Che cosa
intendete per ‘nitya’ (eterno)?
Dall’uditorio:
Ciò che non può essere toccato dagli stati di veglia o sonno è chiamato
‘nitya’; così l’ho sentito spiegare.
Un altro: Dualità
(dvaita) e non-dualità (advaita) sono entrambe eterne; si tratta solo di
diversi punti di vista. Quando si ammettono diversi punti di vista, in mezzo a
questa diversità di prospettive si può anche parlare del non-eterno.
Mataji: Se la
visione limitata è scomparsa, come possono esserci distinzioni tra dualità e
non dualità nel Supremo, nella Causa Prima? Chi cerca percepisce le due cose; e
c’è ancora dualità per chi pratica la sadhana, sebbene questi tenda
all’Unità. Dovete comprendere la verità che Chi è duale è invero l’Uno che è
non duale – come il ghiaccio e l’acqua.
Dall’uditorio: Il
ghiaccio non è semplice acqua; bisogna mischiare qualcosa all’acqua per
ottenere il ghiaccio.*
Mataji: Nessuna
similitudine può essere perfetta in ogni senso. In questo caso l’attenzione è
concentrata sull’acqua, che è ghiaccio liquefatto.
Esiste uno stato in
cui la distinzione tra dualità e non dualità non ha luogo. Chi è legato da un
particolare punto di vista, parlerà dal punto di vista che gli è proprio in
quel momento. Dove c’è il Brahman, l’Uno senza secondo,
null’altro può esistere. Voi distinguete la dualità dalla non dualità perché
siete identificati con il corpo, il che vuol dire che siete in uno stato di
continua insoddisfazione.**
Bisogna sottolineare che se attraverso
qualunque tipo di percezione dei sensi si palesa qualcosa che non è Quello e
solo Quello è dovuto all’avidya. Se dite ‘c’è solo Vishnu’, quando in realtà
non Lo vedete ovunque, che cosa avete realizzato? Ancora, che diciate Shabda
Brahman e quindi Brahma o che lo chiamiate Vishnu o Shiva, sono solo
manifestazioni diverse necessarie in differenti linee d’approccio. Tutti i nomi
sono i Suoi nomi, tutte le forme le Sue forme, tutte le qualità le Sue qualità.
Il senza nome e il senza forma è sempre e solo Lui.
Esiste uno stato
d’essere in cui non ha importanza se Egli assume una forma oppure no; ciò che
è, è Quello. In questo caso, cosa c’è da esprimere con le parole? Ad un certo
livello il Sé può rivelare Se stesso a Se stesso. Nello stesso tempo Egli non
Si rivela affatto: a chi dovrebbe rivelarSi? Dove non ci sono forme né
attributi, cosa si dovrebbe esprimere con le parole? Come può essere ostruita
l’Unità, laddove nulla è escluso? In questo stato di totale armonia,
assolutamente nulla è più separato da Lui; ciò che è, È. Cosa si può dire o
tacere, giacché Esso è assolutamente oltre le parole! È evidente che ognuno
parla dal livello in cui si trova; pertanto qualunque cosa venga pronunciata è
la Sua parola, il Suo canto, è rivolto a Lui. Nulla mai può rappresentare un
ostacolo nello stato supremo: se vi sono ostacoli, allora l’ignoranza è
rimasta. In realtà c’è solo Lui – Lui soltanto e nient’altro che Lui.
Immaginate d’aver
modellato una bambola nel burro; qualunque aspetto osserviate – la sua forma,
le sue caratteristiche peculiari, la sua apparenza – essa rimarrà burro e solo
burro. In quanto burro, essa è una sostanza indivisibile. Dividendola
perdereste la sua integrità; perciò la divisione è impossibile.
Ciò che si chiama ‘nitya
lila’ è solo il gioco di Dio, nel quale Lui Stesso interpreta tutte le
parti. Dov’è Dio, il Suo gioco non può essere mai transitorio.* L’Onnipotente
mette in scena il Suo lila infinito, il Suo gioco infinito. Dentro
l’Infinito c’è il finito, e nel finito l’Infinità. Lui, l’Uno che è il Sé,
gioca con Se Stesso: questo è il ‘nitya lila’. Su quel piano sono
presenti diversi aspetti che si confanno ad occasioni e luoghi differenti,
perché non è la sfera della Pura Coscienza! Là anche la divisione partecipa
alla natura della Pura Coscienza, poiché è trascendentale (aprakrit).
Quando parlate di
non dualità, non è implicita l’idea di dualità? Ma nel reame della pura
Coscienza se dite: “Maya esiste”, è così; e se dite: “Non esiste maya”,
è ugualmente corretto. Niente si può escludere. La non dualità che non si
può concepire è vera come quella che si può concepire, poiché tutto è Quello, e
dov’è Quello non c’è contraddizione. Il falso come tale deve scomparire. Come
si può parlare di advaita e includere gli individui, il mondo? Se c’è la
non dualità, possono ancora esservi individui, può ancora esserci il mondo? In
quello stato, dove trovano posto queste cose? Dove c’è solo l’Unità, come può
esservi posto per ‘due’? Non si dice anche: “Dove c’è un uomo c’è Shiva e dove
c’è una donna c’è Gouri”?. Ora riflettete su tutto ciò, da questo punto di
vista.
Qualunque cosa si
possa dire, da qualsiasi punto di vista, è giusto; nulla può essere al di fuori
di Quello. Che diciate che maya ci sia o non ci sia, di fatto la parola
non esprime nulla. Usare o meno le parole, vedere o non riuscire a vedere è
semplicemente questione di punti di vista. D’altro canto, dov’è Quello non
possono esserci punti di vista. I problemi nascono per mancanza di conoscenza,
a causa del velo dell’ignoranza. Fino a quando non si è stabiliti nel proprio
essere essenziale (svarupa) è naturale che sorgano delle domande.
Nel mondo fenomenico
ci sono molte distinzioni, come ‘sopra’ e ‘sotto’; ma Là cosa è e cosa non è?
Come chiamerete lo stato in cui si può ancora parlare di ascesa e discesa? Non
dovete ammettere che sono rimaste varie direzioni? Se parlate di ascesa e
discesa volete dire che dev’esserci un luogo in cui discendere; ma dove può
discendere Lui? Soltanto in Se Stesso, naturalmente. Ascendere e discendere
sono un’unica e stessa cosa. Colui che ascende è Colui che discende, e le
azioni di ascendere e discendere sono pure Lui. Parlate di discesa divina (avatar),
ma di certo Lui non si divide. Voi vedete che il fuoco divampa qua e
là, ma questo non tocca la sua unità; il fuoco come tale è eterno. Ecco come
dovreste comprenderlo. Nessuna similitudine è mai completa. Colui che discende,
da dove discende e dove va – tutto è uno. Non c’è assolutamente nulla al di
fuori di Quello.
Domanda: Se il
Reale rimane ciò che è, allora che significano ascesa e discesa?
Mataji: Ciò che dite
ritrae un particolare punto di vista del mondo. La domanda che ponete è impossibile
laddove c’è la Causa Prima, il Supremo. Ascesa e discesa esistono solo su un
certo piano. Siete voi che dite: “Dio discende”. In realtà non esiste discesa:
Egli rimane là dove è; in Lui sono racchiuse tutte le possibilità. Comprendere
solo con l’intelletto – che significa ‘prendere con’ o, in altre parole, essere
appesantiti dalle concezioni mentali – impedisce d’afferrare la Verità.
Poi, a che cosa
potreste giungere? Lui è già presente anche qui! Ogni cosa trovata sarà persa.
Per prepararsi alla rivelazione di Quello che eternamente È, ci sono
ingiunzioni e numerosi sentieri; ma non vedete che ogni sentiero deve arrivare
alla fine. In altre parole, dovete concentrarvi su quell’immaginazione che
spazzerà via tutte le altre immaginazioni.
Quando sarete andati
oltre ogni immaginazione, ci sarà la rivelazione di Quello che realmente siete.
La cosa bella è che
la stessa natura dell’uomo è desiderare ardentemente la Realtà, la Suprema
Saggezza, la Gioia Divina – come fa parte della sua natura tornare a casa
quando il gioco è finito. Il teatro del gioco è Suo, anche il gioco è Suo, e
così quelli che vi prendono parte, gli amici e i compagni: tutto è solo Lui.
L’ignoranza non è certo quel che si cerca. La vera natura dell’uomo è aspirare
all’immortalità – o è desiderabile la morte? Il mondo s’interessa alla
conoscenza che è ignoranza. Benché sia vero, anche in questo caso si può
osservare come l’uomo costruisca una solida casa che possa durare a lungo,
perché desidera la stabilità. A volte si può dire una menzogna spinti da un
impulso incontrollabile, ma dopo ci si sente a disagio.
La vostra stessa natura è aspirare alla cessazione del desiderio – ed esplorare e penetrare alla radice tutto ciò che percepite. Quando comprate dei vestiti scegliete un tessuto durevole, che non si consumi rapidamente; anche questa è un’indicazione dell’innata tendenza a cercare l’Eterno. La vostra natura è desiderare ardentemente la rivelazione di Quello che È, l’Eterno, la Verità, la Conoscenza illimitata. Ecco perché non siete soddisfatti dell’evanescente, del falso, dell’ignoranza, della limitazione. La vostra vera natura è tendere alla rivelazione di ciò che SIETE.
Lui solo È – perciò
la questione di accettare o rifiutare non si pone. Ha mai cominciato ad
esistere, perché si debba accettarLo? Egli non è mai nato. Secondo un certo
punto di vista è vero che questo mondo non esiste, che la Verità si trova
eliminando nome e forma. D’altro canto, nome e forma sono costituiti dall’akshara*,
dall’indistruttibile; ma, in essenza, Quello è Verità. L’apparizione del
mondo fenomenico (dovuta ad una percezione erronea) e la sua scomparsa (dovuta
alla giusta Conoscenza) sono in definitiva la stessa cosa: sono entrambe Lui.
Non si tratta dunque di correggere un errore; c’è solo Lui, l’Unica Base di
tutto. L’errore di pensare che esista l’errore va sradicato, avendo Lui come
meta. Parlare in questo modo serve solo ad aiutare qualcuno a comprendere.
Lo studio delle
sacre scritture e di testi simili, a condizione che non diventi un’ossessione,
può aiutare ad afferrare la verità. Fino a quando ciò che si è letto non è
diventato esperienza personale, vale a dire non è stato assimilato nel proprio
essere, non ha realizzato il suo scopo. Un seme tenuto nella mano non può germogliare:
per poter manifestare tutte le sue potenzialità deve svilupparsi in una pianta
e produrre frutto. Eppure, nello stato in cui non si può parlare di rivelazione
né di occultamento, ciò che appare e diviene è sempre presente. Ad un certo
livello si vedono, per così dire, bagliori, barlumi della Realtà; anche questo
è uno stadio. Non si può comprendere ciò che si percepisce, e dunque si è
confusi. In verità ci sono innumerevoli stati e stadi. Il potere di ardere del
fuoco è indivisibile, ma come può esserci pienezza e completezza nei cosiddetti
bagliori o barlumi che si percepiscono? La questione della divisione non si
pone solo dove c’è quella pienezza. Ciò che ci vuole è un genuino risveglio, un
risveglio dopo il quale non c’è più nulla da conseguire. Il mondo degli oggetti
dei sensi può o non può essere percepito, non fa alcuna differenza. Esiste uno
stato in cui è così.
Tutto quello che si
fa appartiene al regno della morte, dell’incessante mutamento. Nulla può essere
escluso. Tu sei nella forma della morte e nella forma del desiderio; Tu sei il
divenire e l’essere, la differenziazione e l’identità – giacché Tu sei
infinito, senza fine. Sei Tu che ti celi nel travestimento della natura. Da
qualunque punto di vista si possa fare un’affermazione, non m’oppongo mai ad
essa; poiché Egli è tutto, Lui solo è: l’Uno con forma e senza forma. La vostra
essenza divina non si può rivelare nel vostro stato attuale. Quando si
costruisce un tetto, è essenziale che tutti i materiali che lo compongono
rimangano uniti. Non importa quanto tempo può richiedere, il tetto dev’essere
solido. Allo stesso modo (nessuna similitudine è perfetta), v’identificate
con un tipo di lavoro nel quale siete esperto, credendo che costituisca la
vostra vera natura. Fin qui va bene; ma dov’è la totalità del vostro essere,
che è con forma e senza forma? Dovete riflettere: che cosa dev’essere
conseguito? Dovete diventare coscienti del vostro Sé nella sua totalità. No,
diventare pienamente coscienti non basta; dovete andare oltre coscienza e incoscienza.
Ciò di cui si ha bisogno è la rivelazione di Quello. Dovete continuare a
discriminare, a fare uno sforzo sostenuto per convincere la vostra mente del
fatto che japa, meditazione e tutti gli altri esercizi spirituali hanno
come scopo il vostro risveglio. In questo pellegrinaggio non bisogna rilassarsi
mai: ciò che conta è lo sforzo! Bisogna cercare di rimanere sempre impegnati in
questo sforzo; deve far parte del proprio essere, bisogna fondersi con il
proprio Sé. Sei Tu che gridi disperatamente nell’angoscia, e Tu Stesso sei la
Via e la Meta. Affinché questo possa rivelarsi, l’uomo deve usare con vigore
incessante la propria intelligenza.
Un albero s’annaffia
alle radici. La radice dell’uomo è il cervello, dove il suo potere raziocinante
– l’intelletto – è costantemente al lavoro. Tramite il japa, la
meditazione, lo studio delle scritture e simili pratiche, si progredisce verso
la Meta.
L’uomo deve dunque
impegnarsi e, fissando lo sguardo sull’Uno, avanzare lungo il sentiero.
Qualunque legame, vincolo o restrizione s’imponga deve avere come fine la Meta
suprema della vita. Bisogna andare avanti con indomita energia alla scoperta
del proprio Sé.
Che s’intraprenda il
sentiero della devozione, in cui l’ ‘io’ si perde nel ‘Tu’, o il sentiero della
ricerca del Sé, in cerca del vero ‘Io’, si troverà soltanto Lui tanto nel ‘Tu’
quanto nell’ ‘Io’.
Perché mentre si percorre il sentiero lo sguardo dev’essere fisso? Lo sguardo è Lui e anche il ‘perché’ è Lui. Ciò che è rivelato o nascosto, dovunque e in qualunque forma, sei ‘Tu’, è l’ ‘Io’. Negazione e affermazione sei ugualmente ‘Tu’: l’Uno. Lo capirete pienamente solo quando troverete tutto dentro di voi – in altre parole, nello stato in cui non c’è altro che il Sé. Ecco perché, mentre siete sulla via, dovete dirigere lo sguardo verso l’Eterno. Anche la limitazione è una manifestazione dell’Illimitato, dell’Infinito; in essenza non è altro che il vostro Sé. Fino a quando tutto questo non si rivela, non si può parlare di realizzazione piena, completa, perfetta, che tutto comprende – chiamatela come volete! In tale stato di Compimento come potrebbe sorgere ancora la questione della perfezione o dell’imperfezione, della completezza o dell’incompletezza?
*) – Il termine ‘akshara’ significa ‘indistruttibile’, e anche ‘lettere dell’alfabeto’.
Raipur, Dehradun, 6 settembre 1948
Domanda: Dite che
tutti i momenti sono contenuti nell’unico Momento supremo. Non riesco a capire.
Mataji: Il momento
della nascita determina l’esperienza della vita, ma il Momento supremo che si
rivela nel corso della sadhana conduce al completamento dell’azione e
quindi del karma. Dovete capire che chi è impegnato nell’azione è
soggetto alla natura (prakriti). Gli elementi che costituiscono
la natura sono chiamati guna,* perché si moltiplicano; poiché
questo mondo non appartiene all’eternità. La percezione del mondo costituito
dai tre guna è transitoria e soggetta al tempo. Visto così, si deve
riconoscere che il mondo è transitorio. Il vairagya può consumare e il bhava
e la bhakti fondere ciò che vi è d’impermanente nella natura umana.
Quel momento in cui è impossibile bruciare e fondere è il Momento eterno. Ciò
che dovete fare è cercare e afferrare quel Momento. In realtà, questo è Quello
– ogni cosa percepita è Quello; come potrebbe Quello essere separato da
qualcosa? È così quando un uomo entra
nella corrente; per costui può ancora esistere la divisione tra presente,
passato e futuro? Uno yogi può prendere qualcosa che sta dall’altra parte del
muro semplicemente allungando la mano. Se ciò è possibile, nonostante esista,
il muro non è là; ma anche se non esiste, il muro può operare come se
esistesse. La cosa sta dietro il velo, ma il velo è davanti a voi. Il velo in
precedenza non c’era né ci sarà in futuro; dunque neanche ora esiste realmente.
Da un certo punto di vista è così.
Dovete capire che il
processo yogico, grazie al quale il velo non ha il potere d’ostacolare la
libera attività dello yogi, è analogo al metodo attraverso cui egli percepisce
un oggetto comunemente invisibile; inoltre, sebbene movimento e riposo
rimangano ciò che sono, per chi può vedere essi perdono ogni distinzione. In
quello stato vi sono possibilità illimitate; ma questo corpo non ha sempre il kheyala
di dire ogni cosa. Tutto questo appartiene al regno del meraviglioso (camatkara).
Per tornare al
‘momento’: il momento che vivete è distorto, mentre il Momento supremo contiene
essere e divenire – tutto; eppure non c’è nulla, nonostante vi sia tutto. Per
questo non si pone la questione del Momento supremo né quella del momento che
fa parte del tempo che scorre.
Più tardi fu di
nuovo sollevato l’argomento del ‘momento’.
Mataji: Momento
significa tempo, ma non ciò che voi chiamate tempo. Tempo (samaya)
significa sva-mayi*, lo stato in cui tutto è visto soltanto come il Sé,
e in cui nient’altro può esistere accanto al Sé.
Domanda: Dite che
c’è riposo (sthiti) nel movimento (gati) e movimento nel riposo. Che significa?
Mataji: Quando il
seme viene unito alla terra, quando i due sono mischiati, in quel momento c’è
riposo; ma subito dopo comincia il processo di germinazione, e di certo questo
implica movimento. Muoversi significa non rimanere in un posto; nondimeno, era
in un unico e stesso luogo – perché era? – lo è tutt’ora. Ogni stadio della
crescita di un albero rappresenta un punto di passaggio. Ancora, le foglie
crescono e infine cadono, il che indica un mutamento di stato; lo è e non lo è,
giacché dopotutto fanno parte dello stesso albero. L’albero potenzialmente
contiene il frutto: ecco perché lo maturerà – ‘maturerà’ vuol dire ‘matura’. (Nessuna
similitudine è perfetta in tutto).
Mataji disse di
nuovo:
In realtà c’è solo e
sempre l’Unico Momento. Come un singolo albero contiene innumerevoli rami,
innumerevoli foglie, una quantità infinita di movimenti e incalcolabili
condizioni statiche, così un momento contiene un numero infinito di momenti, e
dentro questi innumerevoli momenti c’è l’Unico Momento. In quel Momento supremo
c’è sia movimento sia riposo. Allora perché parlare della rivelazione di quel Momento?
Perché ingannati dalla vostra percezione delle differenze, considerate voi
stessi e ogni singola creatura o oggetto del mondo separati gli uni dagli
altri; per questo motivo per voi esiste la separazione. Il senso di
separazione in cui siete intrappolati, vale a dire l’idea del momento della
vostra nascita, determina la vostra natura, i vostri desideri e il loro
appagamento, il vostro sviluppo, la vostra ricerca spirituale – tutto. Di
conseguenza, il momento della vostra nascita è unico, il momento della nascita
di vostra madre è unico, e così quello di vostro padre; la natura e il
temperamento di tutti e tre è unico.
Ciascuno di voi,
secondo la propria particolare linea d’approccio, dovrà cogliere il tempo, il
momento che vi rivelerà la relazione eterna attraverso la quale siete uniti
all’Infinito: questa è la rivelazione del Mahayoga, l’Unione Suprema.
Unione Suprema vuol dire che l’intero universo è dentro di voi, e che voi siete
in esso. Non ci sarà motivo di parlare dell’universo, sia che affermiate che
esiste o che non esiste sia che non può neppure dirsi che esista o non esista,
o altro ancora – come vi pare. Ciò che importa è che Egli si sia rivelato, in
una forma o l’altra.
In quel ‘Momento’,
in quell’attimo di tempo – quando lo troverete – conoscerete il vostro Sé.
Conoscere il vostro Sé implicherà (in quello stesso istante) la rivelazione di
cosa sono in realtà vostro padre e vostra madre, e non solo vostro padre e
vostra madre ma l’intero universo. È quel Momento che collega l’intera creazione.
Conoscere voi stessi non significa conoscere solo il vostro corpo; significa la
rivelazione piena di Quello che eternamente È – il Supremo Padre, Madre, Amato,
Signore e Maestro – il Sé. Nel momento della vostra nascita non sapevate di
venire al mondo; ma quando afferrerete il Momento supremo, in un attimo saprete
Chi siete in realtà.
Nell’istante in cui
scoprirete il vostro Sé, l’intero universo diventerà vostro. Così come nel
ricevere un seme avete ricevuto potenzialmente un numero infinito di alberi,
allo stesso modo dovete catturare l’Unico Momento Supremo, con la realizzazione
del quale non rimarrà più nulla d’irrealizzato.
Il senso di mancanza
e di vuoto (abhava) e il proprio vero essere (svabhava) sono
esattamente nello stesso luogo: in effetti sono Quello, e soltanto Quello. Che
cos’è il ‘senso di mancanza’, e cosa il ‘vero essere’? Lui, null’altro che Lui.
Per la semplice ragione che c’è un solo seme, che è l’albero, il seme e tutti i
vari processi di trasformazione – invero soltanto l’Uno.
Voi cercate d’appagare un desiderio con un altro desiderio; pertanto il desiderio non scompare, e neppure il senso di mancanza. La ricerca spirituale diviene genuina solo quando l’uomo si desta alla viva coscienza di questo senso di mancanza. Ricordate che la vera ricerca comincia solo quando il senso di mancanza diventa senso di mancanza della conoscenza del Sé. Che lo chiamiate Uno, Due o Infinito – qualunque cosa si possa dire – tutto è giusto.
*) – Un gioco di parole: il termine ‘guna’ significa tanto ‘moltiplicare’ quanto ‘qualità’.
Benares, 26 ottobre 1948
Mataji partì per
Jhusi. Alla stazione di Benares ebbe luogo una conversazione.
Domanda: Ho
sentito dire che uno yogi, grazie al potere del suo yoga, può prolungare la
vita di un uomo di uno o due mesi al massimo. Il potere di uno yogi comune non
può conseguire di più a questo riguardo.
Mataji: Sì, ad un
certo stadio è così; ma il fatto che la vita umana sia stata prolungata, anche
di un mese o due, mostra che un ulteriore aumento è solo questione di un
maggior potere yogico.
Uno dei metodi per
accrescere la durata della vita di un uomo consiste nel prenderne un periodo da
quella di un altro. C’è anche un metodo attraverso cui si può prolungare la
vita di un uomo senza sottrarne un periodo da quella di un altro. Ci sono yogi
in grado di usare i loro poteri in questo modo; ma laddove il Potere Creativo
non è ostruito, è una questione completamente diversa.
Domanda: Ne segue
allora che il corpo fisico può essere reso immortale?
Mataji: Là, tutto è
possibile.
Interlocutore:
Senza dubbio; se Egli è concepito onnisciente e onnipotente, come potrebbe
esserGli impossibile qualcosa? Nondimeno negli shastra non si trova un solo
esempio di un corpo fisico reso immortale. Hanuman ed altri sono considerati
immortali, ma ci viene detto che anche loro di tanto in tanto devono cambiare
corpo servendosi dei loro poteri yogici.
Mataji: Nello stato
supremo tutto è possibile ed anche impossibile. Dire: “Questo o quello non è
mai successo” vuol dire parlare semplicemente dal punto di vista dell’individuo
del mondo. Se il corpo dev’essere mantenuto in un’unica e stessa condizione,
anche questo può essere e viene fatto. Ora considerate la cosa da un altro
punto di vista: i corpi generano corpi, gli alberi alberi, e così via. In un
certo stato c’è essere e non-essere. Laddove esiste, è manifesto e continuerà
ad essere manifesto tutto ciò che è stato appena discusso; là cosa è e cosa non
è? Quando dite che negli shastra non se ne trova esempio, il motivo è
che laddove la Verità è rivelata – almeno nella misura in cui è rivelata –
queste cose si conoscono mediante percezione diretta.
Domanda: Vi ho
sentito dire che un individuo può avere molti corpi. Se fosse così, un uomo
potrebbe nello stesso tempo praticare yoga con un corpo e con l’altro provare i
piaceri e i dolori della vita. Per uno yogi questo potrebbe essere fattibile;
ma come potrebbe avere luogo nel caso di una persona comune, che è ancora
nell’ignoranza?
Mataji: Sì, proprio
così. Si può fare per mezzo dei poteri yogici, ma per la persona comune sembra
impossibile.
Quando guardate il
bocciolo di un fiore, percepite solo il bocciolo; ma di fatto quel piccolo
bocciolo contiene il fiore pienamente sbocciato, il frutto, il seme e l’intera
pianta. La manifestazione è universale e illimitata, ma la visione che ne avete
è parziale, da un angolo, dipendente da ciò che in un determinato momento vi
appare davanti agli occhi. Guardate con una visione d’insieme e cercate di
scoprire chi è in realtà quel particolare yogi, quel particolare individuo!
Il vostro corpo è
stato dapprima quello di un bambino, poi è diventato quello di un giovane e in
seguito diventerà vecchio. Infanzia, gioventù e vecchiaia sono dentro di voi.
Se fosse altrimenti, da dove potrebbero venire? Sentite dire ad altri che da
bambino la vostra faccia era così e così; è la prova che la vostra faccia da
bambino è presente anche in questo momento, altrimenti come potrebbe essere
descritta? In maniera simile, il vostro corpo è sempre presente in ognuna delle
sue fasi: com’era nel passato, com’è adesso e come sarà in futuro. È così
laddove passato, presente e futuro sono sperimentati come eterno-presente.
Il tempo divora tutto incessantemente. L’infanzia è appena passata e l’adolescenza ne prende il posto, l’una divora l’altra; non può essere afferrato dalla percezione comune. Il cambiamento viene osservato solo in misura minima. In effetti apparizione, continuazione e scomparsa avvengono contemporaneamente in un solo posto. Tutto è infinito; finito e infinito sono invero la stessa cosa. In una ghirlanda il filo è uno, ma tra i fiori ci sono degli spazi. Sono questi spazi che causano desiderio e dolore. Riempirli vuol dire essere liberi dal desiderio.
Benares, 21 marzo 1949
Qualcuno ha
affermato che bhakti e vedanta sono due dottrine o vie
d’approccio completamente differenti.
Mataji: Dove ci sono
dottrine non può esserci comprensione.* Ciò che viene enfatizzato da un punto
di vista sarà rigettato dall’altro; ma dov’è lo stato in cui bhedabheda, la
differenza e la non-differenza, cessano di esistere? Alcuni sostengono che la
concezione di Radha-Krishna sia del tutto vedantica, poiché Krishna non può
esistere senza Radha né Radha senza Krishna; essi sono due in uno e uno in due.
Interlocutore: Si
dice che l’eterno lila di Dio sia basato sulla dualità.
Mataji: La
supposizione della dualità è ugualmente all’interno dell’Unità; alcuni sono di
quest’opinione.
Domanda: Qual è
il vero significato dei termini dhama, lila e parikara?
Mataji: Dicono che
anche in mezzo a questo lila l’Unità rimanga immutata. Nel lila si
gode del rasa, che è unico; anche nel vedanta la dualità è fuori
questione. Anche se agli occhi del bhakta sembra manifestarsi la dualità,
anche qui c’è solo Unità. Se non si vedono le cose con le lenti del bhakta,
non si può capire. Visto dal suo punto di vista, appare così.
Supponete che quando
il guru dà l’iniziazione insegni al discepolo a praticare l’adorazione formale
di Radha-Krishna, a considerare se stesso come il servitore e Radha-Krishna
come il Maestro. Impegnandosi regolarmente in questo tipo d’adorazione e di
servizio possono avvenire varie cose.
Prima di tutto si
sente che la stanza in cui si pratica l’adorazione va consacrata alla Divinità,
che dev’essere adorata con luci, incenso, ecc. (arati). Giorno dopo
giorno, continuando a compiere questi atti d’adorazione, ci si comincerà a
chiedere: “Il mio Signore è piccolo come questa statuina? Dimora soltanto nel
mio tempietto?”. Servendolo, gradualmente si perverrà a sentire che tutto è
Suo. Questo sentimento farà presa e si diffonderà come una malattia contagiosa.
Una volta qualcuno disse: “Non provate ad avvicinare Anandamayi Ma, vi sono
germi di vaiolo intorno a lei”. (Risata).
La devozione rivolta
ad una sola cosa genera pensieri profondi, che si esprimono nell’azione. La
Luce del Signore scende sul devoto; in lui si desta il Suo Potere e, di
conseguenza, si manifesta una profonda ricerca interiore.
Segue poi lo stadio
in cui può capitare di avere la visione dell’Amato – per esempio, mentre si
puliscono i vasetti usati per il puja, oppure Lo si può vedere vicino al
letto quando si dorme. All’inizio si crede che il Signore sia presente nel
proprio tempietto, ma di lì a poco si è in grado di percepirLo qua e là. In uno
stadio ulteriore, non Lo si vede più in posti particolari, ma ovunque si
volgano gli occhi: Lo si vede seduto sugli alberi, in mezzo all’acqua; Lo si
percepisce dentro animali e uccelli. Anche in questo caso, però, la visione che
si ha di Lui non è continua.
Viene poi il tempo
in cui l’Amato non lascia più il devoto: ovunque questi vada, Egli è sempre al
suo fianco e la Sua Presenza è percepita costantemente.
A cosa somiglierà lo
stadio successivo? La forma, la varietà e l’apparenza dell’albero – tutto è il
Signore. In uno stadio precedente Lo si percepiva all’interno degli oggetti; ma
ora non Lo si vede più dentro gli oggetti, poiché non esiste altro che Lui.
Alberi, fiori, acqua e terra – tutto è l’Amato, solo Lui. Ogni forma, ogni modo
di essere, ogni espressione – tutto ciò che esiste è Lui, e non esiste altro
accanto a Lui. Può succedere che un sadhaka rimanga in questo stato per
tutta la vita.
Se tutto è il
Signore, e nient’altro che Lui, allora anche il proprio corpo dev’essere Lui –
l’Unica Esistenza. In questo stadio si è profondamente assorti nel dhyana e
non è possibile alcuna attività fisica – sia essa la pratica del rituale o gli
atti di servizio. Poiché soltanto Lui è, il devoto non esiste più separato da
Lui. Che direbbero i vedantini? “C’è solo Brahman senza un secondo”;
nondimeno per alcuni che hanno realizzato questo stato, la relazione tra il
Signore e il Suo servo rimane ed è sentita così: “Egli è il Tutto ed io sono
parte di Lui, tuttavia c’è solo l’Unico Sé (Ek Atma)”. Perché
obiettare se si descrive il Brahman come lo splendore del corpo di
Krishna? In verità tutto è identico, indiviso. Realizzarlo significa immergersi
completamente nell’Oceano dell’Unità.
Realizzato questo,
si può continuare a fare il puja e il servizio, poiché la relazione tra
maestro e servitore continua. Mahavira disse: “Lui ed io siamo uno, tuttavia
Egli è il Tutto ed io sono una parte di Lui; Egli è il Maestro, io sono il Suo
servo”. Si fa l’esperienza della Totalità e anche dello stato di servo del
Signore. Perché si dovrebbe obiettare se la relazione tra servo e Maestro
continua ancora, anche dopo avere realizzato l’Unico Sé? All’inizio è stato
quello il sentiero verso la propria meta; dopo la Realizzazione è Lui, l’Uno,
che serve. Questo è il vero servizio – chiamatelo mukti, parabhakti o
come volete.
Il maestro
spirituale dà l’istruzione. Per lui fare o non fare japa è esattamente la
stessa cosa; ciò non implica contraddizione. Chiamandolo maestro del mondo,
come si possono trovare difetti in lui?
Domanda. Dopo avere
realizzato l’Unità di tutto, per quale bisogno o imperfezione diventa di nuovo
necessario adorare una particolare divinità?
Mataji: In quello
stato non c’è bisogno né imperfezione.
Interlocutore:
Non può allora essere servizio o adorazione come l’intendiamo noi!
Mataji: Potete
chiamarlo come vi pare. Il punto è questo: Shukadeva era un essere liberato!
Perché allora narrò lo Srimad Bhagavatam? Che risposta avete? Qui non
c’è posto per il bisogno o l’imperfezione che nella fase iniziale spinge il
devoto a servire e ad adorare.
I vedantini scartano
una cosa dopo l’altra, dicendo “neti, neti”. (‘non questo, non quello’).
Oggi infatti vedete un bellissimo fiore e qualche giorno dopo è stato ridotto
in polvere; perciò quel che dicono è perfettamente vero. Ciò che è soggetto a
cambiare, cambierà senz’altro. D’altra parte, esprimendosi nei termini di
coloro che credono nella realtà di nome e forma, si potrebbe dire: “Tutti i
nomi sono il Tuo nome, tutte le forme la Tua forma”. Qui nome e forma sono
ugualmente reali. Si potrebbe argomentare ancora: “Ciò che è legato al
mutamento è il mondo. Perseverando nella pratica della discriminazione, alla
fine ci si stabilisce nell’Unica Realtà”. Quando c’è solo l’Unico Oceano –
cioè soltanto acqua – non ci si può vedere separati dal Tutto. Questa è
l’immersione totale; eppure, se all’esterno o all’interno rimanesse asciutto
anche un solo capello, significherebbe che l’immersione completa non è ancora
avvenuta. Una volta che un seme è stato bruciato non potrà più germogliare.
Allo stesso modo, dopo avere realizzato l’Unità potrete fare qualsiasi cosa, ma
non ci sarà più il seme del karma; e dove questo non è presente,
là tutte le forme e le varietà sono solo Quello. Con l’intensa devozione e la
discriminazione vedantica si è arrivati all’Unica Essenza. ‘Fondersi in Esso’
significa allora diventare come pietre? No davvero, perché forma, varietà e
manifestazione sono soltanto Quello.
I tratti
caratteristici del sentiero specifico di ogni persona saranno naturalmente
conservati: tuttavia, ciò che si raggiunge è l’Uno in cui non può sussistere
alcun dubbio, alcuna incertezza. In effetti, cosa c’è da raggiungere? Noi siamo
Quello – l’eterna Verità, che rimane separata da noi perché immaginiamo che
debba essere sperimentata, realizzata. Questo punto di vista è valido a certi
livelli, ma non ad altri. L’eterno È sempre. Ciò che si chiama ‘il velo
dell’ignoranza’ significa movimento continuo. Movimento significa mutamento,
trasformazione incessante; ma nessun mutamento ha luogo dove c’è non-azione
nell’azione. Per chi lo ha sperimentato, la dualità non esiste; allora chi è
che mangia, e cosa potrebbe mangiare? Come potrebbero esservi teorie o dispute
in questo stato? Qualcuno può argomentare che poiché una determinata persona
parla, non può avere ottenuto quello stato; ma che cosa dice e a chi? Chi è la
persona alla quale parla? Quando sopraggiunge la Realizzazione totale è così.
Quando si cerca di
spiegarlo agli altri, ci si accorge che non comprendono. Realizzare che
qualcuno non ha compreso implica che si è tornati nell’ignoranza? Si sono
realizzate entrambe le cose: essere in grado di capire ed essere incapace di
capire. Chi è limitato dal punto di vista del mondo è in schiavitù; ma dove c’è
la visione di Quello, la conoscenza dell’ignoranza e la conoscenza della
Conoscenza si rivelano in tutta la loro pienezza. Non può sorgere assolutamente
la questione di vedere separatamente conoscenza e ignoranza. Azioni come
mangiare e così via, diventano azioni nell’inazione. Che differenza fa se si
compiono ancora rituali oppure no? Sapere e non sapere sono ora
contenuti nella loro interezza dentro di Sé. Comprendere questo stato è davvero
difficile! È facile comprendere una particolare linea d’approccio o un certo
livello; ma qui non si tratta di conseguimento o non-conseguimento, e dunque
anche il non-conseguimento non è una mancanza. Se però fosse rimasto anche il
più piccolo attaccamento, significherebbe che non è stato ancora raggiunto lo
stato sublime. Qualcuno potrebbe diventare ricco vendendo prodotti
d’imitazione. Perché si comprano prodotti d’imitazione? Perché somigliano a
quelli autentici; è questo che attira! Con l’uso l’inganno verrà alla luce, e
si andrà di nuovo in cerca del prodotto originale.
Avendo realizzato l’Unico Sé, e che non esiste nulla al di fuori di Esso, un devoto sa che l’immagine che ha adorato è Quello in una determinata forma. Dopo aver trovato la Realtà, la si percepisce in quella forma particolare: la divinità che ho adorato non è altro che l’Unico Sé, il Brahman – non c’è secondo. Il Signore che adoravo è l’Uno. Quando ci s’immerge nel mare, si sa che l’acqua è Lui in una certa forma. Quando l’aspirante che avanza lungo il sentiero della bhakti perverrà alla visione del Maestro, diventerà un vero servitore. I due metodi ‘non questo, non quello’ e ‘questo sei Tu, quello sei Tu’ conducono all’Unica Meta, che viene raggiunta procedendo per una direzione; ma prendendo l’altra direzione s’arriva ugualmente alla stessa identica Meta. Quelli che seguono il sentiero dell’abbandono alla Shakti, l’Energia Divina, e quelli che adorano l’immagine di Shiva, alla fine giungeranno all’unica Shakti, all’unico Shiva. Quelli che avanzano lungo la via del vedanta scopriranno che il ghiaccio è acqua, che non c’è forma, ma solo il senza forma; mentre il bhakta realizzerà che il suo Amato è solo il Brahman. Ognuno ha il suo metodo d’approccio. L’Uguaglianza, l’Unità, dev’essere realizzata e deve diventare uno stato permanente. Se, dopo averla conseguita, qualcuno dicesse: “Rinuncio alla liberazione”, oppure: “Abbandono l’adorazione del mio Ishta”, anche se l’abbandonasse nulla andrebbe perduto, perché in quello stato non c’è rinuncia né continuità. Ci si potrebbe chiedere: “Perché non c’è un unico sentiero per tutti?”. Perché Egli rivela Se Stesso in forme e modi infiniti; invero, l’Uno è tutti questi. In quello stato non c’è ‘perché’. Dispute e argomentazioni esistono solo lungo la via. Con chi si dovrebbe discutere? Dispute e differenze d’opinione sono possibili solo fintanto che si è ancora sulla via.
*) – Un gioco di parole: in sanscrito vada significa dottrina. La parola bengali ‘bada’ significa esclusione. In bengali le consonanti v e b si pronunciano allo stesso modo.
Domanda: Ci sono
tanti nomi di Dio quanti sono i credi oppure in realtà c’è solo un credo e un
nome?
Mataji: Qual è la
vostra opinione, pitaji?
Qualcun altro: Ci
sono molti credi e molti sentieri, ma di fatto tutte le strade conducono alla
stessa unica Meta.
Mataji: Discussioni
e controversie appartengono al sentiero, ma invero ciascuno è a casa sua. Lo
stesso sentiero non può essere per tutti; anche i fratelli di una stessa
famiglia hanno inclinazioni e preferenze diverse. Ad alcuni piacerà il vedanta,
ad altri la via vaishnava, ad altri ancora il culto della shakti;
perciò non si può dire che c’è solo un sentiero. In effetti, ogni singolo
ricercatore della verità è modellato in maniera unica, differente dagli altri;
tutti però dovranno passare attraverso la porta della Verità.
Domanda: I credi
sono allora realmente differenti l’uno dall’altro?
Mataji: Potete
vedere che ogni guru ha un certo numero di discepoli. Volete cercare di
convertire ciascuno di loro allo stesso credo? Quante sette sono state fondate
proprio perché molte persone hanno abbandonato la loro? Ciò che avete detto, pitaji,
in realtà è verissimo. Ma dove? In ciò che appare quando si abbandona ogni
cosa. Cosa appare allora? Lui stesso – Quello.
Interlocutore: La
mia opinione è presa in prestito, nata da ciò che ho sentito dire ad altri.
Mataji: Perché avete
adottato questo particolare punto di vista? Questo corpo presenta le cose dal
punto di vista dei rishi e dei muni, secondo la linea d’approccio
da loro indicata. Nel mondo ci sono innumerevoli opinioni e scuole di pensiero,
ma non faranno al caso del ricercatore. Il metodo da adottare è quello che
prescrive il guru: seguendo quella corrente il devoto sarà portato verso
l’Oceano.
Domanda: Quando
il tempo giungerà alla fine, tutti dovranno immergersi in quell’Oceano? Com’è
possibile che persone che hanno mete così diverse, come per esempio i vaishnava
con i loro ‘salokya’, ‘samipya’, ecc., e i vedantini con il loro ‘stato equilibrato del
Sé’, finiscano per fondersi nell’Unico Oceano?
Dall’uditorio:
Riso soffiato e ‘murmura’ sono nomi che indicano la stessa cosa!
Mataji: Se riso
soffiato e murmura fossero la stessa cosa, perché dovrebbero essere
chiamati con due nomi diversi? Ci dev’essere qualcosa che li differenzia, anche
se entrambi sono essenzialmente riso. Il senso di ‘mio’ e ‘tuo’ è rimasto. Cosa
dite, pitaji? (Risata). Quando parlate di credi e
sentieri, ricordate che si parla di sentieri solo mentre si è sulla via.
Interlocutore:
Quando si giunge oltre il livello in cui
ogni credo rappresenta una diversa linea d’approccio, non ci sono più
discorsi e controversie.
Mataji: Nel ‘non ci
sono’ è implicito anche ‘ci sono’, poiché senza di esso non sarebbe potuto
spuntare il ‘non ci sono’. Tanti affermano d’appartenere ad una certa setta, ma
Lui si trova dove non vi sono dottrine né controversie, alla base – presente
in tutte le innumerevoli forme. Che parliate dei molti o dell’Uno, è una
questione di prospettiva. Si pianta un seme e cresce un albero con innumerevoli
fiori e foglie, che dispiega infiniti modi di divenire e innumerevoli fasi di
riposo; tuttavia, nell’essenza, è uno. Ogni credo, ogni scuola di pensiero ha
il suo particolare metodo d’approccio. Fino a quando percorrete un particolare
sentiero, per quel periodo di tempo per voi c’è solo un sentiero. Molto bene,
ora lasciamo stare questo punto. Pitaji, avete chiesto in che modo
quelli che mirano a mete completamente differenti possano alla fine – quando il
processo del tempo giunge al termine – fondersi nell’Unico Oceano. Quando
parlate di ‘termine’, parlate entro i limiti del tempo; tuttavia dove c’è il
tempo c’è anche qualcosa al di là di esso. Dove però non potrà più sorgere la
questione del ‘termine’ o del ‘tempo’, Là tutto sarà unito.
Domanda: Se si
continua a parlare e a discutere significa che persiste ancora qualche tipo
d’imperfezione?
Mataji: Sì, chi
è ancora nel regno della parola, vale a dire dei discorsi materiali sulle cose
del mondo, è nei confini del tempo; ma ‘Lì’ la questione del parlare non sorge.
Ecco perché quanto detto prima non si applica ad un vero maestro del mondo. Ciò
che dice un maestro è diverso dai discorsi di questo mondo.
Domanda: Vi prego
di spiegare la natura della felicità divina e di quella mondana.
Mataji: La felicità
divina – quella che chiamate parama sukhadam – è pura e semplice beatitudine,
felicità che non dipende da nulla.
Domanda: Di certo
vi è felicità anche nel mondo!
Mataji: Perché
allora fate quest’osservazione?
Domanda: Perché
la gente insegue la felicità materiale?
Mataji: Conoscete
questa felicità per esperienza, da qui la vostra domanda; ma Dio è
misericordioso e vi fa vedere che questa cosiddetta felicità non è tale. Egli
suscita in voi il malcontento e l’angoscia, dovuti alla voglia di comunione con
il Divino. La felicità del mondo deriva dalle innumerevoli manifestazioni di
Dio. La gente parla e si meraviglia di quelli che rinunciano al mondo, ma in
realtà siete voi che avete rinunciato a tutto. Che cos’è questo ‘tutto’? Dio!
LasciandoLo da parte, tutti stanno letteralmente praticando la rinuncia
suprema. (Risata). È naturale che si desti il senso di bisogno.
Anche in mezzo a comodità e piaceri ci si sente in terra straniera. C’è dolore
anche nella felicità; le cose che si possiedono non sono veramente proprie:
questo è ciò che Lui fa sentire all’uomo. Non si dice che venendo percossi si
riacquistano i sensi? S’impara ricevendo colpi.
Quando Egli Si
manifesta come felicità materiale non si è contenti, perché insieme ad essa
Egli si manifesta come senso di bisogno; mentre neppure la più piccola
particella di un granello di felicità divina abbandona mai. La Felicità Suprema
sorge quando si realizza l’Essenza delle cose e si trova il proprio Sé. Una
volta trovato, non rimane altro da trovare; il senso di bisogno non si desterà
più e il tormento del cuore sarà placato per sempre.
Non siate soddisfatti della felicità discontinua, interrotta inevitabilmente dalle scosse e dai colpi del fato. Diventate completi e, raggiunta la perfezione, siate il vostro stesso Sé.
Domanda: Perché
non si ricordano le vite passate?
Mataji: Per
ignoranza; non c’è conoscenza, a causa del velo che la ricopre.
Domanda: Perché
dev’esserci il velo? Dopo la morte del corpo, la mente continua perché i
samskara continuano a vivere. Dal momento che i samskara rimangono e
considerato che si è in grado di ricordare ciò che è successo ieri e oggi,
perché si dovrebbero dimenticare gli eventi delle vite passate?
Mataji: Quando si
entra nel regno dell’oblio, si dimentica tutto; questo mondo è il regno del
non-ricordo.
Domanda: Perché
si dovrebbe dimenticare tutto? Non si potrebbe ricordare almeno una parte?
Mataji: Si dice che
il Signore Buddha abbia parlato degli eventi di cinquecento sue vite passate.
Potete ricordare qualcosa che avete provato nella vostra presente nascita,
dall’infanzia fino ad ora? Voi morite ad ogni istante senza esserne
consapevoli. Ora non siete un neonato né un bambino né un giovane. Quando un
bimbo nasce comincia spontaneamente a bere il latte di sua madre, e dopo aver
bevuto si sente felice e soddisfatto; con questo fatto dà già piena
testimonianza delle sue nascite precedenti. Anche ora, quando viene soddisfatta
la vostra fame, provate lo stesso senso di benessere e contentezza che avete
provato nella prima infanzia, anche se non ricordate ciò che avete sentito
allora.
Domanda: Come mai
i samskara rimangono?
Mataji: Per la forza
dell’assidua pratica (abhyasa yoga). Dirigete i vostri sforzi alla
realizzazione di Dio, e nel momento della morte il ricordo di Lui verrà
automaticamente. L’individuo è ciò che è legato, mentre il mondo è movimento
perpetuo. Tutto ciò che appare nel mondo delle creature è una manifestazione
dell’Uno. Il fatto che moriate in ogni attimo – o, in altre parole, che Brahma,
Vishnu e Shiva siano sempre al lavoro – diventa palese quando il corpo muore.
Fino a quando vagate nel mondo dell’oblio dovete necessariamente dimenticare.
Che cos’è un samskara?
Prendiamo per esempio il samskara di un tempio; vale a dire, viene
rivelato quello che già esisteva. Tutto quello che fate, coscientemente o
incoscientemente, che ne siate consapevoli o no, lascia un’impressione nella
vostra mente. Questo è chiamato samskara. Chi ha la capacità di vedere
sarà in grado di discernere che queste impressioni o samskara appartengono
alle vite precedenti. Uno yogi può percepire le impressioni di un gran numero
di vite passate. Si possono vedere gli eventi di migliaia delle proprie nascite
precedenti, ma quando si realizzerà quel che è realmente la creazione, con le
sue correnti ascendenti e discendenti, cosa si vedrà? Si vedrà e non si vedrà;
e né si vedrà né non si vedrà. Quando ciò che esiste si rivela nella sua
pienezza, si chiama rivelazione del Sé, Quello Stesso, l’Uno che splende di
luce propria – chiamatelo come volete.
La nascita di tutto
ciò che esiste in questo mondo – siano alberi, piante, insetti, rettili o
qualunque altra cosa – è invero la vostra nascita, e la loro morte la vostra
morte. Nel livello in cui tutto è contenuto dentro di voi e voi siete presenti
in tutto, c’è solo l’Uno, Lui soltanto.
Supponete di poter visualizzare
alcune delle vostre vite precedenti: la vostra visione sarà numericamente
limitata. Se ricordate la storia delle vostre vite precedenti significa che
conoscete soltanto il corso delle vostre vite individuali, nei loro tempi e
luoghi circoscritti; ma non siete consapevoli dei vostri movimenti o gradi
statici nell’intero universo. Potete vedere i ‘molti’, ma come andrete oltre la
molteplicità? Trovando il vostro Sé nei molti! Chi è quel Sé? Lui, nessun altro
che Lui. Fino a quando Lui, il Sé, non viene rivelato, siete imprigionati entro
dei confini; confine significa ignoranza, e dunque c’è oblio.
Domanda: State
suggerendo che dobbiamo raggiungere lo stato della Divinità (Ishvarakoti)?
Mataji: Non si
tratta di questo; finché rimane il velo dell’ignoranza è impossibile. Voi
stesso dovete accertare se quanto detto si riferisce all’Ishvarakoti o al sadhakakoti!
Domanda: Chi è
stabilito nel Sé dimentica naturalmente il mondo?
Mataji: Nel regno
dell’oblio si dimentica; finché v’identificate con il corpo (deho), è
nella vostra natura gridare: “Dai, dai” (‘deo, deo!’). Dite:
“Dai!” perché siete nel bisogno. Laddove esiste il bisogno dev’esserci
necessariamente errore ed ignoranza; e dove c’è errore ed ignoranza ci sarà
certamente oblio. Quando praticate sadhana per realizzare il Sé o
piuttosto quando, per grazia di Dio, la sadhana avviene – poiché poter
impegnarsi nella sadhana è la grazia di Dio – allora, dopo aver
superato strato dopo strato d’ignoranza, realizzerete: “In verità Io sono il
tutto”. Io sono: ecco perché ci sono alberi, piante e tutto ciò che esiste, per
quanto molteplice. In effetti ogni singola forma è quest’Io.
Quando sono
cosciente della separazione, la mia espressione naturale è volere. Anche in
questo stato Io sono infinito. Nella stessa forma del corpo vi sono infinite
varietà di stati d’animo e innumerevoli modi d’espressione. Invero, tutte le
forme esistenti sono infinite, e anch’Io sono infinito. Vedo che tutte le forme
e i segni particolari sono me: perciò Io esisto eternamente. Ho scoperto di
avere tante forme – forme davvero infinite, con infiniti modi d’apparire. Esse
esistono dentro di me in un’infinita diversità di modi, e tuttavia Io stesso
sono tutte queste. Dentro di me esiste separatamente ogni tipo di
manifestazione – niente è escluso da questa varietà infinita. Quando il simile
si percepisce direttamente e tutti gli aspetti molteplici si riconoscono come
un tutt’uno, allora l’Uno sarà certamente rivelato. Come si può distinguere
l’Uno dall’infinita molteplicità? Il molteplice esiste nell’Uno e l’Uno nel
molteplice.
Ecco perché quando
potrete visualizzare cinquecento vostre nascite precedenti, sarete ancora
limitati dal numero: c’è molto più di questo! Quando vi scoprirete in tutte le
innumerevoli forme, realizzerete che il Signore è presente in ognuna di esse.
Quando si rivelerà pienamente la natura essenziale dell’infinito e del finito,
vedrete che c’è finito nell’infinito e infinito nel finito. Allora potrete
risolvere la polarità di Sakara (Dio con forma) e Nirakara (Dio senza
forma).
Se per l’individuo
non ci fosse il velo dell’ignoranza, come si potrebbe realizzare il lila di
Dio? Quando s’interpreta una parte, bisogna dimenticare se stessi; il lila non
potrebbe continuare senza il velo coprente dell’ignoranza. È naturale che ci
sia il velo. Il mondo è la percezione, da parte dei sensi, di ciò che viene
proiettato (srishti-drishti). Essere un individuo separato significa
essere legato, e ciò che lega è il velo dell’ignoranza. Qui c’è la chiave
dell’oblio, di cui avete chiesto.
Quando parlate di
nascite precedenti, intuitivamente sentite: “C’è mai stato un tempo in cui non
esistevo?”. Siete voi a parlare in termini di ‘prima’ e ‘dopo’, poiché siete
confinato nel dominio del tempo. In realtà non si tratta di essere ‘nel tempo’
e ‘fuori del tempo’, nel giorno e nella notte, ‘prima’ e ‘dopo’. Fino a quando
si rimane schiavi del tempo, ci sarà nascita e morte; in effetti non esiste una
cosa come la rinascita. Ad un certo punto, tuttavia, ci sarà sicuramente la
memoria delle vite precedenti; ma qual è il significato di ‘prima’ e ‘dopo’,
giacché io esisto per l’eternità?
Domanda:
Avanzando lungo il sentiero dell’advaita si acquisiscono le vibhuti (poteri
sovrannaturali)?
Mataji: Se ad un sadhaka
che aspira allo stato di perfetta unità (advaita sthiti) offrissero
i poteri sovrannaturali, questi non li accetterebbe; mentre l’aspirante che
adora Dio con forma e attributi accetterà qualunque potere psichico gli venga
concesso, considerandolo una manifestazione dell’Uno. Nel corso della sadhana,
questi poteri sono destinati a svilupparsi perché rappresentano il frutto
dei propri sforzi. La parola ‘vibhuti’ indica le varie manifestazioni
dell’Onnipervadente (Vibhu). Per questo è semplicemente
naturale e certo che le vibhuti debbano manifestarsi. L’aspirante però
deve fare attenzione a non farsi possedere da questi poteri, perché allora il
suo progresso s’arresterebbe a quel punto.
Il ricercatore che
segue il sentiero dell’advaita non accetterà la dualità. D’altra parte,
chi contempla Dio-con-forma non accetterà la non dualità; ma, nel corso della
sua pratica, arriverà a comprendere che l’Unica Forma suprema si rivela in
tutte le forme. Ciò che è chiamato Nirguna, il Senza-Attributi, sarà
ugualmente rivelato nella sua pienezza e allora ci sarà la conciliazione
dell’apparente contrasto tra Sakara e Nirakara.
Una volta raggiunto
un certo stato, quando la molteplicità scompare, non bisogna confonderlo con la
realizzazione del Sé. Per chi segue il metodo dell’advaita, la realizzazione
dell’Unico Sé si ottiene con il viveka e il vairagya. Quando sono
state distrutte tutte le differenze e ogni cosa è confluita nell’Uno, si
consegue uno stato di realizzazione che alcuni chiamano advaita sthiti (stato
di unità assoluta). Il mondo sempre mutevole – coi suoi diversi movimenti e
stati di riposo, e tutte le sue diversità – svanisce completamente: solo l’Uno
rimane. Là i ‘molti’ semplicemente non esistono; c’è solo l’Unica Realtà
Suprema (Brahman), il Sé (Atman). Questo è lo stato dell’advaita.
Espresso da un
diverso punto di vista, tutto è pura Coscienza (cinmayi) e
nient’altro che questa: nama, dhama – tutto. Forma, diversità e
apparenza sono realmente Coscienza, e di fatto immateriali (aprakrita).
In questo stato non vi sono ‘altri’, Lui soltanto esiste come l’Unica Forma
Suprema. Qui non c’è posto per la diversità, come viene percepita dal punto di
vista del mondo. La parola ‘vibhuti’ è formata da ‘vibhu’ (Lui
soltanto come l’Unica Forma) e ‘ti’, che sta per ‘Tini’ (Lui), e
significa che l’Onnipotente rivela Se stesso nei molti come l’Unica Forma
Suprema – come il ghiaccio nell’acqua e l’acqua nel ghiaccio. Se non ci fosse
l’acqua, da cosa si potrebbe formare il ghiaccio? Se non fosse nella natura
dell’acqua solidificarsi in certe condizioni, come potrebbe esistere il
ghiaccio? In altre parole: tutto è in Lui, e Lui è in tutto, espresso da ‘Sarvam
khalvidam Brahman’ (Tutto questo è Brahman). Il ricercatore
che realizza se stesso come l’eterno servitore è in uno stato di non dualità.
‘Eterno servitore’ indica che in questa relazione non c’è nulla di transitorio.
QUELLO Si manifesta come forme e modi di essere. Se chi aspira al Senza-forma
Lo realizza come l’Uno-senza-secondo, ma non riesce a realizzarLo nel campo del
Suo gioco divino, non avrà una realizzazione completa, poiché non ha risolto il
problema della dualità.
Qui sono stati
descritti diversi metodi d’approccio, ma la realizzazione dev’essere totale,
deve abbracciare tutto e bisogna riconoscere il proprio Sé in tutto. L’albero
produce un germoglio, e da quel germoglio si sviluppa un albero. Un piccolo
germoglio contiene potenzialmente un grande albero; e quando quell’albero
produce nuovi germogli, è tornato di nuovo a se stesso. (Nessuna
similitudine è perfetta; bisogna prendere solo l’aspetto pratico). Il
fatto che l’Uno è in tutto e che tutto è nell’Uno dev’essere rivelato
simultaneamente. È e non è, e tuttavia non è né non è. Come può essere?
Guardando un seme si vede soltanto il seme, non la pianta né altro; ma quando
l’albero si è sviluppato porta foglie, fiori e frutti; allora c’è un’infinita
varietà di vegetazione. Nel seme come tale non esiste altro, perciò si può dire
‘non è’; ma quando diventa un albero c’è tutto. Dire: “Ciò che non esiste ora
non esisteva in passato” è ugualmente corretto; tuttavia non si può dire che
non esiste, poiché ciò che è apparso una volta è; dunque non è perché non era.
Come può essere possibile tutto questo?
QUELLO si manifesta
in un’infinita varietà di modi ed anche come un Tutto globale. Dov’è il
linguaggio per poter esprimere tutto questo? Si dice che c’è l’essere e il
non-essere, e ancora né l’essere né il non-essere. La stessa Verità
inesprimibile viene sperimentata in due modi: come il Silenzio che splende di
luce propria o come il gioco eterno dell’Uno, nel quale Lui stesso interpreta
tutte le parti. Prima è stato descritto uno stato in cui tutto viene bruciato e
trasformato nell’Uno, al punto che malgrado ogni ricerca non se ne può trovare
traccia. Dire che tutto è stato trasformato nell’Uno significa che è rimasto
ancora un elemento d’oscurità, e questa non è certo la realizzazione del Sé. Il
regno della pura Coscienza non è ancora venuto. Non è possibile sapere quando
si emergerà da questo ‘stato d’oscurità’.
Una volta conseguito
il regno della Pura Coscienza, la forma si rivela come la stessa Essenza. Ciò
che dal punto di vista del mondo era dolore diventa poi viraha, separazione
da Quello – in altre parole, il tormento di esistere in una forma particolare.
Questa separazione è senza fine, e si manifesta in modi sempre nuovi. Questo
universo è venuto in essere per un semplice movimento dell’immaginazione di
Dio. Che cos’è in effetti questa creazione? Lui Stesso, l’Uno; allora perché ci
sono distinzioni, perché devono esserci ‘altri’? Non vi sono ‘altri’! L’oceano
continua nella goccia. Come può essere? Quando l’Uno Si rivela in una forma (vigraha)
– per esempio, come Radha-Krishna – questo vigraha esiste
eternamente. Dove? A Vrindavan. Per chi ha sciolto i nodi del cuore esiste solo
Vrindavan, e nient’altro. Ciò che avete realizzato come lila è infinito;
e come si conoscerà quest’infinità? Rifiutando il mondo e tutto ciò che
appartiene ad esso? Sri Ramakrishna Paramahansa disse: “La Grande Madre danza”.
Chi è un vaishnava?
Chi vede Vishnu ovunque. L’idea che il mondo abbia un limite è illusoria;
di conseguenza, la concezione di molti poteri differenti è un’illusione. Voi
avete creato la distinzione tra naturale e sovrannaturale; in realtà tutto è
solo il Suo lila. Egli va trovato in tutto. Il sovrannaturale non è separato
dal resto. Se si rimane confinati entro i limiti, il proprio cuore non può
diventare Vrindavan. Quando avviene la realizzazione c’è solo Vrindavan, solo
Shiva, assoluta non dualità: solo allora si può dire che l’intero universo è il
Suo gioco divino. La Prakriti, che spinge l’individuo a distinguere tra
‘questo’ e ‘quello’, è anche Sua. Nello stato di puro Essere non c’è più la
distinzione tra naturale e sovrannaturale. Quando la Coscienza si rivela nella
sua unità indivisa, alcuni si trovano in un puro Silenzio Autocosciente (advaita),
mentre ad altri Essa si presenta come il Suo gioco divino. Egli è forma (vigraha)
e nello stesso tempo non lo è. La parola samagra (intero, completo)
indica che sama (uguaglianza) viene per prima cosa (agra). Se non
si è realizzato che prima di tutto viene l’uguaglianza, significa che si guarda
ancora dal punto di vista del mondo, che non è advaita. Al contrario, il
conseguimento dell’advaita significa il recupero del proprio stato
originario.
Nella vita del mondo
si è sommersi dal dolore e dall’afflizione – sommersi vuol dire oscurati (dal
velo). Tutto questo viene lasciato dietro e c’è solo QUELLO. La Sua Presenza si
rivela in tutto; si realizza che è solo Lui che appare come essere e come
divenire. Chi è il pratibimba (riflesso) della Realtà? Sempre e solo
Lui. In questo stato chi può causare dolore o ansietà? Tutto il vostro essere è
ora in uno stato di completa unione. Il dolore che vi ha reso infelici oggi è
diventato la separazione dall’Uno. Il dolore mondano viene per il senso di
bisogno, ma consumarsi per Dio è la vera natura dell’uomo.
Quali sono le
esperienze di un ricercatore che contempla Dio con forma e attributi? Viene
dapprima preso soltanto dalla divinità particolare (murti) che adora;
poi, progredendo, comincerà a chiedersi: “Il mio Amato è così piccolo? No,
invero Egli è in Rama, Krishna, Shiva, Durga e in tutte le altre divinità. Il
mio Signore ha molte facce”. In uno stadio ulteriore egli realizzerà che il suo
Amato si trova in tutte le creature, e che ogni creatura è in Lui. In questo
pellegrinaggio vi sono tante linee d’approccio, e in ciascuna di esse vi sono
molti stati e stadi. Lo sviluppo lungo una particolare linea è descritto come
segue: all’inizio si è convinti che nessuno può essere paragonato alla divinità
prescelta. Se all’inizio non prevalesse quest’attitudine non si potrebbe
sviluppare una devozione profonda. A poco a poco, con il crescere della propria
fede e devozione, il ricercatore arriverà a sentire che il proprio Amato non è
altro che l’Uno. L’intenso amore e l’intensa venerazione non permetteranno che
di Lui si abbia una concezione ristretta. L’umiltà e la devozione del sadhaka
aumenteranno e infine realizzerà che in effetti l’Uno è in tutto e che
tutto è in Lui. Scoprirà nell’Uno la forma del suo Amato. Dal seme è cresciuto
l’albero, e l’albero ha prodotto di nuovo lo stesso seme.
‘Devo bhutva
devam yajet’. (‘Solo
identificandosi con il Signore si può adorarLo’). Compiere ancora l’adorazione
della propria divinità particolare dopo avere realizzato il Sé, quando si è
rivelato il proprio Essere essenziale, significa compiere la propria
adorazione. Questo è il lila.
Domanda: Il lila
di chi?
Mataji: C’è solo il lila
di Dio. Di chi potrebbe essere?
Benares, 20 marzo 1949
Domanda: Se Dio
non è differente dal mondo, perché porre tanta enfasi nel sostenerlo?
Mataji: Non vi è
alcuna enfasi; la questione se il mondo esista o meno non si pone.
Interlocutore:
Alcuni sostengono che la visione dei muni e dei rishi che realizzarono il
Brahman era incompleta, perché si erano estraniati dal mondo. Affermano anche
che il mondo rimarrà così com’è, con nome e forma; questo sembra impossibile
quanto dire che una tazza d’argilla sia d’oro.
Mataji: Quelli che
hanno tali opinioni non hanno raggiunto l’Unità; si tengono lontani dal mondo e
tuttavia parlano di salvarlo. Vorrebbero stabilire un nuovo regno, anche se in
realtà non hanno idea di cosa sia il mondo. Realizzando che l’intero universo è
Quello e nient’altro che Quello, esso si trasforma; questo è tutto ciò che si
può dire. Affermare che il mondo rimarrà sempre com’è adesso, significa che il
mondo è ancora percepito come tale. Cosa si guadagna o si perde discutendo del
mondo? Non si tratta di negare l’esistenza del mondo, dicendo che è estraneo a
Dio; e non si tratta neppure di sapere se esiste oppure no.
Si dice che Lui sia
tanto nella diversità quanto nell’Unità, come l’acqua e il ghiaccio. Laddove
l’acqua è chiamata ghiaccio, vale a dire dove appaiono spazio e forma, lì la
forma è sempre Lui. Perché non capite? Il vapore come vapore non diventerà mai
acqua come tale.
Interlocutore:
Fino a quando rimane valida la teoria dell’evoluzione, c’è sia la diversità sia
l’identità.
Un altro: La
conoscenza del mondo è quella del molteplice, la Conoscenza della Realtà
(Brahmajnanam) è quella dell’Unità; come possono coesistere nello stesso posto?
Interlocutore:
L’unità della realtà non è in contraddizione con la molteplicità. Parlando in
generale si possono distinguere quattro piani:
1) Appare
soltanto il mondo; in altre parole, diversità. Questo è il piano
dell’ignoranza.
2) A volte appare
il mondo o la molteplicità e altre volte l’Unità, che è la Realtà. Nello yoga
questo è il piano del nirvikalpa samadhi.
3) Appare il
mondo, che riposa in Brahman.
Mataji:
Ma c’è ancora ‘apparenza’!
Interlocutore: Il
mondo non c’è! Ecco come appare. Quando la luce rimuove l’oscurità, come si può
percepire ancora l’oscurità? Brahman è il compimento di ognuno e non
l’ostacolo. La stessa Caitanya (Pura Coscienza) è questo e quell’oggetto; ma
per la persona di prima ci sono due cose: la forma e la Pura Coscienza. Io però
dico che ciò che appare come forma è solo Pura Coscienza.
Mataji:
Anche così, dovete parlare di forma.
Interlocutore:
Sì, parlo di forma perché vedo la sua essenza. Mio figlio recita la parte di
Rama, tuttavia so che è mio figlio. Se quando si realizza Brahman la conoscenza
del mondo non rimanesse, allora non si potrebbe stabilire la possibilità della
jivanmukti (che è un fatto), per la semplice ragione che per tale individuo il
contatto con il mondo sarebbe impossibile. Per lui fuoco e acqua sarebbero
espressioni dell’unico Brahman; di conseguenza potrebbe inghiottire fuoco
invece di bere acqua.
Secondo alcune
dottrine, finché si percepisce ‘questo’ (il mondo) non si è ancora raggiunta
la perfezione. C’è uno stato al di là di questo in cui non c’è più dualità e si
è stabiliti sul piano dell’Unità. Questo va inteso come il quarto dei quattro
piani menzionati prima. (Questi piani sono differenti dai sette piani di cui si
parla nello yoga).
Considero il
terzo piano – vale a dire il gioco della dualità radicata nell’Unità – il più
alto. In altre parole, in quel piano c’è unità nella dualità e dualità
nell’unità. Chi è liberato può venire in questo mondo e agire apparentemente
come un uomo comune, mentre la sua realizzazione rimane perfettamente integra.
‘Sarvam kalvidam Brahman’ (Tutto
questo è Brahman) e ‘neti, neti’ (‘non questo, non quello’) non sono
affatto in contraddizione. In quel piano, il tutto e le parti esistono nello
stesso luogo, sebbene ci sia differenza tra i due: fiori e foglie sono
differenti, ma appartengono allo stesso albero. Ecco perché non riconosco la
differenza di una parte dall’altra né delle parti dal tutto. Sbaglio ad intendere
le cose in questo modo?
Mataji: Tutto ciò
che si dice è giusto, dal punto di vista dal quale viene detto. Nel dhyana o
samadhi si perviene a uno stadio in cui non c’è neppure la possibilità
di percepire un secondo oltre l’Uno. Là non può esserci il comportamento che
nasce dalla dualità. Ciò a cui ci si riferisce qui è uno stato in cui non c’è
movimento, sebbene sembri che ve ne sia. Come potrebbe essere possibile il
movimento qui? Quando si vede un individuo liberato impegnato nell’azione,
qualcuno potrebbe osservare: “È disceso per qualche missione particolare”.
Quando un laureato legge l’abbiccì, perde per questo il suo stato di laureato?
Vi è uno stato in cui assolutamente nulla può apparire come un ‘secondo’.
Immergendosi nel Gange si è destinati a bagnarsi completamente.
Una volta stabiliti
nel puro Essere, non ci s’allontana più da Esso; tuttavia, prima che il proprio
stato pervenga alla perfetta maturità, si possono avere delle cadute
occasionali. Ma quel che è stato realizzato una volta riporterà, per così dire,
l’individuo a Se Stesso. In questo stadio si oscilla tra due direzioni; ma è
uno stato meraviglioso, non d’ignoranza. Lo stadio successivo è il bhava; ci
si entra e se ne esce di continuo, ci s’immerge e poi si galleggia ancora una
volta in superficie. Andando ancora oltre, si supera anche questo stadio e si
diventa assolutamente inerti, come un sasso. Se non si è pervenuti a
quest’inerzia simile alla pietra, ma si fa ancora esperienza del fervore
estatico – con i suoi alti e bassi – non si è raggiunto uno stato perfetto,
anche se è sovrannaturale. È come stare in una stanza fresca e poi uscire fuori
al caldo. Viene poi la perfezione, l’immersione completa e finale. Quando c’è
questa, chi l’ha acquisita viene visto ancora muoversi e agire come voi, ma in
effetti non va da nessuna parte né mangia né percepisce alcunché.
Interlocutore:
Sembrerebbe una contraddizione in termini: mangia eppure non mangia, si muove
eppure non si muove. Come può essere?
Mataji: Una volta
immersi, ci si deve stabilire in quello stato in cui l’interno e l’esterno si
fondono in un’unica cosa. Io mangio come fate voi, mi muovo come fate voi. Se
si avverte che l’affermazione ‘mangia e tuttavia non mangia’ è contraddittoria,
allora la ‘realizzazione’ del Brahman è frammentaria. Non c’è
spazio per la contraddizione. Come può essere limitata l’Unità? Con la
limitazione si spezzerebbe! Ecco perché è stato detto che non è questione di
mangiare o non mangiare, e così via. È comunque difficile capire, anche in
parte, se si sta dormendo o si è in samadhi. Oro e ottone
sembrano più o meno uguali; ma quando si tocca l’oro si è trasformati in esso.
Come potrebbe chi
vive sul piano del Brahman vedere le differenze insignificanti?
Percepite l’incongruenza a causa della vostra visione parziale. Non si tratta
di avere realizzato o di essere nell’ignoranza. Se qualcuno si definisce un
‘uomo di realizzazione’, con ciò assume una certa posizione. Che significa
realizzazione del Sé? Conoscenza, totale e illimitata in tutti i sensi. Viene rivelato
ciò che siete stato, o meglio, ciò che siete in realtà. Da qualunque linea
d’approccio o attitudine mentale si possano vedere le cose, tutto è giusto.
Come dite: “Egli cammina senza piedi e vede senza occhi”. Se è limitata da
qualche posto o condizione, da qualche forma o modo, per inclusione o
esclusione, la realizzazione non è piena, non è completa. Quel che s’esprime da
un certo punto di vista è considerato da quell’angolo particolare, in maniera
particolare, perché spazio e tempo sono rimasti. Questo corpo non falsifica le
cose, ma dice l’esatta verità. Tutto è giusto, dal punto di vista dal quale
viene detto.
Interlocutore: Se, come dite, tutto è giusto, allora
se una persona che desidera avere il darshan di Visvanath va in un tempio di
Durga e dice: “Questo è Visvanath” è nel giusto?
Mataji:
Ad un certo livello si può giustamente dire: “Sì, questo è Visvanath”, perché
in quel momento sarà Visvanath (Shiva).
Il Visvanath che ha
pensato nella sua mente Si rivelerà esattamente simile al Visvanath limitato
dal tempo e dallo spazio, poiché tutto è contenuto nel tutto; ma si può anche
dire che Visvanath non si trova in un tempio di Durga. La verità può essere
espressa in tanti modi. Si può dare ogni tipo di risposta.
Interlocutore: Se tutto ciò che si dice è giusto,
allora perché Shankaracharya, che era un uomo di realizzazione (Brahmajnani),
confutava le argomentazioni dei suoi avversari?
Mataji: Quando è necessario che una cosa sia fatta, sarà certamente fatta. La cima dell’albero contiene le sue radici, perché i semi sono presenti ovunque; non c’è contraddizione.
Mataji: Volete
sapere se la grazia (ahetuka kripa) è senza causa o motivo?
Certamente, perché la grazia è per sua stessa natura al di là di ogni causa o
motivo. Quando si agisce, si raccoglie il frutto delle proprie azioni. Se, per
esempio, servite vostro padre e questi, compiaciuto del vostro servizio, vi fa
un regalo, questo sarà il frutto dell’azione: si fa qualcosa e in cambio si
riceve qualcos’altro. Ma la relazione eterna che esiste per natura tra padre e
figlio non dipende da alcuna azione. Dio è davvero il Padre, la Madre e l’Amico
Supremo. Come potrebbe dunque esserci una causa o un motivo per la Sua grazia?
Voi siete Suo, e in qualunque modo Lui possa attirarvi a Sé, è solo per amore
di rivelarvi Se Stesso. Chi è stato ad instillare il desiderio di trovarLo che
si desta nell’uomo? Chi vi spinge ad agire affinché esso si realizzi?
Dovete capire che
ogni cosa origina da Lui. Qualunque potere, qualunque abilità possediate –
anche voi stesso – da dove nasce? Non hanno tutti lo scopo di trovarLo, di
distruggere il velo dell’ignoranza? Tutto ciò che esiste ha origine in Lui
soltanto; perciò dovete cercare di realizzarvi. Siete padroni anche di un solo
respiro? In qualunque misura, anche minima, Egli vi faccia sentire la libertà
d’azione, se capite che questa libertà va usata per aspirare a realizzare Lui,
sarà per il vostro bene. Se invece vi credete l’autore delle azioni e pensate
che Dio sia molto lontano e, per la Sua apparente lontananza, agite
gratificando i vostri desideri, questa è un’azione sbagliata. Dovete
considerare tutte le cose come Sue manifestazioni. Quando riconoscerete
l’esistenza di Dio, Egli vi Si rivelerà pieno di compassione, di carità o di
misericordia, secondo l’attitudine che avrete verso di Lui in quel momento; ad
esempio, per l’umile Egli diviene il Signore degli umili.
Se dite: “Egli è
immutabile e tuttavia agisce”, pensate che agisca quando in realtà non ha
azione; poiché il vostro ego si vede come agente, pensa che anche Lui compia
delle azioni.
Egli è qualunque
cosa pensiate che sia, certo. D’altra parte – pensate – dov’è Quello, chi
dev’essere l’autore di quale azione, e su cosa dovrebbe agire? Egli cammina
senza piedi, vede senza occhi, ascolta senza orecchie e mangia senza bocca – in
qualunque modo possiate descriverLo, è così.
Quando un sadhaka
comincia ad adorare il vigraha del suo Amato, nel corso della
pratica perverrà ad uno stato in cui vedrà la forma dell’Amato ovunque cadano i
suoi occhi e realizzerà: “Tutte le altre divinità sono contenute nel mio
Amato”. Vede che il Signore di ognuno e tutte le cose sono contenute nel
proprio Ishta, e che il suo Ishta risiede ugualmente in tutte le
divinità e, di fatto, in ogni cosa. Il sadhaka arriva a sentire: “Così
com’è dentro di me, allo stesso modo il mio Signore è veramente presente in
ogni altro individuo. Il mio Amato è ovunque nell’universo – nell’acqua, nella
terra, negli alberi, negli arbusti e nei rettili; inoltre, non sono espressioni
del mio Amato tutte le varie forme e modi di essere che vediamo? Non c’è altro
che Lui. Egli è più piccolo del più piccolo, e più grande del più grande”.
Spinto da diverse
tendenze innate, ciascuno di voi adora una divinità differente. Il vero
progresso nel campo spirituale dipende dalla sincerità e dall’intensità della
propria aspirazione. La misura del progresso spirituale di una persona si
rifletterà nelle manifestazioni concesse dal suo Ishta, che in nessun
modo rimarrà inaccessibile o separato dal Suo devoto, ma Si lascerà contattare
in un’infinita varietà di modi. Per quanto condizionato, troverete il Tutto
dentro di voi e sarete in grado di comprendere che le vostre tendenze innate
sono ugualmente parte di questo Tutto. Quanto è stato detto rappresenta un
punto di vista. Non potete dissociarvi dal Tutto.
Che cosa sono i
diversi tipi di animali, uccelli, uomini e così via? Cosa sono queste varietà e
forme di vita, che cos’è l’essenza dentro di loro? Che cosa sono in realtà
queste forme sempre mutevoli? Con gradualità, lentamente, poiché siete presi
nella contemplazione del vostro Amato, Egli Si rivelerà a voi in ognuna di
queste forme; nemmeno un granello di sabbia sarà escluso. Realizzerete che
acqua, terra, piante, animali, uccelli ed esseri umani sono solo forme del
vostro Amato. Alcuni ne fanno esperienza in questo modo. La realizzazione però
non viene a tutti nella stessa maniera. Ci sono infinite possibilità. Il
sentiero specifico lungo il quale l’Universale si rivelerà ad ogni singolo
individuo nella sua illimitatezza rimane ignoto alla persona comune.
Riguardo ciò che
avete appena udito nel discorso sullo Srimad Bhagavatam circa il corpo
universale del Signore, che comprende ogni cosa – alberi, fiori, foglie,
colline, montagne, fiumi, oceani e così via – verrà il tempo, dovrà venire, in
cui l’individuo percepirà di fatto la Forma Universale dell’Uno che pervade
tutto. La varietà delle Sue forme e apparenze è infinita, incalcolabile,
interminabile. “Colui che ha molte forme, e che costantemente crea e distrugge
le Sue forme, è l’Uno che adoro”. Nella misura in cui crescerete nel
riconoscimento sempre più pieno e vasto di questa verità, realizzerete la
vostra unità con ciascuna di queste innumerevoli forme. In quest’immensità vi
sono diverse forme, diversi modi, manifestati in maniere differenti, senza
fine, senza numero – e tuttavia c’è fine e numero. Quando un sadhaka entra
in questo stato, diviene consapevole della continua trasformazione di tutte le
forme e di tutti i modi. Egli si desta alla vera comprensione, vale a dire
realizza che lo Stesso Supremo si manifesta come il potere di comprensione.
Quando la corrente del proprio pensiero, che era diretta verso le cose del
mondo, viene invertita e rivolta all’interno, lo stesso Uno si rivela come la
‘capacità segreta’. Guardate il mondo sempre mutevole, nel quale ciò che esiste
in un dato momento non esiste il momento dopo, nel quale l’essere entra
continuamente nel non-essere. Chi è dunque questo non-essere? Esiste anche il
non-esistente.
A questo proposito
bisogna dire che se si vuole trovare la Verità, ogni cosa dovrà essere
realizzata così com’è, al proprio posto, senza scegliere una cosa piuttosto che
l’altra. È un regno senza fine, nel quale anche ciò che si percepisce come non
esistenza è ugualmente un’espressione dell’Uno. Nel Cinmayi, il
mondo puramente spirituale, tutte le forme – quali che siano – sono sempre
eterne. Simultaneamente e nello stesso luogo c’è sia la non-esistenza sia
l’esistenza, ed anche né la non-esistenza né l’esistenza – e ancora di più, se
potete andare oltre!
Come il ghiaccio è
solo acqua, così l’Amato è senza forma e senza qualità; quindi la questione
della manifestazione non si pone. Una volta realizzato questo, si è realizzato
il proprio Sé. Trovare l’Amato, infatti, vuol dire trovare il mio Sé, scoprire
che Dio è la cosa più intima, assolutamente identico al mio Sé più profondo, il
Sé del mio Sé. In conformità alle esigenze del tempo e delle circostanze,
possono verificarsi varie possibilità: per esempio, la rivelazione dei mantra
ed anche di tutti i Veda da parte degli antichi rishi, che
furono i veggenti dei mantra. Tutto questo accade in accordo con il karma
dell’individuo e con la disposizione interiore della persona interessata.
Quando un sadhaka
realizza cosa sono essenzialmente la forma e l’assenza di forma, si ha
davvero una realizzazione perfetta. Egli viene a conoscere cos’è il bhava, la
relazione interiore della forma con lo Shabda Brahman, i numerosi tipi
di linguaggi – infiniti nella loro varietà – e realizza anche che il linguaggio
è lo Shabda Brahman. Davanti a lui si manifestano innumerevoli tipi di
suoni, ciascuno nella sua caratteristica forma visiva; è così che tutte le
forme diventano visibili. Nello stesso tempo la forma in realtà è vuota; si
capisce che libertà dalla forma significa realizzare che la stessa forma è il
vuoto. In tal modo il mondo si rivela come vuoto, prima di fondersi nel Grande
Vuoto (Mahasunya). Il vuoto che si percepisce all’interno del
mondo è una parte di prakriti, e dunque ancora forma. Da questo vuoto si
deve procedere fino al Grande Vuoto.
La percezione del
mondo, basata sulla vostra identificazione con il corpo e la mente, finora è
stata la fonte della vostra schiavitù. Verrà il tempo in cui questo tipo di
percezione svanirà davanti al risveglio della coscienza universale, che si
rivelerà come un aspetto della Conoscenza Suprema. Cosa succederà alla stessa
Essenza, quando ci sarà la conoscenza dell’Essenza delle cose? Rifletteteci!
Quando sorgerà l’intuizione della forma e del senza forma in tutta la sua
immensità, tutto sarà sradicato. Trascendendo il livello in cui esistono forma,
diversità e manifestazione, si entra nello stato dell’assenza di forma. Come si
può chiamare? Dio, Divinità, lo stesso Paramatman. Man mano che il sé individuale
viene gradualmente liberato da tutte le catene, che non sono altro che il velo
dell’ignoranza, esso realizza la sua unità con lo Spirito Supremo (Paramatman)
e si stabilisce nel suo Essere essenziale.
Passiamo ora ad un
altro aspetto della questione. Ciascuno ha il suo sentiero. Alcuni di quelli
che avanzano lungo la linea del vedanta, quando progrediscono vedono
dischiudersi il sentiero dei rishi. Può dischiudersi lo stesso sentiero
dei rishi anche ad altri, le cui pratiche spirituali, rituali o yoga si
attuano con l’aiuto d’immagini e altri mezzi. Altri ancora, guidati da
voci e locuzioni del mondo invisibile, dapprima sentono queste voci come suoni
udibili, ma gradualmente le ascoltano in un linguaggio perfetto che rivela il
pieno significato di quanto è espresso. A poco a poco diviene chiaro che queste
voci nascono dal proprio Sé e che sono Lui Stesso che Si manifesta in quel modo
particolare. Quale che sia la linea d’approccio di un individuo, a tempo
debito, in un modo o nell’altro, gli si può dischiudere il sentiero dei rishi
o un sentiero simile. Ma dire in quale momento accadrà e a chi, è oltre la
comprensione della persona comune.
Supponete che un
uomo segua il suo sentiero specifico, che potrebbe essere l’adorazione di una
divinità. Chi è presente realmente in quella particolare divinità? Certamente
l’Uno, il Sé senza forma! Di conseguenza, come Lui è il Sé senza forma, così Lo
è l’oggetto concreto dell’adorazione.
Chi si è stabilito
pienamente nel Sé con il metodo del vedanta può trovare ugualmente la
Realtà Suprema nel vigraha, così come l’acqua è contenuta nel ghiaccio.
Vedrà allora che tutti i vigraha sono realmente forme spirituali
dell’Uno. Perché, cosa si cela nel ghiaccio? Acqua, naturalmente. Laddove Lui è
presente come Tutto, in quel ghiaccio vi sono fasi di scioglimento, come
ghiaccio solido e semisolido. Nel puro Sé, invece, non possono esservi stadi.
Anche se il ghiaccio può sciogliersi, è diventato ghiaccio ed è possibile che
esista di nuovo come tale; di conseguenza, per Colui che Si manifesta nella
forma del ghiaccio la questione di eterno e non-eterno non si pone. Per questo
si parla di dvaitadvaita, per indicare che il dualismo e il non dualismo
sono entrambi fatti – come voi siete nello stesso tempo padre e figlio.
Come potrebbe
esistere il figlio senza il padre o il padre senza il figlio? In questo modo si
capisce che nessuno dei due è meno importante dell’altro, e che qui non può
esservi distinzione tra più alto e più basso: c’è solo uguaglianza, identità.
C’è però un posto in cui si può effettivamente parlare di stati più alti e più
bassi. Ciascuno dei due punti di vista è in sé completo. (Nessuna
similitudine può essere applicata in ogni dettaglio, perciò considerate solo
quel tanto per cui è intesa). Sia l’acqua sia il ghiaccio
condividono la natura dell’eternità; così non c’è dubbio che Lui sia con e
senza forma. Quand’è con forma – cosa paragonabile al ghiaccio – Egli appare
sotto innumerevoli forme e modi, ciascuno dei quali è la Sua forma spirituale (Cinmayi
vigraba). Secondo la propria via d’approccio, si dà risalto ad una
forma particolare. Perché dovrebbero esserci tante differenti sette e
sottosette religiose? Attraverso ciascuna di esse Egli Si dona a Se stesso,*
affinché ogni persona possa avanzare secondo la sua unicità individuale.
Solo Lui è l’acqua e
il ghiaccio. Cosa c’è nel ghiaccio? Solo acqua. Secondo il dvaitadvaita, sia
la dualità sia la non dualità sono dati di fatto; da quel punto di vista c’è
sia la forma sia la libertà dalla forma. Ancora, quando si dice che c’è sia la
dualità sia la non dualità, quand’è valida quest’affermazione? Vi è certamente
un livello in cui differenza e non-differenza si percepiscono simultaneamente.
In verità Egli è tanto nella differenza quanto nella non-differenza. Dal punto
di vista del mondo si dà per certo che vi siano differenze. Lo stesso fatto che
vi sforziate di trovare il vostro Sé mostra che accettate la differenza,
poiché, alla maniera del mondo, vi pensate separati dal resto. Da questo punto
di vista, la differenza indubbiamente esiste. Allora il mondo è destinato
inevitabilmente alla distruzione (nasha), poiché non è né il Sé (na
Sva) né Lui (na Sha). Non può durare per sempre e,
tuttavia, chi è che appare, anche sotto forma dell’effimero? Pensateci. Che
cosa va e viene? Ecco, si tratta di un movimento simile a quello del mare (samudra),
Lui che esprime Se stesso (sva mudra). Le onde sono solo
l’alzarsi e l’abbassarsi, il movimento dell’acqua, ed è l’acqua che si forma in
onde (taranga) – in parti del Suo corpo (Tar anga) – in
essenza sempre acqua.*
Cos’è che fa
apparire la stessa sostanza in forme differenti, come acqua, ghiaccio e onde?
Ciò si chiede di nuovo da un particolare piano di coscienza. Riflettete e
vedete quanto potete capire! Nessuna similitudine è sempre valida in tutti i
sensi. Quale lezione avete effettivamente tratto? Scopritelo!
Avete compreso che
ciò che credevate con forma è anche senza forma; ma la realizzazione della
verità non può venire attraverso un processo intellettivo; capirete certo anche
questo.
Quanto detto implica
che Egli si manifesta eternamente, dispiegando forma e qualità, malgrado sia
senza forma e senza qualità; inoltre, poiché c’è solamente l’Uno-senza-secondo,
la questione degli attributi e della mancanza di attributi non può sorgere. Voi
parlate dell’Assoluto come Verità, Conoscenza, Infinità. Nel puro advaita non
può mai sorgere la questione della forma, della qualità o del predicato – sia
esso positivo o negativo. Quando dite: “Invero questo è Lui e anche quello è
Lui”, con la parola ‘anche’ vi siete limitato e di conseguenza accettate la
separazione delle cose come riferito prima. Nell’Uno non ci può essere ‘anche’.
Lo stato d’Unità Suprema non può essere descritto come ‘Quello ed anche
qualcos’altro da Quello’. Nel Brahman senza attributi non possono
esserci cose come la qualità o l’assenza di qualità; c’è soltanto il Sé.
Supponiamo che
sosteniate che Egli sia con qualità, incarnato. Quando vi concentrate
completamente sulla forma particolare che adorate, per voi il senza forma non
esiste – e questo è uno stato (sthiti). Vi è un altro stato in
cui Egli appare sia con attributi sia senza. C’è un altro stato ancora, in cui
esiste sia la differenza sia la non differenza – tutti e due inconcepibili – in
cui Lui è totalmente oltre il pensiero. Si può assumere anche il punto di vista
del Karmakanda vedico. Questo e tutto ciò che è stato detto prima fanno
parte dello Stato Supremo, del quale si dice che anche se il Tutto è preso dal
Tutto, il Tutto rimane Pieno. Non possono esservi addizioni né sottrazioni; la
totalità del Tutto rimane intatta. Qualunque linea possiate seguire rappresenta
solo un suo aspetto particolare. Ogni linea ha i suoi mantra, i suoi
metodi, le sue credenze e miscredenze – a quale scopo? Per realizzare Lui, il
vostro Sé. Chi o cosa è questo Sé? Secondo la vostra predisposizione, Lo
trovate nella relazione del perfetto servitore con il suo Maestro, della parte
con il Tutto o semplicemente nell’Unico Sé (Atman).
Ecco, se si crede in
Svayam Bhagavan, il Suo Potere Divino (Shakti) è già dato
per scontato. In questo caso distinguete tra Bhagavan e Bhagavati, tra
Dio maschile e il Suo potere femminile. Da un certo punto di vista non è
questione di maschile o femminile, ma da un altro punto di vista la divinità è
concepita divisa in questi due aspetti. La Vergine Eterna (Kumari) non
dipende da alcuno; Lei è l’Uno stesso come Potenza. Laddove la Realtà Suprema è
concepita come Shakti, è riconosciuta come pura Esistenza (Satta)
– con forma o senza forma – e la Potenza ne costituisce soltanto l’Essenza.
È ancora un altro punto di vista. La forma può emergere solo quando il bhava
(il desiderio di creare) si manifesta come kriya (azione). Anche
questo è un modo di vedere la cosa; inoltre se concepite la stessa Bhagavati
come Shakti, vi sono innumerevoli manifestazioni della Sua infinita
Potenza. La Mahashakti è la causa prima di tutto: creazione,
conservazione, dissoluzione. Come nel caso di un albero, in cui tutti i rami e
i ramoscelli provengono dalle sue radici, così tutti i tipi e ordini di
divinità, di angeli, arcangeli e così via, vengono in esistenza come
manifestazioni di quella Potenza.
Il carattere
specifico di Shiva è la trascendenza di ogni cambiamento e mutamento,
simboleggiato da un cadavere (shava), che significa che nella
morte della morte c’è l’Immortalità, cioè Shiva. Laddove c’è creazione, conservazione e dissoluzione, Lui
è presente come divenire ed è Lui Stesso a mantenere l’universo col nome di
Mahavishnu. Per quanto riguarda i diversi aspetti cosmici, Egli è davvero in
ciascuno di essi, manifestandoSi in diversi modi e come il senza forma.
Ciascuno di essi contiene tutto il resto, e in questa molteplicità si vede
l’Uno! Quando guardate una forma non potete vederne altre, ma in ciascuna di
esse è presente il Tutto, e ogni forma rivela l’Uno. Nel vuoto c’è pienezza, e
nella pienezza il vuoto. Ci sono possibilità di ogni tipo e descrizione, ma la
base è l’Uno, la Grande Luce. Egli è Infinito. Anche quando si parla
semplicemente di un sentiero, come se ne può trovare la fine? Quando però
l’individuo è incapace di procedere oltre, allora sembra che ci sia una fine.
Che cos’è la pura
Esistenza (Satta)? Il Sé, lo Spirito Supremo, chiamatelo come
volete. Ciò che chiamate Dio (Bhagavan), Maestà Divina, Gloria o
Splendore è solo Lui, l’Uno. Dio è immutabile, il non agente (akarta),
poiché non agisce. Solo chi è impegnato in un’azione può essere considerato
l’autore di quell’azione. Poiché è presente in tutte le cause e in tutti gli
effetti, come si può dire che li controlli o che non li controlli? In questo
caso Egli è senza azione; ma dov’è la Sua maya, dove si percepisce il
gioco della Sua Potenza e Maestà Divina e, dove la natura opera secondo leggi
stabilite, chi si manifesta là? L’Uno naturalmente. Mutabile e immutabile –
questi vostri punti di vista unilaterali appartengono al velo dell’ignoranza.
Parlate di Lui come dell’agente o del non-agente, e cercate di limitarLo
all’uno o all’altro. Dal vostro punto di vista è naturale percepire le
differenze. Lui è ciò che volete che sia; Lo vedete secondo il vostro modo di
pensare, e come Lo dipingete, così Egli è.
Fino a quando esiste
il sipario, il velo dell’ignoranza, si è costretti a vedere e a sentire in
questo modo limitato. Fino a quando non si rimuove l’oscuramento, come ci si
può aspettare che avvenga la totale rivelazione della Verità? Quando verrà
strappato il velo si rivelerà il fatto che anche la lacerazione del velo, e
invero tutto ciò che esiste o avviene da qualsiasi parte, è solo Lui.
I tanti credi e le numerose
sette servono a far sì che Egli possa donarsi a Se Stesso attraverso diversi
canali – ciascuno dei quali ha la sua bellezza – e a far sì che si possa
scoprire la Sua Presenza, che Si rivela nelle innumerevoli vie, in tutte le
forme e nel senza forma. Lui Stesso è il Sentiero, e attira ogni persona su una
via particolare, in armonia con le sue disposizioni e le sue tendenze
interiori. L’Uno è presente in tutte le sette, anche se in alcuni casi sembra
esservi conflitto tra esse, a causa delle limitazioni dell’ego.
Questo corpo,
comunque, non esclude nulla. Chi segue un particolare credo deve andare avanti
fino al punto da realizzare completamente tutto ciò che quel credo può dargli.
In altre parole, quando avanzate lungo una via, quando aderite ad una determinata
religione, fede o credenza – che concepite distinta e in conflitto con le altre
– dovete prima di tutto realizzare la perfezione indicata dal suo fondatore, e
ciò che è al di là si rivelerà spontaneamente.
Quanto è stato
appena spiegato è applicabile nel caso di ciascuna delle varie sette; è però
vero che se si rimane soddisfatti di ciò che si può conseguire seguendo una
via, lo Scopo della vita umana non è stato raggiunto. Ci vuole una
realizzazione completa e libera dal-l’antagonismo, che sradichi ogni conflitto
e divergenza d’opinione. Se è qualcosa
di meno, significa che l’esperienza è parziale, incompleta. Nel caso
della vera realizzazione, non possono esserci contrasti con alcuno; si è
completamente illuminati in tutte le fedi e dottrine, e si vede che tutte le
vie sono ugualmente buone. Questa è la realizzazione assoluta e perfetta. Fino
a quando c’è contrasto non si può parlare di realizzazione; nondimeno, bisogna
avere una fede risoluta nel proprio Ishta e seguire il sentiero scelto
con costanza e concentrazione.
Per quanto riguarda
il frutto dell’azione, in qualunque linea d’approccio, chi pensate si rivelerà
laddove c’è uno sforzo fatto senza interruzione e con una concentrazione
indivisa sull’unica Meta? Lui, l’Uno Indivisibile! Ma l’Uno Perfetto rivela Se
stesso anche nella pura azione. Questo è il vero significato di ogni azione,
dello sforzo, che è la caratteristica innata dell’individuo. La vera natura
dell’uomo lo spinge a fare azioni che le diano espressione; la sua vera natura desta
in lui il bisogno di compiere azioni di questo tipo. La vera natura dell’uomo, Sva,
Svayam, Atman – datele il nome che preferite – è il Supremo, Io Stesso.
*) – Un gioco di parole: sampradaya = setta religiosa; sama = pienamente; pradam kora = dare, offrire.